Le ragioni di Sangiuliano su “Dante patriota” e la letteratura che fonda le nazioni

La provocazione del ministro della Cultura è la verità di alcuni degli autori più illustri della cultura italiana, da Giovan Battista Vico a Giacomo Leopardi, da Giuseppe Mazzini a Giovanni Gentile

Dante Alighieri

Per averlo detto da ministro di un governo di destra, Gennaro Sangiuliano, com’era prevedibile, si è attirato gli strali politici della sinistra, ma che Dante sia uno dei padri ispiratori della cultura della destra è un dato assodato, e non da ora. Se per cultura della destra s’intende, secondo la definizione più comune, l’orizzonte immediato dell’essere, della tradizione, di una visione spirituale della vita, della nazione, della patria e della famiglia, chi si accosta alla poesia e al pensiero del sommo fiorentino non può non scorgervi l’anticipazione di un’istanza fortemente critica del divenire progressista, materialista e universalista. Un misto di nostalgismo poetico e di profezia messianica, come ebbe a definirlo Giovanni Papini, il grande scrittore non a caso apostrofato da Antonio Gramsci – a proposito di destra e sinistra – come un convertito al “gesuitismo”, inteso come “culto del Papa e organizzazione di un impero assoluto spirituale”, molto prossimo a quello del fiorentino. Chissà perché, poi, lo stesso Gramsci arrivò a dare del “porco” ad Achille Loira che si era permesso di accostare Dante a Marx!

La provocazione di Sangiuliano è la verità di alcuni degli autori più illustri della cultura italiana – da Giovan Battista Vico a Giacomo Leopardi, da Giuseppe Mazzini a Giovanni Gentile – tutti pronti a riconoscerlo se non come il “fondatore della patria”, come (giustamente) rimarcato da Marcello Veneziani, senz’altro come uno dei suoi “padri”. E l’amore per la patria, si sa, non è proprio un’attitudine cara alla sinistra, che da sempre la identifica con una “opinione” ereditata, acriticamente accolta e, in quanto tale, “sbagliata”. 

All’Aligheri, Vico riconobbe la capacità di raccogliere nell’“illustre volgare” le varie lingue sparse nella penisola italica e legare la lingua alla “nazionalità”, intravedendo, per effetto di questo felice connubio, la nazione italica come comunità culturale organica. 

L’inoppugnabile assunto del napoletano venne ripreso più tardi da Leopardi, il quale vedeva in Dante “per intenzione e per effetto” l’iniziatore della lingua italiana per averla applicata alla letteratura attraverso l’opera “dottrinale e gravissima del Convivio”. 

Chi mastica la materia sa che le identità divengono “nazionali” grazie proprio allo sviluppo della letteratura. Dovette riconoscerlo finanche un sociologo d’ispirazione marxista come Benedict Anderson, secondo il quale la letteratura è uno dei principali “parametri di riferimento” per la “costruzione” della nazione, da intendersi ovunque come “ricerca” di nuovi e significativi legami che tengono insieme “fraternità, potere e tempo”. 

E chi meglio di Dante avrebbe potuto dar corpo a una letteratura italiana come sostrato attivo della nazione? La sua mente fu l’alba del “Belpaese”, parola da lui stesso coniata e delineata nel suo patrimonio culturale, oltre che nei confini geografici ed esteticamente mediterranei, da Genova alla Sicilia. E se il De vulgari eloquentia è un vero e proprio inno alla patria di un poeta innamorato delle sue tradizioni e del suo avvenire, la Divina Commedia, nella sua incomparabile eccellenza, è, sin dal primo canto, l’unione delle “membra” italiche sparse per una penisola che raccoglie l’eredità dell’Impero Romano e della civiltà cristiana.

Sull’onda del mito della fondazione di Roma, Dante, strenuo difensore delle glorie d’Italia, fu il primo di una serie di scrittori “nazionalisti” a vagheggiare la rinascita di Roma come potenza imperiale e cattolica, la Roma dei Cesari e quella dei Papi. Lo stesso Stato unitario, in Dante, sorge non come legge naturale, ma come celebrazione della libertà di un popolo che si fa nazione. Ciò non sfuggì a colui che un padre della patria lo è stato per davvero, come Mazzini, secondo il quale la “grande anima” di Dante “ha presentito l’Italia” come “angiolo di civiltà alle nazioni, l’Italia come un giorno vedremo”. 

Non a caso Dante se la prendeva apertamente tanto con la “gente nova e i subiti guadagni”, ossia la nascente classe mercantile che anteponeva i propri interessi a quello nazionale, quanto con l’atavico fazionismo che divideva il corpo politico tra Guelfi e Ghibellini, Montecchi e Capuleti, Bianchi e Neri. Anche per questo fu Dante, prima ancora di Machiavelli e Guicciardini, l’antesignano dell’unità d’Italia.

Ma per cultura e temperamento Dante era anche un inconfondibile tradizionalista, sin dalla sua opera giovanile, La Vita Nova, che in un’alternanza di prosa e poesia, racconta la storia del suo amore per Beatrice come “spirito della vita”, “beatitudine” e specchio della “devozione” divina. Un amore sacro in vista di un matrimonio benedetto da Dio da cui origina la famiglia. 

Quanti strombazzano le nozioni moderne dell’amore e del libertinaggio sessuale e restano convinti che il matrimonio sia un impegno essenzialmente economico e un legame meramente giuridico, hanno poco da spartire con la tradizione “cortese” della poesia d’amore del sommo poeta. E non hanno veramente nulla da condividere con il pensiero politico di un autore che qualsiasi onesto intellettuale di sinistra non avrebbe difficoltà a definire un “reazionario”. 

E che dire della lettura che di Dante diede  Giovanni Gentile, il più grande filosofo italiano del Novecento, che Palmiro Togliatti – sempre a proposito di destra e sinistra – considerava un “camorrista”, addirittura un “corruttore di tutta la vita intellettuale”? Al fiorentino Gentile dedicò pagine dense, per fortuna raccolte in un prezioso e insuperato volume dal titolo “Studi su Dante” (edito da Le Lettere di Firenze). Gentile vedeva in Dante il pensatore dell’ordine provvidenziale che più di altri sentì la “patria nativa in cui gli uomini si fanno uomini spogliandosi del loro domestico egoismo”. Dante fu il primo a intravedere l’avvenire della patria: “serva ancora per secoli la sua Italia a causa delle intestine discordie, ma grande, tuttavia, alta, splendida agli occhi e al cuore di ogni nazione civile”.

Ce n’è quanto basta per ricordare ai critici di Sangiuliano, molti dei quali ancora devoti all’egemonia di gramsciana memoria, ormai passata di moda, che prima di parlare, rimbrottare e biasimare sarebbe stato utile un minimo esercizio di prudenza e documentata riflessione.

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