I limiti della crescita e le previsioni del Club di Roma. I problemi complicati dalla tecnica

A cinquant'anni dal primo rapporto prodotto dal sodalizio, una riflessione su ecologia e modernizzazione

Il club di Roma

Cinquanta anni fa il Club di Roma pubblicava il suo primo rapporto “The Limits to Growth” (I limiti della crescita o dello sviluppo come nella corrente traduzione), avvertendo che l’umanità intera avrebbe dovuto prendere coscienza al più presto che viviamo su un pianeta finito con risorse limitate. Quel saggio, com’è noto, finì per diventare una pietra miliare dell’ambientalismo. Ma la ricorrenza è passata pressoché ignorata dai media, dalla grande stampa come dalle TV, pubbliche e private.
Il rapporto fu realizzato per il Club di Roma da un gruppo di giovani studiosi coordinati dai coniugi Meadows del MIT (Massachussets Institute of Tecnology), su incarico di un imprenditore illuminato, Aurelio Peccei.
Scritto con un linguaggio scientifico – e dunque gradito alle élites – il rapporto considerava cinque variabili: il consumo di risorse naturali, la crescita della popolazione, l’alimentazione, l’inquinamento e la produzione industriale, tutte tra loro correlate. Intervenendo su queste variabili si prospettavano una serie di scenari con i relativi risultati e si constatava che «nell’ipotesi che l’attuale linea di sviluppo continui inalterata nei cinque settori fondamentali (…) l’umanità è destinata a raggiungere i limiti naturali dello sviluppo entro i prossimi cento anni. Il risultato sarà un improvviso, incontrollabile declino del livello di popolazione e del sistema industriale».
Il punto fondamentale che il rapporto metteva in risalto è che la logica della crescita fa a pugni con un mondo finito. Per i ricercatori era ed è possibile modificare questa linea di sviluppo, solo puntando su una società sostanzialmente stazionaria che riduca al minimo i consumi di risorse e il suo tasso di sviluppo (economico e demografico), realizzando quella che venne definita “crescita zero”. In buona sostanza, i ricercatori ci avvertivano che l’umanità stava incamminandosi verso un punto di non ritorno, verso il baratro. Gli autori mostravano, con l’ausilio di modelli matematici, che nei primi decenni del XXI secolo l’incremento senza sosta della popolazione umana, dell’industrializzazione, dell’impiego di risorse naturali e dell’inquinamento avrebbe portato a superare largamente la capacità di carico e di rigenerazione del pianeta.
Il rapporto ebbe allora grande eco e fu duramente contestato dagli scienziati e dagli ambienti legati all’industria, che non accettavano la nozione di un limite alla crescita. Tra i primi a riconoscere la validità delle tesi del primo rapporto ci furono invece i movimenti ambientalisti e i filosofi dell’ecologia profonda. Ci fu tra gli scienziati anche uno dei padri dell’ambientalismo italiano, Giorgio Nebbia, che successivamente manifestò perplessità non sulla diagnosi, che ritenne sempre ineccepibile, ma sulla soluzione indicata dai ricercatori.
Ma, indipendentemente dalle soluzioni da dare al problema, ci furono critiche pregiudiziali e malevole ai Limiti dello sviluppo che arrivarono ad accusare il Club di Roma che il suo vero scopo fosse quello di montare la crisi ambientale «per giustificare la centralizzazione del potere, la soppressione dello sviluppo industriale sia in Occidente che nel Terzo Mondo ed il controllo della popolazione mediante  l’eugenetica».
Oggi, a 50 anni dal rapporto del MIT, i problemi posti allora non solo rimangono inalterati, ma si sono aggravati, nonostante il progredire di tecnologie meno invasive e più efficienti. Anzi, alle cinque variabili fondamentali allora indicate se n’è aggiunta un’altra all’epoca non considerata: quella dei mutamenti climatici, che ci induce ancora di più a paventare il rischio d’una estinzione della specie umana o d’una sua sopravvivenza sempre più precaria e meno dignitosa.
Dopo 26 conferenze mondiali sul clima, praticamente inutili, non riusciamo ad avere una vera consapevolezza della posta in gioco a causa degli interessi economici e politici che si intrecciano e sbarrano il campo ad un reale cambiamento dei modi di produrre e consumare. Diamo voce a chi nega i dati scientifici, ci preoccupiamo di questioni parziali, o peggio, facciamo finta di risolvere il problema con soluzioni apparentemente “verdi” (il famigerato “green” usato come un grimaldello per non cambiare nulla!), mentre magari spendiamo in armamenti la bella cifra di 2.100 miliardi di dollari nel solo 2021!
I numerosi aggiornamenti al rapporto, che gli autori ed altri esperti hanno riproposto nel corso degli anni, hanno confermato le previsioni già formulate nei Limiti dello sviluppo del 1972, come da ultimo e recentemente ha fatto lo stesso Club di Roma con la pubblicazione di due nuovi rapporti. Il curatore di una delle due pubblicazioni, Ugo Bardi, ha dichiarato: «Se vogliamo evitare o forse più realisticamente mitigare la doppia crisi del cambiamento climatico e dell’esaurimento delle risorse, allora dobbiamo muoverci con decisione verso nuovi modi di fare le cose e liberarci dalla nostra dipendenza dai combustibili fossili. Oggi abbiamo tecnologie per l’energia rinnovabile che non esistevano quando è stato pubblicato il rapporto The limits to growth. Ma nessuna tecnologia, da sola, ci aiuterà se continuiamo a credere che la crescita economica sia sempre e per sempre una buona cosa».
La soluzione meramente tecnica del problema, propria dell’ambientalismo superficiale, in realtà è una falsa soluzione. «Noi pensiamo di salvarci con la Tecnologia, ma la tecnologia – osserva Massimo Fini citando il filosofo della scienza Paolo Rossi – “come risolve un problema ne apre dieci altri ancora più complessi”». È fuorviante ritenere che la tecnologia abbia sempre ragione, come dimostrano più che a sufficienza Bhopal e Fukushima. «Finché resterà l’economia la suprema regolatrice della società – scriveva l’ecologista italiano Rutilio Sermonti in “L’uomo, l’ambiente e se stesso” – la soluzione del dramma ecologico è impossibile».

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Sandro Marano

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