Segnalibro. Mishima, sangue e inchiostro nel nome della Tradizione

Luni pubblica "Mishima. un enigma in cinque atti" di Danilo Breschi, sulla sua visione del mondo e la sua letteratura

Yukio Mishima nel docufilm "The last debate"

Yukio Mishima

Cinquantadue anni fa, il 25 novembre del 1970, poco dopo mezzogiorno, lo scrittore giapponese Yukio Mishima commise seppuku (suicidio rituale) negli uffici del Ministero della Difesa giapponese, a Tokio.

Il motivo apertamente dichiarato fu l’opposizione alla decadenza del suo Paese e all’articolo 9 della Costituzione imposta dagli invasori statunitensi che recitava: il “popolo giapponese rinuncia alla guerra come diritto sovrano della nazione” e per questo “non saranno mai mantenute forze di terra, di mare, di aria e qualsiasi altra forza potenzialmente militare”. Era inclusa la destituzione dell’imperatore, la negazione della sua natura divina, fondamento della cultura nipponica del tempo; la cancellazione della nobiltà, ridotta al rango di borghesia; l’occupazione del Paese da parte dell’esercito Usa e l’installazione di basi militari statunitensi. L’imposizione della democrazia era, per lo scrittore, l’espressione della decadenza, della sottomissione, della fine della Tradizione e dello spirito del Bushido e dell’Hagakure.

Un suicidio che fu un atto di ribellione mostrato al mondo con l’inchiostro e con il sangue, con l’azione e con la sua opera. Il giorno dell’avvenimento Mishima aveva consegnato al suo editore l’ultimo volume della tetralogia Il mare della fertilità, finito di scrivere a marzo con la frase manoscritta, sull’ultimo foglio, “25 novembre 1970”, quasi a voler siglare il testamento spirituale. Dopo essere entrato nella caserma Ichigaya (quartier generale delle forze di autodifesa) insieme con quattro suoi compagni della Tate no kai (la “Lega degli scudi”, milizia privata composta di cento giovani uomini), occupò l’ufficio del generale Masuda, che legarono a una sedia. Mishima dal balcone arringò migliaia di militari accorsi da tutta la caserma, e venne ripreso, in quei tragici momenti, da tv e da fotografi. Fu il suo ultimo discorso, nel quale esaltò lo spirito del Giappone, l’imperatore, espresse la condanna della Costituzione del 1947 e del trattato di San Francisco (che prevedevano la rinuncia all’esercito e l’affidamento della difesa agli Usa). Le sue ultime parole furono: “Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! È bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! E’ il Giappone! E’ il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo”.

Il discorso fu in parte disturbato dalle grida di militari e dal rumore di un elicottero che volteggiava sulla palazzina della caserma. Al termine Mishima rientrò e commise seppuku. Il suo fidato Masakatsuo Morita, uno dei quattro giovani che lo accompagnavano era alle spalle dello scrittore e vibrò prontamente un colpo di katana per tagliare il capo, come previsto nella pratica del suicidio rituale dei samurai: sbagliò mira, colpì spalla e collo senza riuscire nell’intento. Il sangue si spandeva sul pavimento e intervenne un altro componente della Lega degli scudi, Masayoshi Kaga, che con un colpo netto concluse il rito. Morita, per cancellare la vergogna che provava per il suo gesto impreciso, fece seppuku.

Mishima era il massimo scrittore giapponese, il più tradotto, il più studiato, invitato a tenere conferenze e lezioni in molte Università. Fu quattro volte candidato al Nobel per la letteratura. Il suo primo romanzo, scritto a 24 anni, ebbe un grande successo: era Confessioni di una maschera e Mishima divenne il simbolo della restaurazione dell’ideale tradizionale, contro la globalizzazione, la massificazione, la democrazia moderna a stelle e strisce. Nelle sue opere emerge questa visione del mondo come riflesso dell’amore per la Tradizione e per l’imperatore, la fedeltà ai codici di comportamento della comunità nipponica, la visione superiore, le sue leggende, miti, riti, simboli.

Il concetto di Imperatore non si riferiva a un personaggio politico o massimo rappresentante dello Stato, ma rimandava a un’espressione divina del Giappone. In 45 anni di vita Mishima ha scritto un centinaio di opere e i giudizi sulla sua opera sono contrastanti. Il giorno dopo l’avvenimento, i giornali giapponesi riportarono, fra l’altro, i commenti del primo ministro nipponico, Eisaku Sato, che definiva “pazzia” quel gesto, con lo scopo di sminuire lo scrittore. Il segretario di Stato Nakasone rimarcò la necessità di tenere a bada gli estremisti perché con queste azioni mettevano a rischio la democrazia e la Costituzione. Il “Mainichi Shimbun”, quotidiano con tiratura di milioni di copie, sottolineò che si trattò di un “atto di follia”. Il “poema dell’abbandono del mondo”, composto secondo la forma classica in 31 sillabe, era l’ultimo biglietto che lasciava un samurai. Quello scritto da Mishima recitava: “La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre”.

Dalla critica è definito solitamente un esteta, un dandy, come Montherlant, un conservatore decadente, un nazionalista. L’adesione alla Tradizione, al Mito, all’etica dei samurai, dimostrano bene perché Mishima rimarcava la sua distanza dalla politica. Combatteva la sua battaglia per una visione del mondo tradizionale e suggellò la sua lotta con un atto estremo.

Ma per comprendere l’opera di Mishima è necessario comprendere la sua visione del mondo che, come detto, la critica non considerava, riducendo tutto al seppuku, alla cura del corpo e al suo cosiddetto nazionalismo. Sono rare le analisi in profondità.

Kimitake Hiraoka, questo il vero nome di Mishima, aveva invece svolto una funzione letteraria, e più ampiamente culturale, di rilievo: studioso sia della cultura tradizionale nipponica e sia di quella europea, era stato una specie di ponte fra l’Oriente e l’Occidente. La ricerca dei personaggi e la struttura delle trame dei suoi romanzi e delle sue novelle risentono della solida conoscenza della letteratura europea. Una miscela che mostrò bene come la sua letteratura per molti versi si distaccò da quella del suo maestro Yasunari Kawabata e dagli altri scrittori del Novecento elaborando un insieme di idee che attingono al Medioevo nipponico, con rigida gerarchia, richiamo alla Tradizione, e spirito guerriero. Un impasto di antichità e modernità, tradizione e divenire, che ha fatto della sua opera qualcosa di inedito. Danilo Breschi, docente di Dottrine politiche all’Università degli studi internazionali di Roma ha pubblicato questo libro dedicato a Mishima cercando, in cinque capitoli, di allineare e dipanare alcuni misteri della poetica mishimiana partendo al contrario, dall’epilogo per terminare con il quinto capitolo dedicato all’inizio, al prologo.

Yukio Mishima, enigma in cinque atti di Danilo Breschi per Luni

Nella prefazione l’autore dichiara il suo interesse per lo scrittore giapponese e spiega che il suo è uno studio che è anche un omaggio e un divertissement allo stesso tempo sebbene si avvalga di un taglio scientifico. Insomma, qualcosa a metà fra l’esercizio di stile e un invito alla lettura, una “circumnavigazione di un enigma” nonostante la figura e gli scritti di Mishima abbiano rapito l’immaginazione e l’intimo sentire di generazioni di giovani. Lo scopo di questo saggio è di mettere a fuoco alcuni aspetti della poetica e della visione del mondo di Mishima sottraendo lo scrittore agli stereotipi che circolano in Occidente, specie in Usa, a esempio quello del giapponese che fa harakiri, l’icona pop che tramanda un’immagine del giapponese sconfitto che dona agli dei il proprio sacrificio, l’omosessuale che fa il verso ai dandy come d’Annunzio e Wilde.

Proprio perché la sua produzione letteraria è sterminata (circa cento opere in venticinque anni), multiforme, e i temi toccati molteplici, Breschi ha scelto di affrontarne solo alcuni, i principali. Nei cinque capitoli passa in rassegna gli aspetti più caratterizzanti della visione mishimiana. Per primo il tema del suicidio. Divenuto necessario per lo scrittore, per dare un senso più profondo alla propria vita, tanto che il capitolo è presentato come “epilogo che si annuncia come prologo”. Un nuovo inizio, insomma, lui che aveva visto il suo mondo distrutto dai bombardamenti Usa, città cancellate dalla bomba atomica, il nuovo Giappone ridefinito secondo i dettami imposti dall’americanizzazione e dall’Amministrazione Usa. Una maniera per richiamare alla mente un mondo ormai scomparso e messo in condizioni di non poter risorgere dagli accordi di San Francisco che prevedevano il disarmo della nazione e, soprattutto, la dichiarazione da parte dell’Imperatore Hirohito di non discendere dalla stirpe degli dei. Mishima, ispirandosi alla filosofia dei greci e accettando la vita, nietzscheanamente, creò una simbiosi fra corpo e pensiero, costruendosi in palestra un corpo come quello delle statue greche e nello stesso tempo affinò il suo pensiero che nei suoi scritti rappresentava l’adesione allo spirito. Insomma, scelse e si dette un’educazione impartita dall’acciaio, la spada; dall’esercizio, la palestra; dalla scrittura, la composizione. Una costruzione nutrita in parallelo, come già detto, anche dal pensiero occidentale, da Nietzsche, dai filosofi greci. Breschi nota che un corpo scintillante, dai muscoli tesi e guizzanti risultava antimoderno come le lingue antiche, le lingue cosiddette “morte”. Riproponeva “un ideale di uomo aristocratico, ben istruito e guerriero”. Insomma, trovò “la sua via, quella del samurai, un sentiero della tradizione, ancor più sublimato in quanto mitizzato dal rito della scrittura”: specularmente affronta il tema della decadenza, trattato, fra gli altri, in libri come Madame De Sade, La casa di Kyoko, Lezioni spirituali per giovani samurai, Patriottismo, Il mio amico Hitler ecc. La democrazia di importazione occidentale era la decadenza, la corruzione, evidente quanto la smania consumistica dei giapponesi.

La morte è un’altra presenza fissa nell’opera e nella vita dello scrittore. Questo aspetto è stato ben descritto dal regista Paul Schrader nel film Mishima (prodotto da George Lucas e Francis Ford Coppola, con musiche di Philip Glass), insieme al senso di colpa, redenzione, solitudine, voglia di riscatto. La morte era strettamente legata al sangue, al suo odore, al suo scorrere, ai suoi film dove simulava un harakiri o si faceva fotografare legato a un albero, trafitto, come San Sebastiano. Ma nella sua poetica delle ultime opere, Mishima, quando conclude la tetralogia Il Mare della fertilità, rappresenta anche la neve (simbolo di purezza) e il mare. Il mare, sottolinea Breschi, è la metafora della crescita dall’infanzia all’età adulta, ma anche “metafora dell’animo umano, impetuoso all’alba come al tramonto”. In questi aspetti della narrativa mishimiana emergono elementi che compongono l’unità del paesaggio interiore di Mishima che sovente è in sintonia con la natura e le sue manifestazioni. Mishima rappresenta bene l’“incantamento nella natura”.

Tradizione e romanticismo, due punti fra i quali Mishima oscillava e per i quali faceva scandalo. Facevano scandalo il suo patriottismo, il suo nazionalismo, la devozione all’imperatore, la critica contro il materialismo, contro il comunismo e il liberalismo. Faceva scandalo principalmente per la sua critica della democrazia, della società consumistica, per l’urgenza di valori che superassero la semplice comoda vita. Una vita “ben vissuta” è difficile da vivere in regime di democrazia, spiega Breschi, perché per definizione non si basa su nobiltà d’animo e visione del mondo superiore. La vita, così, finisce per essere lavoro, tempo libero e industria del divertimento. Un po’ poco per chi aspira alla realizzazione di sé e all’affermazione di valori superiori.

*Yukio Mishima. Enigma in cinque atti, di Danilo Breschi, Luni ed., pagg. 256, euro 20.00

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Manlio Triggiani

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