StorieDi#Calcio. Spadoni (ex Roma di Liedholm): “Vi racconto il pallone ai miei tempi”

L'attaccante dei giallorossi interruppe la carriera a soli 27 anni per infortunio. Negli anni successivi aprì una fumetteria

Valerio Spadoni

Valerio Spadoni, romagnolo della classe 1950, è stato protagonista e testimone, specie negli anni di militanza con la Roma, in Serie A, negli anni Settanta, di quel calcio romantico e passionale che caratterizzò quell’epoca indimenticabile. Un calcio sicuramente in antitesi a quello attuale. La città in cui è nato, la ridente Lugo di Romagna, ha dato all’Italia ben sei eroi che hanno meritato la Medaglia d’Oro: Francesco Baracca, leggendario “Asso degli Assi dell’Aviazione italiana” durante la Prima Guerra Mondiale (1915-18); Aurelio Baruzzi, Giovanni Bertacchi, Antonio Calderoni, anch’essi combattenti nel primo conflitto; Pietro Gramigna (Guerra d’Etiopia, 1935-36), Federico Padovani (Guerra di Spagna, 1936-39). 

Spadoni ha cominciato a calcare i campi di calcio partendo proprio da casa sua, dai bianconeri del Baracca Lugo facendo un grande balzo dalla Serie D alla Serie A. 

Valerio, qual è la tua squadra del cuore?

Il Milan, squadra per la quale ho sempre simpatizzato e della quale ho sempre ammirato Gianni Rivera”.   

Alla fine degli anni Sessanta il tuo è un andirivieni fra il Baracca Lugo e l’Atalanta in serie A. Perché?

Fui notato dagli osservatori dell’Atalanta e feci il balzo in A. Solo che, a causa di un incidente stradale non giocai in A e ritornai al Baracca Lugo.  Nel 1970 venni ceduto al Rimini, in serie C, dove vi rimasi per due stagioni; nella prima realizzai 15 goal divenendo capocannoniere”. 

Valerio Spadoni con la maglia della Roma

Nel 1972 approdi alla Roma dove resterai per quattro stagioni. Chi ti volle alla Roma?

Chi mi volle bisognerebbe chiederlo ai dirigenti. Poco prima che terminasse la seconda stagione con il Rimini, nel 1972, essendo stato ceduto alla Roma, mi fu detto di raggiungere la Capitale per partecipare al Torneo Anglo-Italiano dove erano impegnati proprio i giallorossi”. 

Che effetto ti fece lo stadio Olimpico la prima volta che scendesti in campo?

Esordii all’Olimpico proprio nel Torneo Anglo-Italiano, nel giugno 1972. Un’emozione indimenticabile anche per merito del pubblico romanista, una tifoseria calorosa, sempre vicina alla squadra, che non molla mai. Fu proprio la Roma guidata da Helenio Herrera ad aggiudicarsi quella competizione nella quale realizzai tre goal; una doppietta la misi a segno allo Stoke City, proprio all’Olimpico”.

L’impatto con la Capitale come fu?

Per un provinciale come me fu affascinante, splendido. Nonostante i problemi, non ultimo quello legato al traffico, Roma era la città più bella d’Italia e forse del mondo”.  

Il periodo vissuto a Roma è stato funestato da terrorismo, violenze di ogni genere che hanno colpito non solo la Capitale, ma anche altre parti d’Italia. Voi calciatori come vivevate quelle tragedie? 

Apprendevamo le notizie dai giornali. Era un periodo drammatico che, però, non influenzava il calcio. Non ho vissuto il caso Moro perché avevo già lasciato Roma”.

Che tipo era il presidente giallorosso, Gaetano Anzalone?

Una persona squisita, di una grande umanità, non riscontrata in altre persone”.

Quando giungesti a Roma l’allenatore era Helenio Herrera.

Personaggio straordinario, un tecnico competente sotto tutti i punti di vista, che da allenatore ha vinto di tutto. A Roma lo ebbi per poco tempo in quanto venne esonerato prima che terminasse il Campionato 1972-73. Poteva fare ben poco se aveva dei giocatori di medio valore”.  

Nel campionato 1973-74 a guidare i giallorossi viene chiamato Manlio Scopigno. 

Allenatore valido, intelligente. In tanti ebbero fiducia in lui visto che nel 1970 aveva guidato il Cagliari alla conquista del primo scudetto. Durò pochissimo in quanto si dimise poche giornate dopo l’inizio del torneo. Anche per Scopigno vale quanto detto per Herrera: se non hai i giocatori adatti non puoi vincere nulla”. 

C’è qualcosa di vero o è una diceria quella di Scopigno che, nel bere, “alzava un po’ troppo il gomito”? 

Io non ho mai visto una cosa nel genere e, nel caso, cosa ci sarebbe stato di male se non lo faceva in pubblico? All’epoca vi era il rispetto della discrezionalità delle persone, a differenza di oggi che con i social si viene a sapere tutto senza alcun rispetto”.      

Dopo Scopigno cosa accadde?

“Anzalone chiamò Nils Liedholm”. 

Circa la tua collocazione in campo, ci furono differenza fra Herrera e Liedholm?

Herrera, inizialmente mi impiegò come mezza punta offensiva ed in seguito di punta; Liedholm mi affidò il ruolo a me più congeniale, centrocampista di fascia sinistra più con compiti offensivi che difensivi. Naturalmente ero anche chiamato a contrastare il terzino avversario che si spingeva in avanti, in zona d’attacco”.  

Liedholm rimase a Roma per quattro stagioni, i giallorossi non vinsero nulla però, nel Campionato 1974-75, la Roma si classificò al terzo posto. 

Che Liedholm sia stato un grande allenatore lo dimostra non solo quel terzo posto, ma anche i due scudetti vinti con il Milan nel 1978-79 e con la Roma nel 1982-83 dopo il suo ritorno nella Capitale di qualche anno prima”.

Ci parli dei ritiri?

Il precampionato durava 15-20 giorni con un paio di allenamenti al giorno.  Durante il campionato si faceva vita di gruppo in albergo, a partire dal venerdì, in vista della partita domenicale. I ritiri potevano essere più lunghi nel caso in cui il mercoledì fosse stata prevista una partita internazionale, cosa che accadde proprio alla Roma quando disputò la Coppa Uefa 1975-76”. 

Roma che in quella competizione fu eliminata dal Bruges, agli ottavi di finale. La domenica prima del match, a che ora pranzavate?  

Tenuto conto che le partite avevano inizio alle 14,30, pranzavamo alle 11,00-11,15. Si trattava di un pranzo veloce e frugale, riso in bianco, pezzetto di carne, mela, acqua, un po’ di vino non guastava”.   

Hai accarezzato il sogno di vestire la maglia azzurra della Nazionale?

All’epoca facevo parte della Nazionale Under 23 allenata da Bearzot. In quattro partite realizzai 3 goal. Accadde, però, che nei Mondiali di calcio disputatisi in Germania, nel 1974, la nostra Nazionale andò incontro ad un autentico disastro venendo eliminata al primo turno”.

Il 15 giugno, nella partita iniziale contro Haiti, vinta 3-1 dagli azzurri con non poche sofferenze, è rimasto noto il famoso gesto di Chinaglia che mandò a quel paese il commissario tecnico, Ferruccio Valcareggi, colpevole di averlo sostituito.

Da quel disastro ebbe inizio la rifondazione della Nazionale azzurra avviata da Fulvio Bernardini ed Enzo Bearzot. Inizialmente Bernardini ci convocò, ma solo per conoscerci personalmente. Per quel che mi riguarda non seguì alcuna convocazione ufficiale forse anche per via degli infortuni subiti”.

In quegli anni, la Nazionale ebbe una doppia guida tecnica: Bernardini e Bearzot.   

Esatto, in seguito fu Bearzot ad assumerne la guida generale. Quella rifondazione fu alla base degli ottimi Campionati del Mondo disputati rispettivamente in Argentina, nel 1978, dove la Nazionale giunse quarta ed in Spagna, nel 1982, dove si laureò campione nel mondo”.     

Per la pregevole continuità nel gioco e nei risultati, concordi che l’Italia avrebbe meritato di vincere il Mundial argentino e non quello spagnolo?    

Sì, in un certo senso concordo”.

A Roma con quale tuo collega hai legato in particolare? 

Ho avuto un buon rapporto con tutti perché eravamo una squadra. Alcuni ricordi mi legano in particolare a Giorgio Morini perché abitavamo nella stessa palazzina vicino a Monte Mario”.  

E di Agostino Di Bartolomei, grande centrocampista cosa puoi dire? Purtroppo è morto suicida, a soli 39, nel 1994, quando aveva già smesso di giocare. 

Siamo stati insieme un anno e mezzo. Lui aveva 17 anni. Un bravissimo ragazzo, un vero talento”.

Veniamo ai derby, stracittadine particolarmente sentite. Anche per voi giocatori era così?

Ma erano i tifosi ad accanirsi gli uni contro gli altri. Prima della partita anche noi avvertivamo l’atmosfera del derby, ma una volta scesi in campo era una partita come le altre”.

Nel campionato 1973-74 la Lazio vinse lo scudetto. Nella partita di ritorno, Roma-Lazio del 31 marzo 1974 da voi persa 2-1, fosti protagonista con un goal realizzato da centrocampo, quasi a ridosso della linea laterale. 

Non ho nessun merito per quel goal. Volevo solo servire Pierino Prati che si era prodotto in uno scatto. Forse il vento fece prendere una traiettoria strana alla palla, che entrò in rete anche con la complicità del portiere laziale, Pulici”.    

Qual è stato l’avversario più duro da te incontrato?

Un grande vigliacco che in una partita, prima della battuta di un corner da parte della Roma, mi dette una gomitata fortissima in faccia, in area di rigore, facendomi rotolare per terra. Fece quel fallaccio senza farsi accorgere dall’arbitro. Preferisco non dire la città di Serie A dove avvenne il fattaccio perché subito si risalirebbe al vigliacco.

Certo, all’epoca, quando si scendeva in campo, era abitudine dell’avversario diretto provocare, minacciare, in modo da abbatterlo almeno psicologicamente chi doveva marcare. Quando esordii con il Baracca Lugo, avevo 17 anni, un mio avversario, appena sceso in campo mi disse: “Se ti muovi ti spezzo”. Intervenne Baldi, il libero della mia squadra, più grande di età: “Se ti azzardi a toccarlo te la vedi con me””.     

Quale, invece, il momento più bello della tua carriera? 

Il mio primo goal realizzato a Verona, in Serie A, nella prima giornata del campionato 1972-73”. 

Il momento più brutto credo risalga al 25 gennaio 1976 quando nel match Roma-Inter terminato 1-1, un contrasto con il difensore nerazzurro, Graziano Bini, sancì la fine della tua carriera. 

L’infortunio fu grave in quanto interessò i legamenti del ginocchio”.

Bini ti chiese scusa?

Bini venne a trovarmi in ospedale, al Gemelli. Era amareggiato, si scusava. Cercai di tranquillizzarlo dicendogli che il destino aveva voluto così…intanto la mia carriera poteva dirsi conclusa. Ritornai a Rimini, in serie B, per il campionato 1976-77, ma nulla da fare, il calcio per era me terminato”.

A soli 27 anni di età. Successivamente hai allenato il Baracca Lugo ed altre squadre.  

Sì, squadre di ragazzini e quelle a livello dilettantistico per una decina d’anni. Ma era difficile allenare visti i contesti. Le squadre dilettanti erano costituite da calciatori per lo più giovani che, lavorando durante la settimana, il sabato preferivano andare a ballare. In tali condizioni un calciatore non poteva rendere e stare ai ritmi della vita calcistica”.

Nel 1986 apri nella tua Lugo un’attività.    

Aprii una fumetteria che ha chiuso i battenti nel 2011. I fumetti sono stati il mio hobby fin da ragazzo, era un settore che trainava avendo un ampio seguito”.    

Avendo fatto più volte tappa al tuo negozio, devo dire che vendevi non solo fumetti, ma anche libri di vario pregio, soprattutto storici, per lo più introvabili; oggi è più facile reperirli visto il pullulare di appositi siti.     

Sì, vendevo di tutto”.

Tuo padre, Domenico, è stato un calciatore negli anni ’30-40. Cosa ti ha insegnato?

Mio padre che ha giocato con il Modena in Serie A, amava i palcoscenici, non mi ha dato consigli, mi lasciava giocare”.

Chi sono stati i tuoi maestri? 

Tutti gli allenatori che ho avuto mi hanno insegnato qualcosa.  Dai 10 ai 16 anni, quando ero pulcino nel Baracca Lugo non potrò dimenticare Enea Faccani e Ruggero Carnevali. Poi Gino Pivatelli, un grande campione che ha vinto con il Milan uno scudetto ed una Coppa dei Campioni, un personaggio che potevi ammirare solo conoscendolo bene. Con lui ho avuto un ottimo rapporto personale. Mi ha insegnato tante cose, fu lui a volermi al Rimini”.

Come vedi il calcio di oggi rispetto a quello della tua epoca?

Non lo discuto tecnicamente. Rispetto alla mia epoca è più tattico, più fisico, più frenetico; vedremo in prospettiva se tutto ciò sarà pagante. Certo è che oggi i fuoriclasse scarseggiano, all’epoca mia di fuoriclasse se ne contavano di più; basti pensare a Rivera, Mazzola, Suarez”.

Riva…

Nell’epoca in cui ho giocato noi giocatori eravamo patrimonio della società, oggi i calciatori sono proprietari di se stessi con tanto di procuratori”.

A tuo avviso le doppie proprietà non sono uno scandalo visto che la squadra più debole diventa una colonia della squadra più titolata? 

Non so se sia uno scandalo, sportivamente però non va bene. Nella mia epoca c’erano società di categoria inferiore che fungevano da satelliti a quelle di Serie A fornendo, a queste ultime, giocatori promettenti”.

A loro volta, le squadre di A mandavano propri giocatori a “farsi le ossa” – come si diceva all’epoca – in quelle satelliti.  Torniamo al calcio milionario attuale.

Non dimentichiamo le concessioni televisive, un sistema al quale le squadre si sono dovute adeguare. Tutto ciò è anche poco trasparente perché se nella mia epoca tutte le partite venivano disputate la domenica ed allo stesso orario, nessuno poteva fare calcoli di alcun genere al contrario, oggi, con partite giocate in più giorni ed in orari differenti, qualsiasi tipo di calcolo è permesso visti i risultati che si conoscono con largo anticipo. Che dire, infine, di squadre anche blasonate che falliscono per poi chissà riprendersi. Ricordiamo quanto accaduto al Parma anni fa”.   

Se all’epoca avessi segnato un goal alla tua ex squadra avresti esultato? Te lo chiedo visto il vezzo attuale di non esultare.

Innanzitutto non mi piace chi oggi esulta togliendosi la maglietta o va ad arrampicarsi alle reti di protezione. Certo che avrei esultato se avessi fatto un goal ad una mia ex squadra. Lo avrei fatto in maniera composta, ma lo avrei fatto. In quel periodo se vincevamo fuori casa, non ci passava per la testa l’idea di andare ad esultare sotto la curva dove erano assiepati i nostri tifosi. Al termine della partita vi era una esultanza contenuta a centrocampo, un saluto al nostro pubblico e poi tutti negli spogliatoi dove lì, l’esultanza era più accesa. Dietro una vittoria c’è anche una squadra sconfitta e l’avversario sconfitto va sempre rispettato!”.

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Michele Salomone

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