Rigodon/4. Luciano Rispoli, icona dei talk Rai (figlio di un eroe di El Alamein)

"Ma che belle parole! Luciano Rispoli, il fascino discreto della radio e della TV" (Vallecchi): un saggio che non racconta solo la parabola personale e professionale di un grande giornalista ma, in alcuni casi, ribalta la storia stessa dei mass media

Il libro per Vallecchi

«Un tentativo di damnatio memoriae nei confronti di Luciano Rispoli». Non dichiarato e pertanto ancora più subdolo. Mariano Sabatini, in occasione dei novant’anni dalla nascita del “conduttore gentiluomo”, avvenuta il 12 luglio 1932 a Reggio Calabria, sferra nei confronti del “sistema” televisivo di ieri e di oggi un vero e proprio j’accuse, peraltro dettagliatamente circostanziato nel suo libro Ma che belle parole! Luciano Rispoli, il fascino discreto della radio e della TV (Vallecchi), ora in tutte le librerie. Un libro che non racconta solo la parabola personale e professionale di un grande giornalista ma, in alcuni casi, ribalta la storia stessa dei mass media.

L’uomo invisibile che non frequentava Capalbio

«Benché per anni sia stato cercato, omaggiato, pregato, visto che un passaggio nelle sue trasmissioni garantiva grande visibilità coniugata a una sicura presa sul pubblico – denuncia Sabatini – appena ha smesso di lavorare, Rispoli è divenuto l’uomo invisibile».

Dopo oltre mezzo secolo di onorata carriera, vissuta sempre un passo avanti agli altri, macinando programmi di successo che hanno fatto la storia della televisione, riceve solo porte sbattute in faccia. Eppure sono numerosi i personaggi che devono i loro esordi a Rispoli, generoso talent scout. Tanti quelli che, magari inconsapevolmente, hanno fatto fortuna grazie alle sue intuizioni. Ma non sempre, dinanzi a tanta disponibilità e apertura, è seguita la giusta riconoscenza. «Ho scoperto un sacco di gente. Inventai per la radio, Chiamate Roma 3131, condotta da Gianni Boncompagni, che cambiò la natura ingessata della radio di Stato. Sei milioni di ascoltatori cominciarono a respirare un’aria nuova. La Carrà era la fidanzata di Gianni. Lanciai anche lei facendole fare delle interviste per strada».

Imperturbabile e tutt’altro che intenzionato a godersi la pensione, Rispoli si ostinava a proporre nuove idee senza ricevere neanche una risposta. «Non mi interessano», ebbe a liquidarlo Fabrizio Del Noce, figlio del ben più illustre e autorevole Augusto e all’epoca potente direttore della Rete uno. Per “zio Luciano” neanche un pertugio disponibile negli spazi meno contesi dei palinsesti di mamma Rai. Una generale alzata di spalle, ecco quel che ottenne. 

In una intervista concessa a Giancarlo Perna il 24 novembre 2008 per il Giornale, il settantaseienne conduttore, esiliato su Canale Italia, tv privata di medio calibro, per condurre il suo Tappeto volante, dopo l’esaltante decennio trascorso su Tele Montecarlo, si lasciò andare a un raro sfogo: «In Rai neanche mi invitano come ospite. Ma sono trasmissioni così banali che ci guadagno… Volevo dire al presidente Petruccioli che non merito la discriminazione. Non mi ha ricevuto. Forse pensava a Capalbio, dove trascorre i week-end». 

La scomparsa e l’oblio

L’ultima fugace apparizione televisiva di Rispoli risale al 2012, ospite di Michele Guardì a Uno Mattina in Famiglia. Nella tarda sera del 26 ottobre 2016 cala definitivamente il sipario. L’onere di annunciare la notizia della morte è affidato dalla famiglia a Mariano Sabatini.

La sua lunga collaborazione con Rispoli, suo maestro e mentore, era iniziata all’alba degli anni Novanta. Sabatini, appena ventitreenne, ne aveva conquistato la fiducia, condividendo con lui il senso della misura, ma anche l’insofferenza di fronte alle ingiustizie. E la congiura del silenzio su Rispoli lo è. Neanche un posticino nel fin troppo affollato pantheon televisivo per il più garbato showman mai comparso sui teleschermi.

Conosce bene il peso delle parole, Sabatini, non è un parvenu alla ricerca di sensazionalismi o facili protagonismi. È un affermato autore televisivo e uno scrittore di talento, che si è appena caricato sulle spalle la responsabilità di far ripartire la Vallecchi, mitica casa editrice fiorentina.

È che proprio non se ne capacita e noi con lui: come è possibile che il principe dell’intrattenimento colto, versatile quanto infaticabile pioniere della primissima ora, uno dei padri fondatori del servizio pubblico, creatore di format che ancora oggi costituiscono l’ossatura della programmazione televisiva unica – tra cui il talk show – sia diventato una «sorta di reietto» su cui istituzioni e dirigenti hanno calato «una cappa di oblio»?

Amato dal pubblico e odiato dalle consorterie

Un giovane Luciano Rispoli

Una cosa è certa: in vita è stato «tanto amato dalla gente e poco dalla cosiddetta intellighenzia». L’amatissimo della TV, titolò TV Mia di Sandro Mayer dopo la morte.

E avere successo, si sa, è di per sé una colpa imperdonabile. Simpatizzante repubblicano più per la stima (reciproca) che lo legava a Ugo La Malfa che per appartenenza politica e successivamente amico di Pier Ferdinando Casini, Rispoli non frequentava altri salotti che il suo, preferendo a sera ritirarsi nella sua villetta di Casal Palocco, ad Ostia, con l’adorata moglie Teresa, matrimonio celebrato a San Giovanni Rotondo da Padre Pio, figli e nipotini. Estraneo a consorterie e forte esclusivamente della sua indiscussa professionalità, coltivò una “cordiale” distanza dalle logiche partitocratiche che in Rai hanno sempre avuto e continuano a tenere banco. È il tassello che manca per comprendere la solitudine di un uomo la cui dote principale, per dirla con Giovanni Minoli, «è stata quella di prestare sempre la massima attenzione alle persone». Il pubblico, quello che per un giornalista – tanto più per un giornalista del servizio pubblico – dovrebbe essere l’unico “editore”.

Le origini di Rispoli da El Alamein alla Rai

Il cippo in memoria degli eroi di El Alamein

Reggino di nascita, il futuro conduttore girovagava con l’intera famiglia per l’Italia al seguito del padre, Andrea Rispoli, colonnello dell’Esercito italiano, chiamato a comandare le caserme di Gorizia, Vercelli, Brescia e Bologna. Eroe di guerra, aveva preso parte alla battaglia di El Alamein nella leggendaria divisione Ariete. L’8 settembre del 1943, giorno dell’armistizio, quando tutto era perduto, aveva la responsabilità della San Ruffillo. Lasciò che ufficiali e soldati della sua caserma si mettessero in salvo. Lui no. Lui scelse di rimanere. Attese che i tedeschi lo catturassero. Una scelta che gli costò la deportazione in Germania. Per due anni i suoi familiari, la moglie Isabella, affascinante nobildonna calabrese, e i figli, non lo rividero. Furono dei lutti familiari a piegarlo, quando tornò in patria, ma questa è un’altra storia, tragica, che è ben narrata nel libro.

Finito il liceo, nel 1952 si trasferiscono a Roma. Luciano si iscrive all’università, facoltà di scienze politiche, ma scalpita – «sentivo però una vocazione per la comunicazione» – e quando quale tempo dopo un suo amico gli consiglia di presentarsi alla nascente Rai per sottoporsi a un provino da radiocronista, lui va. Senza raccomandazioni. Lo esamina Vittorio Veltroni, padre di Walter e direttore del Tg agli esordi. «Mi chiese di fingere una radiocronaca sportiva, un’intervista a un politico e altro. Erano le selezioni di allora. Oggi, invece, la Rai è piena di dilettanti, di solito incapaci. Nessuno si è messo in gioco con un provino», raccontò a Perna.

Il primo contratto è del 1954. L’incarico lo vede in forza alle Radio-Telesquadre, nuclei operativi – gruppi di tecnici guidati da un autore e presentatore con indosso la tuta chiara marcata Rai – che giravano l’Italia su pulmini che all’occorrenza diventavano palcoscenici, sui quali allestivano spettacoli promozionali al fine di convincere gli italiani a sottoscrivere l’abbonamento. Inizia così una “militanza” quarantennale tra radio e tv per la Rai, a cui l’azienda pubblica, di punto in bianco, deciderà di mettere fine. Nei primi anni Novanta si trasferisce a Telemontecarlo, una piccola ma agguerrita dependance della Tv pubblica che si affida al prestigioso e ambito salotto di Rispoli per rilanciare gli ascolti della fascia pomeridiana. Farà il botto, portando la rete monegasca ad ascolti mai raggiunti fino a quel momento.

Una televisione a misura d’uomo, la sua

Capelli argentati, l’eloquio forbito del «borgese educato e perbene», come lo definì Pippo Baudo, un tono mai accademico o paludato, animato dalla costante ricerca di indirizzare i discorsi nella direzione del sorriso, spegnendo sul nascere polemiche e discussioni troppo accese. Nel nome della coerenza nei principi del buon gusto e della totale assenza di volgarità. Il tutto condito con i modi di estrema cortesia che gli erano naturali e la passione totalizzante per il suo lavoro, svolto fino alla fine con la foga dell’esordiente. Sono alcuni degli ingredienti della sua idea di televisione quando lo schermo era più piccolo e meno definito di quelli attuali ma soprattutto era il media per eccellenza. 

«Una televisione gradita a un’Italia composta, mai chiassosa o, peggio ancora, fanatica», scrive Sabatini. Giancarlo Governi, capostruttura Rai di lungo corso e memoria storica del mondo dello spettacolo, certifica: «Ci ha lasciato una televisione colta ed educata dove spiccava questo signore che diceva grazie, che entrava nelle case chiedendo permesso. E che parlava un italiano elegante, come lui». Anche troppo elegante, per sua stessa ammissione: «È vero che a volte sono un po’ cerimonioso. Ho fatto esercizi per parlare in modo più asciutto, meno iperbolico, ma non sono riuscito a cambiare una virgola, sono così».

La sua televisione traspare dai suoi programmi: da Parola mia ad Argento e oro, da La più bella sei tu e Tappeto volante. Zio Luciano, come aveva preso a chiamarlo la pianista e cantante Rita Forte nei lunghi e piacevoli pomeriggi trascorsi nel celebre salotto, senza la maleducazione di urlarsi addosso. Esattamente il contrario di quello che vediamo oggi in televisione.

Il primo talk show

Le prove generali per il successo che sarebbe stato il Tappeto volante, Rispoli aveva iniziato a farle nel 1975 dando alla luce il primo talk show della storia televisiva italiana: L’ospite delle due. Come per tutti i programmi sperimentali il budget era men che modesto. Rispoli non si è era scomposto. Mise in piedi una scenografia essenziale – divani su fondali neri – che più tardi Minoli avrebbe riciclato per Mixer. Diversamente da quel che generalmente si crede, pertanto, non è stato Maurizio Costanzo a inventare il talk show. Il suo Bontà loro arriverà solo l’anno successivo. Certo, ha contribuito a renderlo popolare, questo sì, ma a che prezzo? È con il Maurizio Costanzo Show, opinione personale, che il trash si apre una breccia significativa nell’infotainment televisivo, con l’arrivo di ospiti naif pescati per il gusto di scandalizzare e degli urlatori di professione il talk prenderà un’altra strada, una strada verso il nulla.

In cosa consisteva l’idea originaria di Rispoli? Proporre una chiacchierata alla buona con un personaggio che si suppone i telespettatori rivedano volentieri. Una conversazione leggera ma non superficiale, piacevole, stimolante, che faccia compagnia ai telespettatori senza rovinare loro la digestione.

Il primo talent scout

Rispoli non è stato soltanto il visionario ideatore del talk show, ma anche il realizzatore per la Rai, nel 1985, del primo talent show dedicato agli studenti universitari e imperniato sulle reali conoscenze e abilità linguistiche, quiz non nozionistico e senza il paracadute della risposta multipla.

Ci riferiamo a Parola mia, gioco basato sulla lingua italiana, rivolto a chi la ama e vuole conoscerla di più per usarla meglio, un intelligente mix di divulgazione, informazione e intrattenimento. «Definizioni di parole, scandaglio delle etimologie, delle frasi fatte, dei modi di dire, analisi critica poetica o letteraria di testi immortali letti da grandi attori», racconta Sabatini. Il programma ebbe un successo straordinario, benché non si vincessero soldi ma libri, enciclopedie e raccolte di dischi. 

«Con Sergio Zavoli e Biagio Agnes, presidente il primo e direttore generale il secondo, ho fatto la trasmissione di culto, Parola mia, sulla lingua italiana. Dopo la prima puntata ebbi subito le telefonate di apprezzamento di entrambi, consapevoli di quanto fosse importante stimolare l’autore. Misura la distanza tra la Rai di allora e quella dei Del Noce». Quel che non poteva immaginare è che dopo 70 puntate, con in tasca l’accordo per raddoppiarle, avrebbe ricevuto il benservito di Paolo Ruffini, direttore della Terza rete.

A fare da giudice-arbitro nella gara televisiva tra studenti universitari, venne individuato il prof. Gian Luigi Beccaria, ordinario di storia della lingua italiana all’università di Torino, un accademico che seppe sintonizzarsi immediatamente sulla lunghezza d’onda di Rispoli: rigore ma anche leggerezza. È con questo format, da cui derivano programmi attualissimi come Reazione a catena e L’eredità, condotti rispettivamente da Marco Liorni e Flavio Insinna, che più generazioni di giovani vennero iniziati all’amore per la lingua italiana. Non è un caso, del resto, che ancora oggi, quando si pensa a Rispoli torna in mente a noi over 50 la sua esclamazione estatica: «Ma che belle parole!», pronunciata dinanzi alle dissertazioni linguistiche del professor Beccaria. Frase idiomatica che Sabatini ha scelto per il titolo del suo libro.

Concludiamo questo excursus con la frase con cui Rispoli chiudeva il programma: «Noi ci fermiamo qui, ci vediamo domani, ma fino a domani, gentili amici, ricordate che la televisione, certo, è la televisione… ma un buon libro è sempre un buon libro! Parola mia». E quello di Sabatini non è solo un buon libro, è un libro importante.

*Ma che belle parole! Luciano Rispoli, il fascino discreto della radio e della TV di Mariano Sabatini (Vallecchi)

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