Giornale di Bordo. Elogio del ciclismo, che vuol vedere l’uomo in faccia

Negli anni d’oro del ciclismo, insieme ai corridori si rialzava anche il popolo italiano, dopo una brutta caduta militare e politica

Giro d’Italia (Pixbay)

Capita molto spesso di ascoltare discussioni sulle possibilità di rinascita economica che si prospettano all’Italia. C’è chi attribuisce le difficoltà della nostra ripresa al basso numero dei laureati, rispetto ad altre nazioni industrializzate. È una sciocchezza e basterebbe una banale constatazione a provarlo: un laureato, anche in discipline scientifiche, ha nella maggior parte dei casi stipendi bassi, che non lo ripagano dei sacrifici e del tempo impiegato frequentando l’università. Un professore di matematica e fisica guadagna meno di un manovale, una farmacista dipendente di una commessa. Se i medici, gli ingegneri, gli informatici davvero mancassero, i compensi salirebbero e i giovani più promettenti o ambiziosi non sarebbero spinti a cercare lavoro all’estero. Quanto allo scarso numero di laureati rispetto ad altre nazioni, bisogna tenere conto del fatto che sino a qualche anno fa un diploma conseguito in un istituto tecnico assicurava una competenza professionale pari a quello di un’odierna laurea breve, o forse più. Sono stati i periti, i ragionieri, i geometri i veri protagonisti del miracolo economico.

C’è anche chi riconduce le difficoltà di ripresa al problema energetico, e in questo è difficile dargli torto. Con buona pace di chi ritiene che sulla nostra ritardata rivoluzione industriale abbia influito la mancanza di un’etica protestante del lavoro, la realtà è molto più prosaica. Quando l’Inghilterra divenne la fabbrica del mondo, non avevamo il carbone e dovevamo importarlo a caro prezzo; quando esplose una nuova rivoluzione industriale, basata sul petrolio, non detenevamo il controllo dei Paesi in cui si trovavano le maggiori riserve di idrocarburi, o, come nel caso della Libia, lo avevamo senza saperlo. Il miracolo economico italiano è maturato in un’epoca di cambi stabili e di bassi prezzi delle materie prime, la stagflazione degli anni Settanta è coincisa con l’aumento del costo del petrolio in seguito alla guerra del Kippur; e se negli anni Ottanta per qualche tempo ci siamo illusi di essere una delle maggiori potenze industriali, questo è stato dovuto in larga parte al calo del costo degli idrocarburi, legato anche al deprezzamento del dollaro.

Anni Cinquanta e Sessanta

C’è però un altro motivo per cui dubito della possibilità di una ripresa economica italiana, ed è di natura non economica, ma… sportiva. All’epoca del miracolo degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta in Italia esistevano due discipline popolari: il calcio e il ciclismo. Non si facevano troppa concorrenza, visto che il giro d’Italia cominciava, per ragioni climatiche, quando il campionato si approssimava alla conclusione,  ed erano entrate entrambe nel sangue degli italiani. Il calcio, già allora, muoveva più soldi – anche quelli delle vincite alla sisal,- ma il ciclismo faceva battere di più i cuori. A seguire il Giro e il Tour i direttori dei quotidiani mobilitavano le penne migliori, basti pensare a un Dino Buzzati, e Sergio Zavoli costruiva le proprie fortune in Rai conducendo il “processo alla tappa”. Noi ragazzini dei primi anni Sessanta che avevamo il privilegio di trascorrere la bella stagione a Viareggio costruivamo piste sulla rena per biglie che portavano le foto dei maggiori corridori, salvo indossare in fretta una maglietta e un paio di calzoncini (nemmeno a un impubere era consentito entrare a torso nudo in Passeggiata) e invadevamo sotto lo sguardo  indulgente dei baristi le terrazze dei caffè per vedere sullo schermo di una Tv in bianco e nero l’arrivo del Tour.

Il calcio

Il calcio era eleganza, destrezza, potenza, cori di tifoseria, parolacce, pomeriggi sotto il sole cocente o la pioggia per inneggiare alla squadra del cuore, ma anche moviola, simulazioni di falli, eterne diatribe per un fuorigioco di posizione o un rigore negato, goal in zona Cesarini o recuperi di fine partita concessi o rifiutati dall’arbitro. Il ciclismo era sudore, tenacia, stoicismo nel sopportare i postumi di una caduta, estro di campioni e umiltà di gregari, neve dello Stelvio e afa in Val Padana, tubolari di ricambio portati a tracolla, perché non sempre “l’ammiraglia” arrivava in tempo, borracce presto svuotate e secchiate d’acqua scagliate da tifosi troppo zelanti. In bicicletta non si fa melina, non si contestano le decisioni dei direttori di gara, non si dà la colpa di un insuccesso all’arbitro o ai compagni di squadra, non ci si getta teatralmente a terra dopo un banale contrasto, anzi dopo una disastrosa caduta in discesa ci si rialza subito anche con le ossa ammaccate, perché la gara deve continuare.

Il ciclismo

E, negli anni d’oro del ciclismo, insieme ai corridori si rialzava anche il popolo italiano, dopo una brutta caduta militare e politica. Si rialzava perché la guerra, la fame, la miseria gli avevano fatto capire che nulla è regalato, e che senza sacrificio e sofferenza non è possibile avere la meglio, in una gara di ciclismo come nel circuito della vita. E il benessere e il successo te li devi guadagnare con le tue forze, come in una corsa a tappe: al Giro o al Tour non ci sono sostituti in panchina pronti a prendere il tuo posto (per la verità fino agli anni Sessanta non ce n’erano nemmeno nel calcio: se si infortunava il portiere era sostituito da uno degli altri giocatori…).

Quell’Italia oggi non c’è più, per fortuna, per certi versi, per disgrazia, per altri, e forse anche per questo da tempo il calcio ha avuto la meglio nello storico duello col ciclismo fra gli sport popolari. Anzi, molte altre discipline incalzano a contendere il secondo posto alle gare in bicicletta: quando mi accorsi che nelle “palline” con cui i ragazzini giocano sulla spiaggia i campioni di motociclismo avevano preso il posto dei Gimondi, dei Moser, dei Nencini, degli Anquetil, capii che il mondo stava cambiando.

Imparare a soffrire

Non credo sia solo una questione di diritti televisivi, di bilanci milionari, di Football Club divenuti Spa. Il fatto è che attira sempre meno i giovani uno sport in cui bisogna imparare a soffrire, e anche il grande campione, che può contare su una squadra di gregari, se il fiato e le gambe gli fanno cilecca, magari per una banalissima indisposizione, vede sfumare i suoi sogni di gloria, e con essi la speranza di un buon ingaggio nella prossima stagione. Troppe famiglie vedono nell’ingresso dei figli in una formazione calcistica giovanile una scorciatoia per il successo, più della scuola o dell’apprendistato, creando generazioni di spostati, e come se non bastassero gli spostati che abbiamo già in casa ne importiamo anche dall’Africa. E intanto sono sei anni che un italiano non vince il Giro d’Italia.

In bicicletta, certo, i ragazzi ci vanno ancora, anzi nascono e prosperano nuove discipline, come il ciclocross, ma difficilmente emergono delle eccellenze, forse perché mancano ormai lo stimolo della fame, l’orgoglio delle ascelle sudate e delle ginocchia sbucciate, il gusto della sfida non tanto contro gli altri corridori, quanto con se stessi, la speranza di pagare con la vincita di un trofeo della montagna la lavatrice per la mamma dalle mani cartavetrose per i panni lavati o la cucina in formica per la futura casa. Non per nulla questi ultimi anni registrano il trionfo delle biciclette a pedalata assistita, ipocritamente battezzate ecologiche, che invece spingono a consumare energia giovani e meno giovani che potrebbero benissimo utilizzare la propria, con ben maggiori benefici per i loro muscoli e per l’ambiente. Anche per questo trova sempre più  conferma l’affermazione di uno degli ultimi grandi corridori italiani degli ultimi anni, Gianni Bugno, secondo cui il ciclismo è uno sport, il calcio è solo un gioco (magari, riconosciamolo, il più bello del mondo).

p.s. Eppure, devo ammetterlo: oltre che di fiato, sudore e orgoglio, il ciclismo era fatto anche di sostanze dopanti (e in parte ancora lo è, come del resto il calcio). Sotto questo profilo, questo sport perse l’innocenza il 13 luglio 1967, quando il corridore inglese Tom Simpson morì al giro di Francia mentre scalava il Ventoux, che poi altro non è che il Monte Ventoso di cui parla il Petrarca in una sua celebre lettera. Simpson morì a due chilometri dalla cima, e con lui l’illusione che il ciclismo fosse esente da brogli. All’epoca avevo quattordici anni e tutti i requisiti per entrare in una squadra per dilettanti, ma proprio quell’episodio, insieme al mio spirito individualista, mi fece cambiare idea. Anche se, debbo ammettere, a volte provo rimpianto per le salite sulle Alpi Apuane che affrontavo pigiando sui pedali di una Bianchi col cambio da semiallenamento e un cambio non Campagnolo che in sotto sforzo finiva spesso per saltare.

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Enrico Nistri

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