Jacques Perrin un francese a Cinecittà

Uno spaccato del percorso artistico in Italia dell'attore, regista e produttore transalpino

Jacques Perrin

Per capire l’involuzione dell’industria cinematografica e, di conseguenza, del cinema italiano, basta tornare indietro nel tempo di qualche decennio.  Tra la fine degli anni 50 e per buona parte degli anni 70 del secolo scorso, il nostro cinema è stato storicamente anche, se non soprattutto, un cinema di coproduzioni (con le altre nazioni europee, ma non solo) e di grandi produzioni estere (il fenomeno della cosiddetta Hollywood sul Tevere) che, grazie alle leggi varate da un politico lungimirante come Giulio Andreotti, riusciva sia a incrementare il PIL, sia a essere considerato economicamente e strutturalmente solido. Una fertile filiera produttiva che coinvolgeva tutti i comparti della nostra industria cinematografica, dai produttori ai registi, dagli stabilimenti di sviluppo e stampa alle società di doppiaggio, dai montatori alle parrucchiere, dai divi fino all’ultima comparsa. 

Oggi, invece, l’unico rapporto che il cinema italiano ha con le altre cinematografie si limita ai pedissequi rifacimenti dei successi altrui (da Cose dell’altro mondo, ispirato a un film americano-messicano-spagnolo, a Il nome del figlio e Corro da te, ispirati ad altrettanti film francesi). L’unica eccezione in questo campo è costituita da Perfetti sconosciuti (2016) di Paolo Genovese, che, al contrario, ha generato un’infinità di rifacimenti in tutto il mondo.     

Lo scambio (co)produttivo più proficuo è stato senza dubbio quello con la vicina Francia. Maggioritarie o minoritarie che fossero, le coproduzioni italo-francesi potevano infatti vantare, oltre che la presenza dietro la macchina da presa di maestri come Julien Duvivier, Claude Autant-Lara, Vittorio De Sica e Dino Risi, il nome in cartellone di giovani promesse quali Jean Sorel, Alain Delon, Jean-Paul Belmondo, Romy Shneider (austriaca di nascita ma francese d’adozione), Maurice Ronet, Philippe Noiret, Bernard Blier e di tanti altri attori spesso di eguale bravura, ma non sempre di eguale fama. 

Jacques Perrin, morto il 21 aprile 2022 nella natia Parigi all’età di ottant’anni, è stato, senza essere un divo, uno dei migliori attori francesi che abbiano mai calcato un set italiano. E questo ben prima che il suo nome fosse indissolubilmente legato al film premio Oscar Nuovo Cinema Paradiso (1988) di Giuseppe Tornatore.  La sua figura elegante e la sua recitazione, efficace e mai sopra le righe, hanno attraversato, grazie all’interpretazione di personaggi il più delle volte memorabili, oltre quarant’anni del nostro cinema.    

Fautore dell’esordio italiano di Perrin è il regista Valerio Zurlini, che assegna all’attore un ruolo centrale nella sua opera terza La ragazza con la valigia (1961, un film drammatico che riecheggia la nouvelle vague). Il sodalizio tra l’attore e il regista proseguirà con Cronaca familiare (1962, coprotagonista insieme a Marcello Mastroianni e Salvo Randone), tratto da un omonimo romanzo di Vasco Pratolini, per concludersi, nel 1976, con la trasposizione cinematografica del capolavoro di Dino Buzzati (e opera ultima di Zurlini) Il deserto dei Tartari, in cui veste l’uniforme militare del protagonista Giovanni Drogo.  

E’ proprio Perrin, che dalla fine degli anni 60 alterna brillantemente l’attività di attore a quella di produttore, a identificare in Zurlini il regista adatto (in precedenza, vivente Buzzati, si era pensato a due validi cineasti francesi come Claude Sautet e Pierre Schoendoerffer) per portare sul grande schermo il romanzo buzzatiano.   

«Sono io che, da produttore – ha dichiarato infatti l’attore in un’intervista di qualche anno orsono –, l’ho scelto per Il Deserto dei Tartari, cui aspiravano in tanti, da Antonioni a Sautet. Zurlini era capace di imprimere il sentimento ai giri di macchina, di farvi affiorare i movimenti dell’anima»1.

Oltre al sodalizio, più duraturo, con Zurlini, Jacques Perrin ne stringe altri con autori egualmente importanti come Vittorio De Seta (Un uomo a metà, 1966, e L’invitata, 197o), Luigi Magni (Il generale, 1987, ennesima biografia cinetelevisiva di Giuseppe Garibaldi, e In nome del popolo sovrano, 1990, rivisitazione del Risorgimento in chiave dichiaratamente anti-leghista, ambedue realizzati sotto l’egida politico-produttiva di Bettino Craxi) e Giuseppe Tornatore (il citato Nuovo Cinema Paradiso, 1988, e Stanno tutti bene, 1990).   

Il resto della sua filmografia italiana va da opere realizzate da bravi registi come Mauro Bolognini (La corruzione, 1963, da un testo di Alberto Moravia), Duccio Tessari (Il fornaretto di Venezia,1963), Florestano Vancini (La calda vita, 1963, da un omonimo romanzo di Pier Antonio Quarantotti Gambini), Steno (Rose rosse per Angelica, 1966, film in costume, ispirato a un racconto di Dumas padre, che nel titolo richiama la coeva e famosa serie cinematografica francese di Angelica, anche se qui l’eroina eponima ha le fattezze della futura diva televisiva Raffaella Carrà), Carlo Carlei (La corsa dell’innocente, 1992, ultimo film prodotto da Franco Cristaldi) a opere di registi meno ambiziosi o più marginali come Silvio Amadio (Oltraggio al pudore, 1964), Aldo Lado (La disubbidienza, 1981, da un omonimo romanzo di Alberto Moravia), Ettore Pasculli (Fuga dal paradiso, 1990), Enrico Roseo (C’è Kim Novak al telefono, 1993, opera prima e ultima di un produttore e sceneggiatore), Fulvio Wetzl (Prima la musica poi le parole, 1999) e Piero Livi (Maria sì, 2004). 

L’attore francese compare inoltre in Il lungo silenzio (1993, coproduzione italo-franco-tedesca ideata e scritta da Felice Laudadio) e Ti voglio bene Eugenio (2002), due interessanti film rispettivamente diretti dalla tedesca Margarethe von Trotta (regista dell’epocale Anni di piombo, 1982) e dall’italo-spagnolo Francisco José Fernandez, e in un nutrito numero di serie televisive italiane (tra i diversi registi che l’hanno diretto in quest’ambito meritano una menzione particolare un maestro come Sandro Bolchi e un veterano come Alberto Negrin).   

Interrogato su quale, tra i tanti interpretati, giudicasse il suo film italiano migliore, Perrin ha risposto «forse Il Deserto dei Tartari. Zurlini era malato, stanco. Era più che mai dentro la storia raccontata da un Dino Buzzati ‘kafkiano’: l’attesa, romantica, infinita, infinitamente frustrata, del grande combattimento con i Tartari, che diventa l’attesa della morte. Il giorno agognato arriva, ma tardi: in tutti quegli anni trascorsi nel chiuso della fortezza, i giovani soldati hanno perso la gioventù, hanno perso la vita»2. 

Non possiamo non concordare con il compianto attore: Il deserto dei tartari è il suo film (non solo) italiano migliore e quello di Giovanni Drogo è il ruolo che riassume interamente la vita e la carriera di un grande e sottovalutato artista come Jacques Perrin. 

Note

1-2 Mario Serenellini, Jacques Perrin l’esploratore, in «Alias» (supplemento di «Il Manifesto»), 22 luglio 2017 (reperibile sul sito internet del quotidiano). 

Franco Grattarola

Franco Grattarola su Barbadillo.it

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