Giornale di Bordo. La guerra Ucraina-Russia e il dibattito ridotto a tifo da stadio

Il bipolarismo ha accentuato una tendenza secolare, che si può fare risalire al tempo delle contese fra guelfi e ghibellini

Anche se può sembrare fuori luogo, visto che affido queste riflessioni a un sito intitolato a un giocatore, ho sempre più l’impressione che uno dei grandi mali dell’Italia sia una concezione sempre più calcistica della politica. Il bipolarismo ha accentuato una tendenza secolare, che si può fare risalire al tempo delle contese fra guelfi e ghibellini, ma le vicende degli ultimi due anni hanno dato il colpo di grazia a chi rifiuta di partecipare a un confronto di idee rifiutandosi di fare senza distinguo il tifo per l’una o per l’altro schieramento. La pandemia ci ha messo del suo, alimentando campagne di odio nei confronti di chi esprime riserve sull’utilità dei vaccini e sulla compatibilità del certificato verde con la tutela delle libertà costituzionali, ma anche spingendo sul fronte opposto a improponibili ad opinabili paragoni fra chi rifiuta l’inoculazione del siero e gli ebrei vittime delle persecuzioni razziali.

Troppa faziosità

Con la guerra in Ucraina mi sembra di assistere a un ulteriore inacidirsi della faziosità. Chi cerca di comprendere le origini di una guerra, chi s’interroga sulla utilità di sanzioni che più ancora della Russia colpiscono noi italiani, chi si chiede se armare una parte in conflitto sia il miglior modo di arrivare alla pace, chi osa far presente che Zelensky ha chiuso alcune emittenti televisive dissidenti ancor prima ancora dell’invasione russa, rischia di essere accusato di intelligenza col nemico. Al tempo stesso chi si permette di far presente che Putin è un aggressore e per questo è comunque dalla parte del torto, che l’invasione dell’Ucraina oltre che un orrore umanitario è un errore militare, che con buona pace dell’arcivescovo di Mosca la lobby gay non si combatte bombardando proprio i reparti di maternità, dove per ovvi motivi è più difficile trovare un omosessuale, rischia di essere trattato dai seguaci di monsignor Viganò alla stregua di un tifoso “gobbo” in curva Fiesole, il giorno del derby Fiorentina-Juve.

Il fatto è che dal 24 febbraio scorso in Italia soffia un vento torto. Un vento che sta riducendo la libertà d’espressione di chi rifiuta di riconoscersi nella propaganda ufficiale o ufficiosa, così come il passaporto verde ha limitato la libertà di locomozione per chi rifiuta di farsi vaccinare. Nel campo dell’informazione si tende a imporci un “pacchetto unico”, come quelli, prendere o lasciare, che ci propongono le agenzie di viaggio: ma dietro di esso si potrebbe nascondere un biglietto di viaggio per l’altro mondo. La logica del “chi non è con noi è contro di noi” – il ricatto di tutti i faziosi e i mascalzoni, colonna sonora di tutte le guerre civili – entra nei commenti dei più paludati quotidiani. Gli elenchi dei “putiniani” da additare al pubblico ludibrio mi ricordano certe liste di proscrizione degli anni Settanta. Le corrispondenze di guerra di molti inviati sembrano emulare le “barzinate” e le “beltramate”, i reportage dal fronte e le tavole della “Domenica del Corriere” che durante il primo conflitto mondiale esasperavano i fanti in trincea, quelli che combattevano davvero. E non vorrei che tante denunce sulle atrocità russe facessero la fine delle menzogne dell’Intesa sui tedeschi che nel Belgio occupato tagliavano le mani ai bambini, menzogne che, una volta sbugiardate, resero l’opinione pubblica mondiale quasi trent’anni dopo meno disposta a credere alle notizie, purtroppo vere, sulle atrocità nei lager.

Negli Stati Uniti, certo, le cose non vanno meglio: quando il presidente Biden accusa Putin di essere un criminale di guerra per i suoi bombardamenti sui civili mi ricorda, come si dice a Prato, “cencio che parla male di straccio”, e lo stesso si può dire dello scandalo del premier britannico: non mi risulta che il monastero di Montecassino o la città di Dresda siano andati distrutti per un evento sismico. Ma all’opinione pubblica statunitense, che conosce pochissimo la storia e ancora meno la geografia, occorre concedere quell’attenuante dell’ignoranza che il diritto romano riconosceva ai militari. Noi italiani dovremmo essere invece meno vulnerabili alle trappole della propaganda, anche se non siamo certo immuni da colpe. Giulio Douhet, che per primo teorizzò il bombardamento strategico, era uno di noi e Boccasile nel celebre manifesto del “pollice verso” celebrò i raid aerei su Londra.

Fatte queste premesse, credo che prima di esprimere giudizi su quanto sta succedendo in Ucraina sarebbe opportuno almeno di stabilire dei giudizi su alcuni punti fermi, per quanto possano essere fermi i giudizi su una realtà in movimento.

Il caso Putin

Partiamo da Putin. Oggi l’evocazione dell’amicizia e della stima manifestate nei suoi confronti viene utilizzata come una clava contro i politici del centrodestra e in particolare dei movimenti sovranisti o populisti. Senz’altro se Salvini avesse evitato d’indossare una felpa osannante al presidente russo avrebbe fatto meglio, così come avrebbe fatto meglio a non ribaltare platealmente le sue posizioni nel giro di poche settimane. Ma in realtà – invito per questo alla lettura, o alla rilettura, della bella biografia del leader russo pubblicata da Gennaro Sangiuliano – gli omaggi di politici occidentali e anche italiani allo “zar” non sono mancati. Nulla di scandaloso: il fair play nei confronti del capo di una potenza mondiale rientra nella logica della diplomazia. Stupisce invece che Iryna Verenschuk, l’odierna vicepremier ucraina rappresentata dai media occidentali come un connubio fra Giovanna d’Arco e la Vergine Camilla, nel 2013 in un’intervista al “Kommersant,” uno dei maggiori quotidiani russi, abbia dichiarato: “Se avessimo un presidente come Vladimir Putin, voterei per lui. Fa bene alla Russia”.

È cambiato Putin? È cambiata l’Ucraina? È cambiata Iryna? È cambiato il mondo, nel giro di poco meno di dieci anni? Forse, è cambiato un po’ tutto. Non si capisce perché solo Salvini non sarebbe dovuto cambiare.

Il fatto è che per molti anni “lo Zar” ha davvero fatto bene alla Russia, risollevandone il morale a torto o a ragione prostrato dalla perdita dell’impero – un impero che si chiamava Unione Sovietica, ma impero era, a tutti gli effetti – e risollevandone l’economia distrutta dalle riforme iperliberiste di Eltsin, tradottesi nella svendita delle enormi risorse agricole e minerarie della nazione. Chi non ricorda i funzionari statali in pensione costretti a rufolare nei cassoni della nettezza per trovare qualcosa di commestibile, le figlie di alti ufficiali dell’Armata Rossa ridotte a esercitare la professione più antica de mondo negli angiporti, non può capire tutto questo. Come non lo può capire chi non ha considerato l’enorme umiliazione rappresentata per la Russia dall’intervento armato nella ex Jugoslavia, per costringere la Serbia ortodossa ad abbandonare il Kosovo, terra dei padri sacra alle sue memorie, consentendogli di divenire uno “Stato canaglia” islamico. Una delle tante aberrazioni dell’interventismo democratico dei Clinton cui è legata anche la crisi ucraina.

Si potrà obiettare che anche Hitler risollevò la Germania da uno stato di demoralizzazione e da una crisi economica senza precedenti, e anche su questo fondò un consenso che avrebbe utilizzato per altri fini. È vero, ma la colpa è anche di chi permise che l’economia tedesca andasse alla deriva. Si potrà obiettare che Putin si è limitato a sostituire alla cleptocrazia dei buccellari di Eltsin un’altra, sua personale; è molto probabile, ma in un primo tempo il popolo post-sovietico ha avvertito una piacevole discontinuità e alcuni indicatori obiettivi, come il prolungamento della durata media della vita, confermano la proficuità delle sue politiche.

La rivoluzione arancione a Kiev

I cambiamenti dell’Ucraina risalgono, com’è noto, alla “rivoluzione arancione” del 2014: uno spontaneo moto popolare, secondo una versione, un colpo di Stato eterodiretto, secondo altre fonti. Molto probabilmente, una delle tante conferme della colonizzazione dell’immaginario collettivo che gli Stati Uniti esercitano attraverso un soft power  fatto di serie Tv, di mode musicali, di modelli di vita. È stato detto che i giovani insorti contro il presidente filorusso guardassero all’Europa (ma l’Ucraina, come del resto la stessa Russia, non è Europa?). In realtà guardavano all’America, o se si preferisce a un’Europa americanizzata, l’Europa della fluidità sessuale, dell’ideologia del gender, della società multietnica e multiculturale, dei gaypride. A tale subcultura si sono aggiunti sentimenti e risentimenti più seri, come l’odio nei confronti di Mosca maturato negli anni della grande carestia voluta da Stalin, in cui morirono milioni di ucraini, uno dei tanti crimini del comunismo a lungo sottaciuti.

La cosiddetta rivoluzione arancione tuttavia scoppiò soprattutto perché era cambiato l’atteggiamento dell’Occidente nei confronti di Mosca. Putin si era andato atteggiando a difensore di quei valori tradizionali, di difesa dell’istituto familiare, di rifiuto della teoria del gender, di orgoglio del proprio passato, di sostegno  alla religione ortodossa che negli Stati Uniti andavano tramontando, sotto i colpi dell’ideologia del Woke e della cultura della cancellazione e del rimorso. Era sincero? Difficile dirlo, anche alla luce delle sue scelte più recenti. Certo, il cesaropapismo faceva già parte della tradizione ortodossa, dagli zar allo Stalin che accantonò l’ateismo di Stato in occasione della guerra contro Hitler. Ma resta il fatto che la Russia rimaneva fuori dalla globalizzazione non economica ma culturale, con un richiamo ai valori tradizionali mal compatibile con l’ideologia del politicamente corretto. Il colpo di Stato in Ucraina sotto questo profilo è una delle tante manifestazioni della politica destabilizzante perseguita dal Premio Nobel per la pace “sulla fiducia” Obama, con effetti rovinosi anche nel Medio Oriente.

Fatalmente, finì per cambiare anche l’atteggiamento di Putin nei confronti dell’Occidente: la sindrome dell’accerchiamento si impadronì del presidente russo, e come spesso succede in questi casi si associò a un atteggiamento di sospetto e di insofferenza nei confronti delle dissidenze interne: in una cittadella assediata si scorgono ovunque traditori pronti ad aprire al nemico una postierla. Non voglio entrare nel merito della questione se Putin possa essere considerato in senso stretto un dittatore: è stato eletto in più consultazioni elettorali, ma il suo atteggiamento nei confronti degli oppositori rientra in una tradizione autoritaria della Russia sovietica e zarista. Certo comunque l’immagine del leader sorridente e palestrato, di cui Berlusconi a suo tempo sollecitava l’ingresso nella Nato, si è andata progressivamente trasformando in quella di un despota isolato anche fisicamente, ossessionato dal timore del contagio da pandemia,  ossessionato forse dalla paura di un’incipiente vecchiaia ancor più che degli oppositori interni. Un alleato inquietante per i sovranisti di casa nostra, che hanno pagato un prezzo molto alto per le simpatie manifestate nei suoi confronti. Non escluderei affatto che sulle vicende dell’estate 2019 in Italia e in Austria abbia giocato la diffidenza per leader di partito troppo vicini a Mosca. Cominciava allora la rivincita del globalismo sul sovranismo, che sarebbe proseguita con la sofferta sconfitta elettorale di Trump e l’effetto pandemia, che ha allontanato l’attenzione dalle tematiche relative all’immigrazione clandestina e alla sostituzione etnica.

Naturalmente, non so fino a che punto le pulsioni aggressive del presidente russo siano la conseguenza di una mera sindrome da accerchiamento o non costituiscano il disvelamento di un antico sogno che Putin coltivava da tempo, da quando, almeno, funzionario del Kgb a Berlino nei giorni del crollo del muro, subì l’umiliazione di dover bruciare in tutta fretta i documenti secretati, prima che cadessero in mano agli insorti. Mi permetto di avanzare un’ipotesi intermedia: può essere caratteristica della vecchiaia una sorta di nostalgia canaglia delle illusioni perdute della gioventù, che in questo caso si potrebbe manifestare nel desiderio di ricostituire l’impero russo, poco importa se all’ombra dell’aquila imperiale o della bandiera rossa, per parafrasare il titolo di un vecchio romanzo di Krasnov. Ma queste e altre interpretazioni psicologistiche non tolgono nulla alla realtà dei fatti: Mosca sta combattendo – male – una guerra d’aggressione, è costretta a ricorrere a mercenari e ad armamenti stranieri per risolvere una partita che si sarebbe dovuta concludere in pochi giorni, con i suoi bombardamenti sta perdendo le simpatie anche delle minoranze russofone presenti in Ucraina. Sotto un certo profilo potrebbe, con una di quelle eterogenesi dei fini di cui è ricca la storia, aver creato per reazione quella nazione ucraina che in precedenza non esisteva, o aveva comunque un’identità meno marcata.

Zelensky e Biden

Zelensky

Un discorso a parte meritano le altre due dramatis personae della vicenda ucraina: Zelensky e Biden. L’ex attore con i tacchi a spillo ha rivelato doti di virilità imprevedibili – un po’ come gli ufficiali francesi prigionieri dei tedeschi nella Grande Illusione di Renoir, – rifiutando di abbandonare la sua terra ed ha saputo fare un uso senz’altro efficace dei social, e non solo. Può darsi che abbia dei collaboratori che gli scrivono i discorsi che poi recita; ma anche sapersi scegliere i copioni fa parte della bravura di un attore.  Il suo discorso al Parlamento italiano è stato un capolavoro di abilità diplomatica, a partire dalla scelta di non citare la Resistenza, un po’ perché è un tema divisivo, un po’ perché fra le forze che si oppongono in Ucraina ai russi c’è un battaglione di neonazisti, un po’ perché l’Anpi ha assunto posizioni pacifiste. Resta il fatto che molti aspetti del suo comportamento risultano inquietanti, e non mi riferisco ai suoi rapporti col figlio di Biden o alla sua grande fortuna personale, che gli ha consentito di tenere una lussuosa villa personale inutilizzata per anni in Versilia. C’è, nel suo reclamare l’intervento della Nato, nel suo invocare un no-flying-zone, nel suo evocare una terza guerra mondiale, un qualcosa che va oltre il legittimo e patriottico desiderio di trovare un sostegno contro l’invasore. Si può essere benissimo consapevoli delle proprie ragioni, ma di qui a rischiare che il mondo vada distrutto per difenderle il passo è lungo. Pereat mundus, fiat justitia è una frase da lasciare sui frontoni dei tribunali, dove per altro è spesso declinata a sproposito. Si può sperare naturalmente che il presidente ucraino bluffi, come forse sta bluffando Putin, ma l’uno e l’altro stanno giocando a poker un patrimonio che non è soltanto loro.

L’altro attore di questo dramma è Biden, il più patetico e forse il più pericoloso, come può essere pericoloso un debole che mostra i muscoli. Presidente “per disgrazia ricevuta” (senza la pandemia sarebbe stato rieletto senza difficoltà Trump), ha esordito dando a Putin del killer e ora lo tratta da  criminale di guerra, dimenticando che il presidente russo può essere anche un pazzo e un criminale, ma è un pazzo e criminale che dispone di testate termonucleari in grado di far sparire la vita sulla terra, per cui può essere pericoloso evocare per lui lo spettro di una nuova Norimberga. Se una guerra mondiale ci portasse tutti all’inferno, non sarei molto consolato di vedere la Carla Del Ponte di turno celebrare un solenne processo per crimini contro l’umanità all’anima di Putin. Uomo sbagliato al posto e nel momento sbagliato, Biden ha favorito un ralliement fra Russia e Cina, distruggendo quello che mezzo secolo fa Henry Kissinger era riuscito a realizzare con la diplomazia del ping-pong. La sua speranza è che il combinato disposto di insuccessi militari e sanzioni economiche provochi un colpo di Stato a Mosca, che faccia fare magari allo Zar-Putin la fine di un Ras-Putin; ma è più probabile che il fallimento delle forze armate convenzionali induca il presidente russo a far ricorso agli armamenti non convenzionali, con le conseguenze immaginabili.

In questo quadro desolante non posso fare a meno di registrare un esempio positivo e una scelta generosa ma inquietante. L’esempio positivo proviene dai paesi dell’Est, Polonia e Ungheria, che, sia pure con comprensibili distinguo, si stanno rivelando un caposaldo fondamentale nel contenimento delle mire russe e hanno aperto generosamente le loro frontiere a milioni di veri profughi. Segno, quest’ultimo, che la chiusura delle frontiere ai migranti provenienti dalla Bielorussia non era dettata da mero egoismo, ma dalla scelta consapevole di impedire l’invasione di una massa di persone difficilmente integrabili per estrazione etnica e scelte religiose, spinte spesso da motivazioni economiche più che da effettive necessità (sta suscitando scandalo in Germania il caso dei rifugiati siriani che approfittano delle vacanze per fare ritorno nel loro paese, a loro dire abbandonato per sfuggire alle persecuzioni). Sotto questo profilo i governi di Polonia e Ungheria stanno, probabilmente senza saperlo, seguendo l’opinione del compianto cardinal Biffi, arcivescovo di Bologna, che il 30 settembre 2000 a un seminario della fondazione Migrantes aveva auspicato una politica migratoria di “popolazioni cattoliche o almeno cristiane”, più facilmente integrabili,  inducendo qualcuno a invocare contro di lui i rigori della legge Mancino.

La scelta generosa ma inquietante proviene da papa Francesco, che il 25 marzo consacrerà l’Ucraina e la Russia al Cuore Immacolato di Maria. Non sono un “fatimologo” e non entro nel merito del reale significato del messaggio mariano, su cui insigni giornalisti e ricercatori, da Mino Caudana ad Antonio Socci, hanno versato fiumi d’inchiostro. Di due fatti però sono sicuro. Il primo è che se il pontefice ha preso questa decisione, vuol dire che considera il rischio di una terza guerra mondiale, con le conseguenze apocalittiche che potrebbero derivarne, tutt’altro che teorico. Il secondo è che una notizia di straordinaria rilevanza anche per il non credente è stata relegata nelle pagine interne dalla grande stampa.

È un’amara realtà, che induce a nutrire molte riserve sull’effettiva possibilità che il pontefice possa svolgere una missione di pace. Papa Francesco non è papa Giovanni al tempo della crisi di Cuba e – spiace dirlo – la colpa non è solo dei giornalisti: se chi guida la Barca di Pietro si occupa soprattutto dei barconi, è fatale che la stampa si occupi di lui quando parla dei migranti e non di quanto parla della Madonna.

@barbadilloit

 

Enrico Nistri

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