Il racconto. Le domeniche al Musocco e la memoria dei patrioti in grigioverde

"Morirono per la divisa, come mi disse mio padre quando io ero bambino. Solo mi son sempre chiesto come un vero e diffuso sentimento di umanità non sia riuscito ad imporsi al di là delle divisioni e degli odi di quel tempo"

Musocco

Era il 1955, credo. Dovevo frequentare la prima elementare. Era una soleggiata giornata d’autunno. Per la prima volta i miei genitori mi portarono al camposanto, al Cimitero Maggiore di Milano, il Giorno dei Defunti. Era il Campo X, quello dei morti ammazzati della R.S.I., a destra rispetto all’ingresso. Ma questo l’avrei appreso più tardi. Quel giorno era pieno di gente e l’atmosfera, al ricordarla anni dopo, era diversa da quella di altri settori del cimitero che pure visitammo per una breve sosta, per deporre dei fiori, dei crisantemi bianchi ed un Requiem.

– Qui era sepolto il Duce, lì Claretta – commentava una donna anziana ad un’altra. Allora non conoscevo, ovviamente, la tormentata storia dei due personaggi, neppure di Leccisi, del trafugamento delle spoglie di Mussolini, del loro occultamento per anni nella Certosa di Pavia.

Un cimitero in quel settore diverso, con piccole croci tutte uguali.  Ci fermammo davanti alla croce dove giaceva mio zio Aldo e, dopo, davanti a quella dello zio Fabrizio. Erano i soli fratelli di mio padre, che conoscevo attraverso le foto incorniciate nel tinello di casa. 

– Come sono morti? – avevo già chiesto a mio padre, al vedere i volti di quei due uomini giovani che più non erano di questo mondo.

– Se li è portati via la guerra. Prega Gesù per la loro anima – erano state le sue sole parole. 

Per anni non seppi altro. Ogni tanto si andava al cimitero, però, se non era il Giorno dei Defunti con il camposanto pieno di gente, mio padre si poneva nervoso, si guardava intorno, come se avesse timore di essere seguito, come se su di lui incombesse una minaccia. Io lo notavo, ma non chiedevo il perché. Avvertivo che quel campo tutto uguale, con certi nastrini tricolori sulle croci, certe frasi colte qui e lá, celava delle verità che i miei genitori non volevano raccontarmi, immagino per proteggermi. 

Una volta, peró, quando avevo dieci o undici anni, dopo una visita, gli chiesi:

– Papà, ma se la guerra è finita il 25 aprile, quando facciamo anche vacanza a scuola, perché la data incisa sulla croce di zio Aldo è il 10 maggio 1945 e quella sulla croce di zio Fabrizio il 4 giugno 1945? Perché non hanno messo le fotografie?

Mio padre non mi rispose subito, come per dover cercare le parole giuste. 

– Furono uccisi a guerra finita.

– Perché?

– Perché indossavano l’uniforme di quelli che avevano perso.

– Solo per quello? Sempre si uccidono i soldati sconfitti?

– Non sempre. Ma quella volta andò diversamente ed i vinti continuarono ad essere assassinati dopo che la guerra era finita, a volte molto tempo dopo. Non pochi quando tornavano a casa, usciti dal luogo dove erano stati detenuti o si erano rifugiati.

– Chi li uccideva?

– Non si seppe mai, dicevano quelli della “Volante Rossa”, a Milano, un gruppo estremista. Uomini fanatici e malvagi. La Polizia non faceva vere indagini. Erano tempi duri, molto duri. Altro che pace e giustizia. Un giorno capirai. Le foto meglio non metterle sulle loro tombe. Io li ricordo com’erano da vivi. 

Passarono alcuni anni fino a che compresi il motivo dell’atteggiamento cauto, protettivo di mio padre e riuscii anche a sapere la storia degli zii sepolti al Capo X del Musocco. Facevano parte della Brigata Nera “Aldo Resega” e della Divisione Alpina Monte Rosa, e vennero assassinati dopo la resa. In casa non si parlava mai di fascismo, di guerra civile, di politica, né di quella passata, né dell’attuale. Su quell’ultimo periodo della vita degli zii esisteva come una sorta di congiura del silenzio. Per la verità neppure nelle case dei miei amici non sentivo mai parlare della guerra civile. Un vero argomento tabù, come avrei riflettuto poi, che rimandava a   sofferenze, tragedie, morti premature e che, in qualche modo, si tentava di esorcizzare con la prudenza e l’oblio.

Solo parecchio tempo più tardi mio padre divenne un po’ più loquace. Io giá ero grande e lavoravo. A Milano durante la guerra era stato un gran brutto vivere, tra bombardamenti, oscuramento, fame, terrorismo armato, rappresaglie, paura. Mio padre, Andrea, era il minore di tre fratelli, più giovane di loro di alcuni anni. Il nonno Francesco lo aveva mandato da certi parenti in campagna, durante la guerra. L’epoca dello sfollamento. Zio Aldo e zio Fabrizio avevano combattuto al fronte greco-albanese. Il primo aveva anche ricevuto una Medaglia al Valore. Dopo l’8 settembre 1943 erano stati internati in Germania, quindi erano tornati in Italia, dapprima nella Divisione Alpina Monte Rosa, poi, nel ’44, Fabrizio era entrato nella Brigata Nera, quando fu costituita per iniziativa del Segretario del P.F.R., Alessandro Pavolini.

Mia nonna Adele era morta giovane quando aveva meno di cinquant’anni, durante la guerra. Mio nonno, quando seppe della fine fatta da due dei suoi tre figli, cercó una grossa corda e s’impiccò ad una trave della cantina della sua casa.  Anche quel particolare lo venni a sapere che ero giá adulto. Con appena diciassette anni mio padre si trovò solo al mondo, ma presto conobbe mia madre, che sposò a vent’anni. Fu allora per me l’inizio di una specie di viaggio nelle memorie familiari e nella storia tragica dell’Italia di quell’epoca, destinato a non finire più, neppure ora dopo aver letto centinaia di libri, parlato con molti testimoni di quelle vicende, aver raccolto su quell’oscuro periodo della nostra storia nazionale una corposa documentazione. Dopo ore, giorni, anni di riflessione, dopo aver cercato risposte per lo più impossibili. 

Quando iniziai veramente quel viaggio, mi resi conto, al di là delle reticenze, dei silenzi, delle spiegazioni approssimative, che quegli episodi che avevano trascinato nel gorgo infernale i due fratelli di mio padre segnavano come uno spartiacque tra due mondi che pure convivevano gomito a gomito, quotidianamente. Che decenni dopo continuava ad avere corso legale la   “storia ufficiale”, retorica e spesso falsa; poi c’era la “storia reale”, quella degli sconfitti, che veniva negata, ridimensionata, giustificata anche quando si trattava di crimini orrendi, di crudeltà spaventose, inaudite. Durante oltre settant’anni l’atteggiamento dei “vincitori” oscillò tra la negazione e la comprensione benevola di quei crimini, di quegli omicidi a sangue freddo. Chi osava infrangere la “vulgata resistenziale”, cioè la “storia ufficiale” non veniva più accoppato, ma invariabilmente tacciato di essere ottusamente fascista, nostalgico, bugiardo, traditore, complice della Shoah. Anche ora nulla è sostanzialmente mutato.

Non ci fu alcun spazio per la comprensione serena, neppure dopo tanto tempo, quando ormai stavano morendo anche i più giovani combattenti sopravvissuti delle due parti. La “storia ufficiale” era diventata un dogma assoluto ed intangibile, ogni pensiero dissonante rimosso frettolosamente, fatto sparire nel silenzio, bandito, condannato come un crimine contro l’umanità.  L’ostracismo era forse il minore dei mali che potesse colpire – pur decenni dopo quei tragici eventi, quei fatti vergognosi – chi osasse sollevare il velo, porsi domande, raccontare verità scomode. Tornai varie altre volte al Musocco, soprattutto la domenica, anche dopo che morirono i miei genitori, a rendere un omaggio a chi non avevo conosciuto. Quegli zii assassinati dopo sevizie e maltrattamenti, immaginavo. Come tanti altri. 

Vedevo, tra le altre, le tombe degli attori Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, di Pavolini, delle Medaglie d’Oro Borsari, Barracu, di Visconti di Lampugnano, il massimo eroe dell’Aviazione italiana nella II Guerra Mondiale. A guardare quella porzione di terra che celava i poveri resti di una piccola parte dei trenta-quarantamila, forse più (i numeri non sono mai stati accertati, neppure in misura approssimativa), connazionali nostri assassinati da altri connazionali, dopo la fine della guerra, dopo la resa. Soprattutto uomini, ma anche parecchie donne. Per i motivi più svariati e talora abietti.

Tentavo di capire. Non pensavo a memorie condivise, solo dell’accettazione dell’idea, mai  prosperata, che in un’Italia sconfitta, spaccata in due, entrambe le parti occupate militarmente, entrambe con un governi fantoccio, un esercito straniero prevalse sull’altro esercito straniero.  Non era la situazione dopo la Guerra di Secessione degli Stati Uniti, ovvio. Qui nel 1945 ci fu una parte che cercò di legittimarsi politicamente nella sconfitta generale, attraverso un bagno di sangue, saltando sul carro dei vincitori. Nessuna Pace ‘senza vincitori, né vinti’: fu il trionfo della rimozione e dell’ipocrisia, tinti con la retorica ‘dei patrioti e dei martiri della libertà’…

Non ho sposato le idee e tesi degli sconfitti. È un mondo finito, pieno di zone d’ombra. Probabilmente i miei zii non erano neppure santi, pochi lo sono in una guerra civile, ma il conflitto era finito e loro si erano arresi. Non vennero giudicati, neppure con una farsa di processo. Morirono per la divisa, come mi disse mio padre quando io ero bambino.

Solo mi son sempre chiesto come un vero e diffuso sentimento di umanità non sia riuscito ad imporsi al di là delle divisioni e degli odi di quel tempo. Come tanti, qualcuno magari in perfetta buona fede, abbiano continuato a negare l’evidenza o, peggio, a giustificarla con sofismi faziosi, assurdi, indegni d’un consorzio civile. Ma, e questo è forse il pensiero più amaro, questo nostro Paese, bello, dolce, ricco di storia e di cultura, di fantasia e d’intelligenza, perché ha avuto tanta paura della verità? Perché ostinatamente ha celato, negato, falsificato la verità? Perchè, ad esempio, un assassino di donne incinte è diventato un celebrato Presidente? Ed altri, nuovi, improbabili ‘Padri della Patria’? Colmati di onorificenze e riconoscimenti? E sono già trascorsi oltre 76 anni…

Che cosa di valido e duraturo, se non di giusto, si può mai costruire sulla dissimulazione, l’omertà, la menzogna di oltre tre quarti di secolo?

@barbadilloit

Gianni Marocco

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