Capita a tutti di cadere vittime di quella che sono solito chiamare la sindrome del raddoppio. È la patologia del giocatore che al tavolo verde è convinto di riuscire prima o poi a guadagnare giocando sul rosso o sul nero e duplicando almeno, se non vince, la posta. All’apparenza il suo comportamento è meno irrazionale di quello di chi gioca al lotto – quel gioco che Luigi Einaudi chiamava la tassa sugli imbecilli, perché l’entità delle vincite non corrisponde al calcolo delle probabilità, – o peggio ancora ai vari gratta e vinci. Anche la più taroccata delle roulette non potrà fare uscire unicamente numeri di un certo colore. Ma raddoppiare ogni volta la posta, se il caso si accanisce contro, ha dopo qualche puntata un costo altissimo e il giocatore che non abbia le spalle coperte rischia di uscire con le ossa rotte, o d’indebitarsi per proseguire nei suoi tentativi con uno di quegli strozzini che non mancano mai nei dintorni di un casinò. Come non manca, a Montecarlo, un vialetto dei suicidi, in cui chi ha perso tutto sceglie di perdere anche la vita.
La sindrome del raddoppio non è limitata al tavolo verde, ma si estendea molti altri aspetti del comportamento umano. Invece di ammettere che una scelta è sbagliata, vi si persevera, ipotecando a volte non la casa ma il nostro futuro.
Succede in amore: per legare una persona che ci è cara, e che ci si sente sfuggire, si sceglie di sposarla. Il matrimonio è in crisi: si sceglie di fare un bambino. “I figli risolvono tutto”, recita una vecchia massima, ma non è vero, anche perché fanno emergere differenze di educazione, di sensibilità, di convinzioni che nella convivenza a due rimanevano sfumate.
Qualcosa di simile può capitare in politica. Lo dico per esperienza, perché è successo a me, come a moltissimi altri. Meno ottenevo risultati apprezzabili dal mio impegno in un partito, più accrescevo la mia disponibilità, senza accorgermi che andavano avanti persone che avevano dato meno di me. Ma la pallina continuava a cadere sul rosso, anzi, in questo caso, sul nero.
Di una sindrome analoga credo che stia soffrendo da quasi un anno a questa parte la comunità internazionale impegnata nella lotta al Covid. In un primo tempo le risposte furono dettate da uno strano miscuglio di impotenza nelle terapie – scusabile, vista l’assoluta novità della patologia – e rigore nelle misure profilattiche. Ma da quando sono stati realizzati i primi sieri anticovid – terapie geniche che solo per comodità pratica chiamerò vaccini – la logica è stata quella del raddoppio, o almeno della crescita costante della giocata.
L’immunità di gregge
In un primo tempo era maturata la speranza che la vaccinazione di massa potesse condurre all’immunità di gregge, assicurando in tempi brevi il recesso dei contagi e la fine della pandemia. Come capita in questi casi, si è cominciato a dare i numeri, alzando volta volta l’asticella, dal 60 al 70 all’80 per cento. Solo di recente, in un’intervista alla “Verità”, il microbiologo Andrea Crisanti, che non è certo l’ultimo arrivato né un flatulento complottista, ha rivelato che la promessa di raggiungere attraverso i vaccini l’immunità di gregge era una fake-new di Stato. Nel frattempo, però, nell’opinione pubblica cominciava a maturare lo scetticismo, legato non tanto alla disinformazione diffusa dai cosiddetti no-vax o a timori sulle conseguenze della vaccinazione, ma alla constatazione che gli inoculati dal siero rimanevano sia contagiosi sia contagiabili. Per contrastare questa sfiducia si fece presente che nessun vaccino garantisce un’immunità al cento per cento. Era un’affermazione vera, ma altro è assicurare una protezione al 99 o anche al 90 per cento, altro all’80 per cento, o addirittura meno. Dinanzi a questi dati, si affermò che il numero dei contagiati comunque diminuiva, fatto per altro almeno in parte riconducibile ai benefici effetti del caldo e dei raggi solari nella stagione estiva, e che comunque le infezioni risultavano meno gravi per i vaccinati.
Nel frattempo, però, la pandemia non risultava debellata, per cui le autorità sanitarie, in Italia ma anche in buona parte dei Paesi occidentali, cominciarono ad alzare la posta. La quota di pecore da vaccinare per ottenere l’immunità di gregge cominciò ad alzarsi mentre si abbassava la fascia d’età cui inoculare il siero. Oltre l’80 per cento di vaccinati non bastava più e inoltre – implicita ammissione dei limiti della terapia genica – si cominciò a parlare di seconde e terze dosi. Ogni vaccino, è vero, richiede un richiamo, ma in termini di anni, non di pochi mesi.
Scetticismo inevitabile
Che nei confronti della vaccinazione di massa montasse lo scetticismo era inevitabile; evitabile invece sarebbe stata la reazione di fronte a essa. Invece di investire nella ricerca di cure per le vittime dell’epidemia si preferì da un lato demonizzare o ridicolizzare il dissenso, presentando magari i no-vax come “negazionisti” convinti di poter curare il Covid con la varichina (ci sono stati anche quelli, ma i pazzi ci sono dappertutto), dall’altro rendendo impossibile la vita ai refrattari alla terapia genica. I risultati li conosciamo, e non sono stati certo esaltanti, né sul piano sanitario, né sul terreno etico-politico. Sul terreno sanitario si è assistito alla moltiplicazione delle varianti, sino alla omicron, che ci ha fatto – quale ne sia la effettiva pericolosità – comprendere come, anche ammesso che i vaccini siano il toccasana, non si possa vaccinare tutto il mondo e in un universo globalizzato non si possano chiudere ermeticamente le frontiere. Sul terreno etico-politico la demonizzazione del dissenso ha finito per radicalizzarlo pericolosamente, come si vide nell’assalto alla sede della Cgil. I partiti emarginati attraggono i marginali, che spesso trovano nell’emarginazione stessa un alibi ai propri fallimenti personali, e sono spesso infiltrabili dai servizi, in tutti i regimi politici. E questo a maggior ragione in tempi di chat e leoni (o coglioni) da tastiera. Paradossalmente, allarmismi e complottismi dell’ala estremista dei no-vax fanno il gioco del potere: prospettare disegni di obbligo vaccinale o deportazione dei refrattari finisce per far capire che provvedimenti ritenuti inconcepibili un anno e mezzo fa non sono poi così improponibili. Domandarsi polemicamente perché si vieta ai refrattari al vaccino di entrare al cinema ma non al supermercato può suggerire un ulteriore irrigidimento delle restrizioni. Denunciare un progetto può essere un modo per evitarlo, ma a volte anche per provocarlo. La psicologia delle masse conosce questi paradossi.
Dopo il green pass, il green pass rafforzato, l’obbligo vaccinale per militari, polizia, insegnanti, la privazione per i non inoculati di larga parte dei diritti civili, si prospetta così l’introduzione dell’obbligo vaccinale, mentre l’efficacia dei tamponi, che un tempo erano considerati un utile filtro contro il contagio, viene messa in discussione. L’Unione Europea, che ancora a luglio escludeva le discriminazioni fra immunizzati e non, sembra pronta ad accettarlo. Tutto lascia pensare che questo provvedimento di ardua applicazione pratica finirà per incanaglire ulteriormente il dibattito politico, provocare reazioni anche violente che a loro volta giustificheranno ulteriori provvedimenti di limitazione delle libertà personali, non solo di locomozione, ma anche di parola.
La terza dose non basta
Si apre così la strada a un ennesimo rilancio della posta. La terza dose non basta, e già si prospetta l’esigenza di una quarta: prospettiva che lascia pensare a un mondo di siero-dipendenti. E del resto insigni scienziati cominciano ad ammettere che dalla pandemia non si uscirà nel giro di qualche mese, ma di vari anni. Intanto non basta vaccinare gli adulti: bisogna anche inoculare gli adolescenti e persino gli infanti. Il “Vernacoliere”, foglio satirico livornese che da tempo non azzeccava una locandina, ne ha tirato fuori una felice, anche se un po’ blasfema, immaginando l’obbligo di vaccinazione anche per Gesù Bambino. Chi esprime delle riserve non viene soltanto criticato o contestato puntualmente, come sarebbe comprensibile, ma sbeffeggiato o addirittura demonizzato come un nemico del popolo. E, come aumentano a livello popolare le persone che in un sentiero isolato o in un’automobile dove non c’è nessun passeggero esibiscono orgogliosamente una mascherina, si moltiplicano quanti ostentano di credere nella scienza, senza capire di esprimere un ossimoro. Perché si può credere in una religione, ma non nella scienza, che è l’opposto di una fede, anzi per ottenere libertà di ricerca ha dovuto lottare contro il dogmatismo delle religioni rivelate. D’altra parte, se la scienza fosse davvero una religione, i suoi sacerdoti dovrebbero officiare senza brama di guadagno, come fece il grande Albert Sabin, che quando scoprì il vaccino contro la poliomelite rinunciò ai proventi del brevetto.
L’impressione è che la pandemia, giunta al suo terzo inverno, si cronicizzi; che invece di attenuarsi per poi sparire, come accadde per la spagnola e l’asiatica, il virus sopravviva a se stesso e ai cosiddetti vaccini. Il fenomeno secondo molti no-vax (e qualcuno che non è proprio l’ultimo arrivato, come il Nobel Luc Montagnier), potrebbe essere conseguenza dei vaccini, che finiscono per creare sempre nuove varianti, ma potrebbe dipendere anche dal fatto che sia stato creato in laboratorio, magari come esperimento di guerra batteriologica sfuggito di mano (il grande polemologo Gaston Bouthoul ipotizzava lo stesso, ma senza prove, per l’epidemia di spagnola) e quindi abbia reazioni diverse da un virus “naturale”. Ma chi avrà mai il coraggio di ipotizzarlo, in un mondo nel quale si ha tanta paura di urtare il colosso cinese da battezzare l’ennesima mutazione del virus “variante Omicron” invece che “variante Xi” per non far ombra a Xi Jinping? Meglio continuare a credere alla favola del pipistrello.
Le conseguenze sono facilmente prevedibili, non solo sotto il profilo economico (nella vita nessun pasto è gratis, e qualcuno prima o poi dovrà pagare i debiti contratti per i costi, e gli sperperi, derivanti dalla pandemia), ma anche e forse soprattutto sotto il profilo etico-politico. In un mondo sempre più liberale e libertino sotto il profilo della morale sessuale, l’istituzionalizzazione dello stato d’emergenza sta diffondendo nella mentalità collettiva la pericolosa convinzione che diritti soggettivi elementari come entrare in un cinema, rifocillarsi in un ristorante, visitare un museo, salire su un autobus, se del caso spostarsi da un Comune all’altro, siano concessioni del potere revocabili ad nutum. Una convinzione, o meglio una sensazione, che è il contrario del principio liberale secondo cui è permesso tutto quello che non è espressamente vietato. Così il virus venuto dalla Cina, quale che ne sia l’effettiva causa, ha raggiunto il risultato di rendere noi tutti un po’ cinesi, mentre i nostri governanti continuano a raddoppiare la posta. Ma le puntate toccherà pagarle a noi.
p.s. spero con tutto il cuore di avere torto e che i vaccini siano davvero in grado di debellare il Covid, anche se troppi sintomi cominciano a smentire il mio ottimismo. Non sono un religionnaire e preferisco sbagliare ma vedere la mia Patria al riparo dal contagio che vedermi dare ragione in seguito a una catastrofe. Lascio questo tipo di sentimenti agli eredi morali di quanti, settantacinque anni fa, speravano che l’Italia perdesse la guerra per odio al fascismo, senza capire che sotto le bombe sarebbero finiti anche loro.