Perché ricordare con onore i 13 aviatori italiani uccisi (a Kindu) in Congo nel 1961

Una fra le più dolorose e più assurde tragedie legate al nostro impegno nella cooperazione internazionale commemorata e inquadrata storicamente da Enrico Nistri

La prima pagina della Nazione sulla strage degli aviatori italiani in Congo

L’undici novembre di sessanta anni fa si consumava una fra le più dolorose e più assurde tragedie legate al nostro impegno nella cooperazione internazionale. La prima e, purtroppo, non l’ultima di questo travagliato dopoguerra. Tredici aviatori italiani della 46ma aerobrigata di stanza a Pisa, sbarcati con due C-119 carichi di viveri e medicinali, consumavano un pasto tardivo nella base aerea di Kindu, prima di riprendere il volo per l’Italia. Facevano parte di una missione umanitaria dell’Onu, in cui l’Italia era stata da poco ammessa, per recare soccorso al Congo devastato da una sanguinosa guerra civile. 

I fatti

Kindu si trova nel Kivu, provincia che non era stata ancora raggiunta dal conflitto fra il governo del Congo e i secessionisti del Katanga, sostenuti da mercenari belgi; la situazione pareva tranquilla, tanto più che a difendere la base c’erano duecento “caschi blu” indonesiani. Invece da un momento all’altro fu l’inferno. Nella base e nella sala mensa irruppero truppe congolesi al comando del colonnello Pakassa, reduci da una sonora sconfitta nella lotta contro i secessionisti.

In preda ai fumi dell’alcol, secondo l’ipotesi più benevola, e forse alla rabbia per la cocente batosta, i congolesi si accanirono contro gli italiani, che erano disarmati, facendoli uscire a calci e pugni dall’aeroporto per condurli nella prigione della cittadina. Uno dei militari tentò di ribellarsi ma fu gravemente ferito. Secondo la spiegazione ufficiale, i congolesi avrebbero scambiato gli italiani per i terribili mercenari belgi; ma, considerato che il francese era stata la seconda lingua della regione sino a pochi anni prima, tale ipotesi non regge. Anche zavorrati di superalcolici, avrebbero dovuto capire che parlavano un altro idioma.

I caschi blu indonesiani, che avrebbero dovuto tutelare la sicurezza dei commilitoni italiani, non intervennero. Gli ufficiali congolesi, che avrebbero dovuto fermare la violenza assurda della truppa, diedero l’impressione di avere perso – se mai l’avevano avuto – il controllo dei loro uomini. Primo fra tutti il colonnello Pakassa, un ex sottufficiale divenuto dopo l’indipendenza ufficiale superiore, che in seguito avrebbe abbandonato il campo.

Così, nella notte fra l’undici e il dodici novembre, la soldataglia poté entrare indisturbata nel carcere dove erano stati rinchiusi i nostri aviatori e falciarli con raffiche di mitra. Temendo uno scempio dei cadaveri il custode del carcere qualche ora dopo raccolse i corpi e li seppellì in una fossa comune. Solo due mesi dopo, grazie alle informazioni ricavate dai fratelli Arcidiacono, due modenesi che vivevano da tempo a Kindu, le salme vennero rintracciate e recuperate, per venire poi accolte, dopo solenni funerali cui partecipò commossa tutta la popolazione pisana, nel sacrario militare che sarebbe stato realizzato nei pressi dell’aeroporto militare di San Giusto.

L’arresto del boia Pakassa a Parigi

Dell’eccidio di Kindu si sarebbe tornato a parlare due anni dopo, quando l’ex colonnello Pakassa, che nel frattempo aveva lasciato il Congo e viveva sotto falso nome, fu arrestato a Parigi. Per l’occasione la Rai organizzò un servizio con l’ausilio di due giornalisti destinati a una brillante carriera: Sergio Zavoli e Piero Angela. Ma il mistero rimase e l’Italia non poté chiedere l’estradizione dell’ex ufficiale, perché su un delitto commesso in Congo il governo congolese rivendicava la sua giurisdizione.

L’eccidio di Kindu suscitò in Italia una straordinaria commozione e anch’io, che ero un bambino, ne percepii l’eco nei discorsi dei familiari e dei parenti. In seguito avrei avuto modo di conoscere con il figlio di un maresciallo che sarebbe dovuto salire sul 119 della morte e con un sottufficiale pilota che venne trasferito all’aeroporto di Pisa per sostituire, insieme ad altri aviatori, le vittime dell’eccidio. Al cordoglio per la tragedia si aggiunsero però sentimenti contrastanti, in un’opinione pubblica divisa. I nostri militari avevano avuto il “torto” di essere massacrati dai congolesi che secondo l’opinione pubblica di sinistra combattevano dalla parte giusta: quella del Congo uscito dalla decolonizzazione, in lotta contro la secessione del Katanga, la provincia ricca di diamanti che reclamava l’indipendenza. Se i nostri aviatori erano stati massacrati, un motivo ci doveva pur essere. E infatti, come potei arguire dai discorsi che mi faceva molti anni dopo un amico proveniente dalla Fgci, nelle Case del Popolo circolò a lungo la voce che il contingente italiano dell’Onu recasse insieme ai medicinali anche armi agli insorti. Tale ipotesi del tutto assurda, tanto più che i nostri militari si erano persino recati disarmati a mensa, ebbe però un certo credito fra i “trinariciuti” di guareschiana memoria. L’opinione pubblica moderata, invece, cominciò a interrogarsi sulle incognite della decolonizzazione. Era vero che il Belgio aveva considerato il Congo come un territorio da sfruttare per le sue risorse del suolo e soprattutto del sottosuolo, piuttosto che da civilizzare come tentammo noi italiani nelle nostre colonie, ma l’assurda ferocia dell’episodio indusse molti a dubitare della capacità delle popolazioni indigene ad autogovernarsi, almeno senza un adeguato percorso.

La testimonianza civile di Albert Schweitzer

Posizioni isolate di incorreggibili razzisti? Non proprio. Emblematica, sotto questo profilo, fu la presa di posizione di Albert Schweitzer, medico, musicista, teologo e missionario protestante, Premio Nobel per la Pace nel 1952, contrario all’arma atomica tanto da essere considerato persona “non grata” dagli Stati Uniti. Schweitzer dedicò la sua vita a curare gli ammalati in un ospedale sperduto nella foresta tropicale, a Lambaréné, dove morì a novant’anni, nel 1965; a differenza di tante odierne Ong, non usava gli africani come strumento per destabilizzare gli equilibri etnici e politici del Vecchio Continente, ma sacrificò la sua vita alla cura, sul posto, di chi aveva bisogni essenziali. Il suo spirito umanitario e la sua devozione agli ultimi non gl’impedì di capire che non tutti gli uomini e i popoli sono uguali, o almeno non tutti gli uomini sono uguali in una certa fase della loro evoluzione storica. Nel 1960 scrisse una lettera a de Gaulle in cui lo scongiurava di rallentare il processo di decolonizzazione dell’Africa, perché gli africani “non sono maturi per la democrazia, meno ancora per l’indipendenza. Sarà per loro una tragedia.” Per fargliela recapitare si valse di un corriere d’eccezione: Alain Peyrefitte, uno dei più stimati e più giovani collaboratori del generale.

De Gaulle sul colonialismo

Charles De Gaulle

La risposta del presidente francese, riferita dallo stesso Peyrefitte nel suo ponderoso volume C’était de Gaulle, fu negativa, anche se di fatto il generale condivideva le opinioni del missionario: “Schweitzer – sostenne il generale – ha ragione e torto. È vero che gli indigeni non sono in grado per governarsi veramente da se stessi. Ma ciò che egli dimentica, è che attorno a noi esiste il mondo, e che esso è cambiato (…). I popoli colonizzati sopportano sempre meno i loro colonizzatori; un giorno verrà in cui non riusciranno a più a sopportare se stessi.” Quello che si sarebbe verificato, purtroppo, in Congo, e non solo, a spese anche di noi italiani.

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Enrico Nistri

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