Perdutoamor (2003), l’esordio cinematografico di Franco Battiato

L’artista siciliano si cimenta con la macchina da presa suggerendo un invito al viaggio, dentro sé stessi

Perdutoamor di Franco Battiato

<<Ho sempre intuito che la musica è una parte dell’evoluzione. Uno strumento di consapevolezza, di ricerca della propria realtà interiore>>.

Franco Battiato è un artista multipolare e multimediale che si è cimentato, immerso in diverse dimensioni artistiche domandole tutte seguendo una propria ed originale, unica, frequenza.

<<Ci sono narratori dell’isola, come Bufalino, Sgalambro, Tomasi di Lampedusa, che hanno esordito tardi. È come se, per anni, avessero puntato un grande telescopio sul mondo circostante. Dando poi fondo alle proprie riserve e restituendoci, come fa Bufalino, romanzi di una sensualità straripante, una Sicilia dionisiaca, piena di sapori e di colori>>.

In una successiva intervista racconta che un indovino gli disse che a 58 anni avrebbe cambiato mestiere. E infatti. Essenziale come solo la miglior tradizione orientale insegna, Franco Battiato non teme l’incontro con una nuova forma d’arte.

Era il 2003 e casualmente proprio all’età di 58 anni scrive e dirige la sua prima opera cinematografica, Perdutoamor (2003). Per caso o per destino la profezia dell’aneddoto si è avverata, non importa se dichiarata per gioco, preservando così il mistero dell’intervistato attribuendo contemporaneamente un assist all’intervistatore, fornendogli così del materiale con cui decorare il prodotto.

Il film c’è ed è destinato a diventare un’opera di culto.

Sembra la traduzione per immagini di un romanzo di formazione di formazione, come esige l’incasellamento in categorie di genere, rivelandosi agilmente un autentico viaggio dentro le proprie radici.

Il primo impatto con il film è un groviglio fatto di sensazioni, diversi quadretti che si traducono in un’impronta, tuttavia definita, legata all’evoluzione spirituale del protagonista. Ettore Corvaja è un giovane che, come tanti, vuole crescere e mostra, pare consapevolmente, il proprio viaggio. Incontra passioni, delusioni, maestri e prove. Un film diviso nelle fasi esistenziali del protagonista: l’infanzia, l’adolescenza e la prima giovinezza, attento a preservare l’attenzione anche sul quadro di eventi, figure e contesti che si agitano attorno a lui, anch’essi parte integrante e vitale del percorso.

Una goccia, scivola piano pari al granello di sabbia del mandala, per andare in profondità e al tempo stesso infrangersi nel vento. Il caldo della Sicilia anni cinquanta, americana, postbellica, epica. frammenti, sequenze di una autobiografia sfiorata, sono le atmosfere di Perduto amor, o Perdutoamor tutto attaccato. La molteplicità dei linguaggi usata da Battiato per arrivare oltre attraversando sé stesso e tutti i frammenti che lo riguardano, sminuzzando e allargando il campo delle suggestioni che lo attraversano da tempo immemorabile. Per questo non sorprende vedere all’interno di questo film il nascente pop italiano, Salvatore Adamo e il successivo Folk, canzoniere di protesta. La musica lirica. Il protagonista, se non totalmente biografico è gioco forza ritagliato secondo un canone che dalla biografia trae più di un’inspirazione. La musica svolge una funzione virgiliana. La Sicilia delle sarte e della saggezza, un mondo insulare sospeso, onirico, da cui apprendere l’arte innegabilmente. Luoghi, suoni, pensieri, un magma effervescente, enigmatico, composto da ritagli di giornale in cui Battiato ha scelto di incasellare la propria educazione sentimentale.

<<Partiti da un soggetto assolutamente pretestuoso, con Manlio Sgalambro, abbiamo scritto una sceneggiatura per un film-balletto. Il protagonista, un “cavaliere inesistente”, condivide con gli altri caratteri (stereotipi di comodo) l’incontro con lo “straordinario”.

Così la lezione di cucito, di tantra, l’esoterismo, la filosofia. Il mio intento era quello di comporre e plausibilizzare questi sprazzi di veglia. La macchina da presa è il vero protagonista>>.

 

Racconta Corrado Fortuna a Rollingstone.it È un film balletto, amava dire Franco, forse solo ora capisco cosa volesse dire. Non c’era bisogno che interpretassi, che capissi fino in fondo quello che faceva il mio personaggio: Ettore Corvaja, un alter ego di Franco («però non è un film sulla mia vita»). È un film in cui la narrazione è portata avanti come in una coreografia, un balletto, fatto di parole e musica, ma anche di silenzio e di parole rovesciate e incomprensibili, un film che vuole dare spazio all’anima di chi lo guarda.

Rapido, fatto di silenzi, di sguardi, di respiri, di sensazioni, di crescita. C’è il sapore innegabile e malinconico della nostalgia. È forse qui la quiete dopo un addio, come se Battiato volesse, con l’opera prima, congedarsi dal proprio passato, non solo musicale. Del resto i riferimenti alla cultura musicale degli anni sessanta sono presenti anche negli album della così detta svolta pop, i cut up all’interno di album come Patriots o La voce del padrone sono inequivocabilmente intarsiati di omaggi alla musica dei Platters e di Neil Sedaka. Non si tratta della cristallizzazione di un’epoca, della celebrazione di un passato mitico, nessuna età dell’oro ma la fotografia di un ricordo.

Ettore Corvaja sceglie e sa che dietro ad ogni scelta c’è una perdita, un automatico allontanamento dalle proprie certezze, alla ricerca della risoluzione nella consapevolezza. Non temeva i confronti con l’irraggiungibile, non temeva le cadute nella banalità, non temeva il giudizio dei cinefili Franco Battiato. Forse perché sapeva dove voleva andare, anche con il cinema.

 

Stefano Sacchetti

Stefano Sacchetti su Barbadillo.it

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