Fenomenologia proteiforme di don Liborio Romano

Il saggio postumo di Gaetano Marabello edito da Controcorrente è dedicato ad una controversa figura del Risorgimento

Il saggio di Gaetano Marabello

Don Liborio Romano e la congiura del frate (Controcorrente, pp. 269, € 20) con sottotitolo Tramonto di Napoli capitale tra camorristi e intriganti è un saggio storico di Gaetano Marabello, uscito postumo per volontà della moglie Chiara e della figlia Mariarita che l’hanno rinvenuto, bell’e pronto per la pubblicazione, tra le carte dello studioso barese prematuramente scomparso. Una partecipe prefazione del giornalista Marino Pagano, che ricorda anche come Gaetano Marabello avesse tanti amici a lui legati «in una logica antica e comunitaria», inquadra dal punto di vista storiografico la discussa figura di Liborio Romano. 

Nella premessa Marabello rivendica la validità del metodo storico da lui seguito sulla scorta di Renzo De Felice e di Delio Cantimori, che è quello di far parlare i documenti, evitando accuratamente «quei filtri interpretativi personali, che spesso risultano fuorvianti e disdicevoli in un saggio storico che si rispetti». In questo modo le conclusioni, che lo storico e il lettore non possono non trarre, scaturiscono dai fatti accertati in modo inequivocabile, tanto più che si esaminano «avvenimenti sui quali aleggia ancor oggi la passionalità maligna della fazione politica». 

Quali sono gli attori che si muovono sulla scena storica? È presto detto:  «un governo costituzionale incapace di dominare gli eventi, una stampa scatenata in senso antidinastico, una Guardia Nazionale infedele, un Re riluttante a spargere sangue ed infine l’interessata presenza di Francia e Inghilterra a tirare i fili dietro le quinte», cui si aggiungono le trame tessute dal Piemonte di Cavour con la quasi incontrastata “cavalcata” di Garibaldi da Marsala a Napoli. 

Marabello dopo aver delineato un quadro generale sulla situazione di Napoli e del regno delle due Sicilie all’indomani dello sbarco di Garibaldi a Marsala e sull’incalzare degli eventi che portarono al collasso un glorioso regno, concentra la sua ricerca storica sull’azione «subdola e demolitrice» svolta da Liborio Romano tra giugno e agosto del 1860, che gli permise di diventare in poco tempo ministro dell’interno e della polizia generale nel governo borbonico e acquisire nel contempo meriti con il nuovo regime. 

Uomo dotato di indubbia abilità, pronto a trar partito dalle occasioni che via via gli si presentavano, don Liborio non aveva alcuno scrupolo nel fare un disinvolto doppio e triplo gioco (considerando che i liberali erano divisi tra loro in due partiti: uno filo piemontese e l’altro filo garibaldino). Se da un lato è suo il merito di essere riuscito «a mantenere sotto stretto controllo la situazione dell’ordine pubblico», dall’altro l’aver immesso nelle forze di polizia elementi della camorra a lui fedeli «pur di conseguire i suoi scopi contingenti» produsse  «nei gangli dello Stato una cancrena», sicchè può ben dirsi che «Romano svuotò dall’interno lo Stato napoletano, mentre Garibaldi lo attaccava dall’esterno». 

Che tipo d’uomo era dunque Romano? Un uomo, a ben vedere, degno di Guicciardini più che di Machiavelli, che «dietro un’apparente moderazione, cela un carattere pronto a tutto, ivi comprese giravolte e falsità». Ne sia prova la sua azione sul finire di quell’agosto, quando «dando ormai per certa la vittoria di Garibaldi, si recò sul battello di Dumas per trasmettergli – assieme ai suoi deferenti omaggi – l’invito a sbrigarsi. Scoperto, arrivò sfrontatamente a giustificarsi col proprio Re d’aver provato a fermare il Nizzardo con un lauto compenso. Una perfetta faccia di bronzo, si direbbe oggi». 

Ma va parimenti e onestamente rilevato che anche l’atteggiamento irresoluto e passivo del re Francesco II contribuì allo sfacelo del regno: restio ad usare le maniere forti, d’animo gentile, religiosissimo, Francesco II, pur non essendo uno sprovveduto, lasciò giocare a Don Liborio tutte le sue carte senza intervenire. 

Nelle sue memorie Don Liborio si vanterà di aver sventato ben tre congiure filo dinastiche e “reazionarie” nell’arco di pochissime settimane, evitando i bagni di sangue di una guerra civile. Mai congiure furono più provvidenziali. Ma furono davvero tali le congiure? Marabello ricostruisce con dovizia di particolari le presunte congiure. 

La prima congiura del 15 luglio si rivela, alla prova dei fatti, nient’altro che la risposta spontanea della guardia reale, che di fronte alle provocazioni continue e alle dimostrazioni sempre più plateali dei liberali, costrinse con le maniere forti i passanti a gridare la loro devozione alla corona. 

Nessuna credibilità ha parimenti la seconda congiura del 13 agosto che ha per protagonista il conte dell’Aquila  «imbarazzante e ambiguo congiunto di Francesco II», che avrebbe mirato addirittura ad un colpo di stato, avvalendosi di quegli stessi camorristi che invece avevano tutto da guadagnare assecondando la politica governativa del Romano. 

Circa la terza congiura del 29 agosto, cui Marabello il terzo dei cinque capitoli di cui consta il saggio intitolato Il dessert è in tavola,  «l’occasione verrà offerta dalla fortuita presenza a Napoli dello strambo religioso francese Hercule de Sauclières». Tutto  prende l’avvio da un proclama anonimo «affisso nottetempo sui muri e teso a spronare il sovrano a mettersi decisamente alla testa dell’esercito», invitandolo a liberarsi di un governo e di una polizia infidi, ma che non contiene incitamenti alla violenza e all’eversione dell’ordinamento. Ciò nonostante questo “appello di salvezza pubblica” per il Romano diventa subito «l’agognata prova» del complotto: «ecco don Liborio scatenarsi subito nella caccia alle streghe coordinando di persona gli agenti che devono effettuare sequestri, perquisizioni e arresti», che portarono «a metter le mani su una (per lui) provvidenziale lettera del de Sauclierès indirizzata ad un frate romano». Nella lettera, peraltro mai spedita, si alludeva ad una nuova notte di San Bartolomeo. Tanto l’appello di salvezza pubblica che la lettera, unitamente ad uno scritto del de Suaclierès Napoli e i giornali rivoluzionari d’Europa, sono riprodotti, a beneficio e del lettore, in appendice al saggio.  

Marabello si dedica all’esame minuzioso della cosiddetta congiura del frate, mettendone in risalto incongruenze, ombre e falsità. Non anticipiamo le conclusioni. Diciamo solo che confrontando in modo serrato giornali d’epoca, saggi storici (sia di parte borbonica che di parte liberale) e una varia e vasta documentazione e utilizzando un metodo messo a punto già nei precedenti saggi (La legge Pica e Verità e menzogne sul brigantaggio), che danno ai suoi testi l’andamento caratteristico di un vero e proprio giallo storico, Marabello riesce alla fine a dipanare i nodi di una materia piuttosto intricata.  

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Sandro Marano

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