“C’eravamo tanto armati”: gli anni settanta raccontati da Cacciari, Massimo Fini, Mughini, Paolo Isotta e Francesco Guccini

Il saggio a più mani (edito da Settecolori curato da Maurizio Cabona e Stenio Solinas: una lettura imperdibile

C’eravamo tanto armati, Settecolori

Pubblicato nel 1984 dalla casa editrice Settecolori “C’eravamo tanto a(r)mati” è una raccolta di testimonianze eterogenee, scritte in forma e stile liberi da autori vari – solo per citarne alcuni: da Massimo Cacciari a Oliviero Beha, da Massimo Fini a Giampiero Mughini, da Paolo Isotta a Francesco Guccini a Stenio Solinas (curatore del libro insieme a Maurizio Cabona) – non catalogabili necessariamente tra i “reduci” dell’Italia degli anni di piombo, ma più propriamente appartenenti ai vari microcosmi generazionali che non si fecero travolgere dallo spirito di un tempo difficilmente interpretabile seguendo lo spartito delle celebrazioni trionfalistico-emotive.

Nel viaggio introspettivo nei meandri di un vissuto ribollente di sogni, aspirazioni, prime esperienze professionali più e meno gratificanti ed errori giovanili di chi scelse di “armarsi” nelle forme e nei modi più svariati che non contemplassero la pratica della violenza, emergono i processi di decomposizione di un tessuto istituzionale e sociale, le opacità di una classe dirigente che, miope di fronte ai rivolgimenti in corso, istigava a rifiutare le finte regole della democrazia formale e la scarsa tenuta morale di cui approfittarono i “capitalizzatori dello sfascio”.

Dai punti d’osservazione delle metropoli e delle realtà periferiche di un paese cresciuto disordinatamente e in fretta durante il boom economico e poi in balìa delle frenesie produttivistiche, l’attesa di un evento traumatico quanto confuso come la rivoluzione – cui faceva da “cornice” una serie di questioni considerate tout court complesse ed esigenti a priori le più mirabolanti analisi e soluzioni – non si concretizzò, neppure a ridosso del migliore risultato elettorale di tutti i tempi del PCI. 

Parole d’ordine e imperativi categorici, convinzioni incrollabili e sbarramenti pregiudiziali – significativo il vezzo comune a molti intellettuali di denigrare in quanto “fatua” e “controrivoluzionaria” la vita di chi praticava sport – sbiadirono in modo progressivo e inesorabile certificando la crisi della militanza integrale, generata dall’opposta ubriacatura del “tutto è politica”. Nel confronto all’arma bianca tra apparati e burocrazie di culture e forze politiche imperversarono i rituali di “un’arte della ricorrenza”, di fronte ai quali chi rifiutava di immedesimarsi – nel contesto avvelenato in cui l’antifascismo militante inteso come fonte di legittimazione e cemento della società raggiunse il culmine della popolarità – veniva immediatamente accusato di mancanza di “memoria storica”. 

Chi sbandierava in faccia al mondo trasgressioni, emancipazioni ed autonomie – che non avrebbero scalfito alcun sistema politico, influendo piuttosto sul cambiamento dei costumi – non di rado perse “l’età dell’innocenza” affiancando, confluendo o mimetizzandosi nel terrorismo, concepito sovente come gioco macabro, criminale e regressivo che imponeva l’utilizzo delle armi contro sedi di giornali, personalità politiche, magistrati ed industriali. Altri intrapresero un processo di interiorizzazione della lotta, di estraniamento dalla realtà quotidiana e dal dibattito delle idee, riflesso di una crisi d’identità che esprimeva il malessere di una generazione – quella nata alla fine degli anni ’50 – ibrida, in gran parte senza solide radici, equidistante sia dai sacri furori ideologici sia da una forma mentis che ponesse aprioristicamente al centro della propria esistenza successi professionali ed egoismi individuali.  

Se l’esperienza del ’68 aveva lasciato in eredità un linguaggio a volte superficiale e gergale, ma anche una carica libertaria rivolta contro una borghesia ipocrita e formalista (denunciando, per esempio, lo stato generale di arretratezza culturale vigente nelle università), la parabola del Movimento studentesco – del tutto estraneo, specialmente agli esordi, alla realtà operaia che dichiarava di voler guidare – si esaurì sia nella contraddizione insita nel fatto che esso era, a propria volta, figlio di quella stessa borghesia che avrebbe voluto eliminare sia nella spirale di fanatismo, conformismo e violenza mirante a colpire i “fascisti” che rifiutavano l’ortodossia del momento.

L’illusione che il “complesso” dell’occasione mancata potesse venire in qualche modo surrogato dal movimento del ’77 – con i dovuti distinguo, la presa di coscienza delle mutate circostanze, le sfumature di entusiasmo e di fiducia – evaporò non solo al cospetto delle già consolidate “cattive pratiche” riscontrabili in fenomeni di corruzione diffusa, delle disfunzioni causate dal sistema partitocratico e degli oligopoli che minarono l’autonomia della carta stampata rispetto al potere politico; a titolo esemplificativo è sintomatico il sostanziale distacco con cui la città di Bologna accolse le istanze del sottoproletariato urbano e la stagione degli Indiani metropolitani, le cui forme di manifestazione vennero accuratamente delimitate in apposite “aree di riserva”. 

Se il clima di pesante contestazione non risparmiò il mondo “privilegiato” dei cantautori milionari più impegnati, non mancò chi – sostanzialmente immune da questo tipo di invettive – sottolineò il paradosso dell’eccessiva strumentalizzazione politica delle proprie canzoni riconducibile ad una rilevante parte del pubblico e dei media, stigmatizzando l’immagine distorta del ’68 come “resistenza” o – ancora – individuando nelle parole dei propri testi segnali riconducibili alla diffusione di una parola che filosofi e sociologi avrebbero sistematizzato, in seguito, con il termine “riflusso”. 

I progetti di rinnovamento intrapresi per un’organizzazione culturale e ideologica alternativa alle realtà di sinistra si tradussero nelle esperienze metapolitiche – talvolta confuse e destinate all’insuccesso – della Nuova destra ispirata al pensiero di Alain de Benoist e negli sforzi di alcuni giovani di area missina nell’adoperarsi – anche attraverso l’animazione di riviste molto sofisticate – per lo svecchiamento di quel mondo, aprendolo alla sensibilità verso tematiche sconosciute o fino ad allora sottovalutate, alcune delle quali divennero centrali durante i raduni dei Campi Hobbit: comunitarismo, ambiente, femminismo e musica alternativa.

La generale abitudine dei giovani a ritmi e stili comunicativi veicolati dai mass-media ed il conseguente impoverimento linguistico-espressivo, il carattere ideologico ed effimero di alcune mode (tipica all’epoca quella dei viaggi in Oriente), la propensione delle società moderne – imbevute di ipocrisie e falsi miti progressisti – all’incentivazione dei “tormenti” della medicina e della scienza miranti al prolungamento della vita anche quando essa è già spenta e a ridurre l’individuo a mezzo di fini puramente tecnici sono tematiche di stretta attualità ancora oggi, a conferma che analisi elaborate a pochi anni di distanza dalla fine di un evento o di un periodo storico possono conservare un’efficacia pregnante di fronte alla prova cruciale dell’incedere del tempo.

Al netto di improbabili mitizzazioni in circolazione e nel complesso districarsi tra diversi piani e intensità di reticenze, ritrosie e sensibilità personali, la raccolta ha il pregio di fondere esperienze diverse individuando una matrice comune nel disincanto, nella consapevolezza di essere finalmente usciti da quegli anni e nella constatazione che, se quelle degli anni settanta “furono vite di pensiero verranno assolte, se furono vite d’azione lo saranno ancor di più”.

Andrea Scarano

Andrea Scarano su Barbadillo.it

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