Alain de Benoist: “Come sopravvivere alla disinformazione”

L'intervista a Elements: "Mettere in prospettiva i fatti che da soli contano poco senza una chiave di lettura"

Alain de Benoist

Ci sono molti modi per penetrare il pensiero di Alain de Benoist. Sopravvivere alla disinformazione è uno di questi. Ci sono decine di porte d’ingresso in questa voluminosa collezione, alimentata dall’attualità e dall’inattualità. La notizia è quella che viene dimenticata. Ciò che sopravvive è la messa in prospettiva. Prendete le distanze da Alain de Benoist!

ÉLÉMENTS. Siamo sopraffatti dalla materia di questo libro, con più di un centinaio di argomenti trattati, ogni volta sotto una nuova luce. Come si fa? E’ cerebralmente collegato a un’agenzia di stampa? Cosa ci dicono le notizie? Come interpretarle? Cosa possiamo trarne?

ALAIN DE BENOIST. Niente di straordinario: leggo, ascolto, penso. Come sapete, in riviste come Éléments, Nouvelle École o Krisis, non parlo mai di attualità, perché non credo sia il luogo adatto per farlo. D’altra parte, lo faccio, a titolo personale, nelle mie interviste con Nicolas Gauthier pubblicate su Boulevard Voltaire. L’obiettivo è semplice: mettere in prospettiva gli eventi, interrogare il loro significato, mettere il dito su ciò che significano da un punto di vista filosofico, ideologico, sociologico, geopolitico. In breve, per distinguere l’aneddotico dallo storico. Esempio semplice: la formazione di un “asse” Mosca-Pechino-Teheran è importante, la morte di Michael Jackson o George Floyd no. Parto dal principio che i fatti hanno poco significato da soli, che acquistano significato solo attraverso un’interpretazione che presuppone una griglia di lettura e, sullo sfondo, una concezione del mondo. Le interviste sono brevi: troppe domande, tre risposte (o, se preferite, tre o quattro pagine), il che richiede di essere sia densi che precisi – e soprattutto, come sempre, il più educativo possibile!

ÉLÉMENTS. Come dice Gabrielle Cluzel, caporedattore di Boulevard Voltaire, dove sono apparse queste colonne, nella sua prefazione, non si è mai esattamente dove la gente si aspetta di essere. Dove si colloca?

 

ALAIN DE BENOIST. Se te lo dicessi, smetterei di essere dove la gente si aspetta che io sia allo stesso tempo! Più seriamente, è una domanda che non mi pongo. Ho un noto orrore delle etichette che ti confinano o ti riducono al topos in cui a qualcuno piace metterti. Mi piace intervenire in diversi registri, a volte come teorico o filosofo, a volte come storico delle idee o delle religioni, a volte come giornalista scientifico, a volte come editorialista alla ricerca della formula che colpisce il bersaglio. L’essenziale è non affrettare mai nulla, e anche non lasciarsi mai trascinare dalle opinioni. L’ideale: cercate di scrivere in modo tale da essere ancora letti tra cinquant’anni!

ÉLÉMENTS.  La gente ha dimenticato: lei non è solo un intellettuale, un filosofo, uno storico delle idee, lei è anche un giornalista. Cosa deve a questa professione e a questa scuola?

ALAIN DE BENOIST. Gli devo molto. Ho iniziato la mia carriera come giornalista a L’Écho de la presse (c’erano anche Alain Lefebvre e Jean-Claude Valla) e al Courrier de Paul Dehème, un bollettino privato fondato da Paul de Méritens. Ho lavorato a Valeurs actuelles dal novembre 1970, dopo di che c’era Le Figaro Magazine. Ho un ricordo molto forte della persona che mi ha insegnato tutto sulla professione: Jean Loustau, il caporedattore di Valeurs actuelles negli anni 70, un giornalista come nessun altro. Gli piaceva dire: “Non raccontare la tua storia, scrivila!”, e anche: “Lo scopo della prima frase è di farvi venire voglia di leggere il resto”. O ancora: “Non dimenticate mai che, in un articolo, ogni paragrafo deve essere giustificato in relazione al testo, che ogni frase deve essere giustificata nel paragrafo, che ogni parola deve essere giustificata all’interno della frase”. Loustau insisteva sul “gancio” e sulla “battuta”, sullo stile, sulla lunghezza dei paragrafi determinata dalla larghezza delle colonne… Scriveva poco, ma sapeva come far scrivere gli altri. È questa formazione che manca di più agli accademici: scrivono cose appassionanti, ma non sanno come metterle in una forma che raggiunga i lettori di una rivista o di un giornale. I giornalisti, d’altra parte, mancano generalmente di rigore accademico, ed è per questo che cadono così spesso nel conformismo settario e nella dabbenaggine superficiale. Ecco perché non ho mai voluto chiudermi nel giornalismo. Il giornalismo è un’ottima scuola, ma bisogna sapere come uscirne!

 

*Traduzione di Antonisa Pistilli

 

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