Nasce Stellantis. Tappe di una ‘fine annunciata’: quella della Fiat e dei gloriosi marchi automobilistici italiani

Il saggio di Gianni Marocco sul declino dell'industria automobilistica nazionale

Stellantis

Parafrasando Cronaca di una morte annunciata del grande Gabo, al secolo Gabriel José de la Concordia García Márquez. Parlare di ‘decadenza’ sarebbe un eufemismo pietoso. Di morte biologica anticipare il responso del medico legale sotto l’ombrello di Stellantis. Rimaniamo allora, col cuore dolorante, alla ‘fine prossima ventura’. Purché non vengan riproposte delle Chrysler con logo Lancia…Incrociando le dita, lasciamo fuori la nicchia produttiva costituita dalla Ferrari, sperando che il ripetuto disastro nella F1 non la danneggi… Rimangono Fiat, Alfa Romeo, Lancia, Maserati. Gli altri marchi FCA, quelli che van meglio, o meno peggio, sono americani, soprattutto Jeep e RAM. Una storia lunga e complessa che eccede questa sede. Riflettiamo, per sommi capi – molto è stato scritto sull’argomento, in Italia e nel mondo – su quanto, in particolare, successe dal 1986 (acquisizione dell’ Alfa Romeo dall’IRI) alla recente fusione con PSA in Stellantis.
Il Gruppo Fiat è stata la più grande impresa industriale italiana sino alla ristrutturazione del 2010, una tra le aziende più antiche dell’industria automobilistica europea. Il quartier generale della società era a Torino, ma il Gruppo con i suoi 188 stabilimenti, in cui erano occupati più di 190.000 dipendenti, era presente in 50 Paesi ed intratteneva rapporti commerciali con clienti in oltre 190 nazioni. Il core business della società era il settore automotoristico: nel 2009, ultimo anno fatturato, il Gruppo ha prodotto più di due milioni di automobili e veicoli commerciali, più di 100.000 veicoli industriali e migliaia di macchine per l’agricoltura e le costruzioni, per un fatturato che ha superato i 50 miliardi di euro. Gli anni ottanta si erano schiusi con il lancio di nuovi modelli: la Uno, che nel 1985 adotterà il motore Fire 1000; nel 1988 la Tipo, seguita da altre vetture, la Regata, la Croma, la Tempra e, per gli altri marchi, la Lancia Delta e Thema, la Innocenti Y10, l’Alfa Romeo 164. Per svilupparsi su scala internazionale, il Gruppo investe nell’innovazione, attua un piano di contenimento dei costi e punta su mercati emergenti ad alto potenziale di sviluppo: per questi ultimi viene realizzata la world-car Palio, costruita dapprima in Brasile e poi in Polonia, Turchia, Russia, Marocco e Sudafrica. I nuovi modelli sono pensati per il mercato mondiale: dalla Punto, alla Bravo, all’Alfa Romeo 156. Nel 1993 anche il marchio Maserati entra nel Gruppo. Nel 1993 si apre lo stabilimento di Melfi, uno dei più avanzati tecnologicamente. Dieci anni prima, nel luglio 1999, la Fiat compiva cento anni di vita.
(Da https://it.wikipedia.org/wiki/Gruppo_Fiat#La_trasformazione_culturale:_Fiat_Group).

Il 1º gennaio 2011 è avvenuta la riorganizzazione dei settori motoristici con lo scorporo parziale da Fiat Group della produzione di macchine agricole e industriali. Pare passata un’eternità e… son solo 10 anni! Azioniamo la macchina del tempo e della memoria, oltre l’ottimismo della vulgata ufficiale edulcorata, recepita anche dalla sintesi di cui sopra…
Dopo il difficile dopoguerra – la scocca della 1400 nei ’50 arrivava da Detroit! – nel 1957 nasce la Nuova 500, due anni dopo la 600, le vetture a basso costo, spartane (‘quello che non c’è non si rompe’, era stata la filosofia del vecchio Agnelli) per motorizzare l’Italia: il capitale della Società ammontava a 100 miliardi di Lire, il suo fatturato complessivo a 350. Esso rappresentava il 2,5% dell’intero reddito nazionale ed il 35% del prodotto dell’industria meccanica. Fiat incarnava il rilancio dell’accumulazione. Negli ultimi anni Cinquanta la crescita del PIL si attestò su un +5% annuo. E la Fiat, sfruttando l’aumento della domanda grazie alla realizzazione della produzione di massa (affinamento della catena di montaggio, meccanizzazione e parcellizzazione delle mansioni), superò nel 1960 il mezzo milione di vetture, pari a circa il 5% del mercato automobilistico mondiale. Quell’anno i dipendenti crebbero di 15.000 unità, da 92.000 a 107.000. Masse di lavoratori non qualificati emigravano dal sud verso Torino, dove si concentravano gli stabilimenti Fiat e le fabbriche dell’indotto. Lo sviluppo pareva inarrestabile. In quegli anni la Società creò stabilimenti in Jugoslavia, Argentina, Spagna, e mise a segno un risultato clamoroso (per sconcerto della FIOM-CGIL), con l’ accordo, firmato nel 1966, per costruire un enorme stabilimento in URSS a Togliatti e produrvi una variante della 124, la Zighulì.
Il decennio 1970 – dopo il cambio al vertice del Gruppo tra l’anziano, abile e duro Vittorio
Valletta (1883-1967) e Gianni Agnelli (1921-2003) nel 1966 – si apre con la fresca incorporazione della Lancia, ma all’insegna della crisi: con la svalutazione del dollaro, nell’agosto ’71, saltano il regime dei cambi fissi ed il Sistema di Bretton Woods, con il corollario di una reviviscenza di misure protezionistiche. Per quanto riguarda il settore si avvicina la saturazione del mercato ed una crisi da sovrapproduzione. Poi, verrà anche lo shock petrolifero (1973), che colpirà in misura particolarmente severa Mirafiori. Il 2 ottobre 1974 la Fiat pone in cassa integrazione 65.000 operai, riducendo improvvisamente la capacità produttiva di un terzo. Contemporaneamente, per ristrutturare il debito, viene assunto un esperto, Cesare Romiti (1923-2020), già in Alitalia, allora CEO di Italstat, impresa della galassia IRI, che operava nel campo dell’ingegneria civile.
In questa fase emerge un problema che si riproporrà: il nucleo di controllo della Fiat, composto dalla famiglia Agnelli per il tramite dell’IFI (ora Exor), non è in grado di affrontare una ricapitalizzazione. Si sceglie la strada opposta: diversificare (anche attraverso operazioni di scorporo di rami d’azienda), con l’obiettivo di giungere a realizzare parte consistente del fatturato in settori diversi dall’auto. La situazione non migliora: lo stesso Gianni Agnelli ammetterà che “il 1975 è stato per il settore auto l’anno più difficile dalla fine della guerra”; con vendite in calo del 25%, tra sbornie ideologiche maoiste e castriste, capi officina gambizzati, il terrorismo di estrema sinistra sempre più presente in fabbrica. Nel 1976, viene cooptato nel vertice del gruppo Carlo De Benedetti (n. 1934) – vecchio compagno di scuola di Umberto Agnelli – al San Giuseppe di Torino; fu nominato AD della Fiat e come ‘dote’ portò con sé il 60% del capitale della Gilardini. Presto dovrà lasciar campo libero a Romiti. Come scriverà il medesimo in una prefazione, rimasta inedita, alla biografia di Romiti, Storia segreta del capitalismo italiano, Longanesi, 2012:

“Ricordo l’arrivo di Romiti in Fiat, come direttore amministrativo e finanziario. Io in quel momento ero presidente dell’Unione Industriale di Torino. Era il 1974. (…) L’assetto di comando al mio ingresso in Fiat era: Avvocato Agnelli, presidente; Umberto Agnelli, vice presidente e amministratore delegato; io e Cesare Romiti, amministratori delegati; un comitato esecutivo presieduto da Umberto Agnelli a cui partecipavano, oltre a lui, io e Romiti, Nicola Tufarelli, allora capo dell’Auto. È assolutamente vero che dopo qualche settimana in Fiat, siccome i bilanci li sapevo leggere anch’io, ma anche le comparazioni tra le produttività nostre e quelle dei nostri concorrenti, andai dall’Avvocato e gli dissi: «bisogna mandare via 20.000 persone e 500/700 dirigenti». L’Avvocato mi chiese: «ma dove sono questi operai che lei vede in eccesso? Sono nei corridoi?». La mia risposta fu: «Sono nei numeri». Si preoccupò. Mi disse che doveva parlarne a Roma. Erano gli anni delle Brigate rosse. Tornò da Roma e mi disse: «Non se ne parla proprio. Nella situazione attuale del Paese non è compatibile una operazione di questo genere». Da quel momento capii che la mia presenza in Fiat sarebbe stata del tutto frustrante, inutile all’azienda e lesiva del mio investimento in Fiat e decisi di andarmene”.
(https://www.dagospia.com/rubrica-4/business/prefazione-carlo-de-benedetti-libro-24508htm, 20.8.2020).

 

Al rapporto di fiducia che legherà Romiti per tutta la vita a Gianni Agnelli, fanno da contrappeso gli scontri con Carlo De Benedetti. Le personalità spigolose del manager romano e dell’ingegnere torinese entrano subito in conflitto ed il dualismo termina in maniera brusca dopo appena 150 giorni, con De Benedetti che vende le sue quote e lascia la Fiat sbattendo la porta. Il motivo del benservito all’ Ingegnere, è stato scritto, risiederebbe nel fatto che la sua strategia prevedeva un importante aumento di capitale da parte dell’IFI. Che però era a sua volta indebitato. Sarebbe quindi stato necessario far ricorso direttamente al mercato, con il risultato di diluire la quota della Company in mano alla famiglia Agnelli. Come sia, con l’uscita di De Benedetti, Romiti vede accrescere sempre più il suo potere, al punto che, mesi dopo, realizza – con l’ovvio beneplacito degli Agnelli – una delle operazioni più controverse della storia dell’azienda. Mirafiori ha bisogno di cash e Romiti, grazie anche ai suoi contatti romani, si converte nel regista dell’ingresso della Lafico (Libyan Foreign Investment Company), una finanziaria della Libia del dittatore Mu’ammar Gheddafi. Nel pieno della Guerra Fredda ed in un mondo diviso, per una delle aziende più importanti del blocco occidentale non è facile avere come socio un governo detestato quale ispiratore del terrorismo mediorientale, però l’operazione riesce. I soldi libici salvano la Fiat e Gheddafi uscirà dalla società solo dieci anni dopo, nel 1986, su pressione nordamericana (nell’aprile USA e GB bombardano Tripoli come rappresaglia all’attacco terrorista dei Servizi libici alla discoteca La Belle di Berlino), con le sue azioni quotate a prezzo di mercato, una fortuna, come ricorderà Gianluigi Gabetti. La situazione della Casa tornerà a peggiorare.
Il 1979 si apre con la nomina dell’ing. Vittorio Ghidella a capo di Fiat Auto e con una ripresa degli investimenti nell’auto (che si attestano al 31% degli investimenti del gruppo, contro il 20% di tre anni prima). Dirà successivamente Ghidella in una lunga intervista (di seguito parzialmente riprodotta), nel 2010, un anno prima della sua scomparsa a 80 anni, a Lugano:

‘D. Erano anni segnati da continui scioperi e dal terrorismo. C’era il rischio che la Fiat divenisse un mattatoio. Quale fu la reazione della dirigenza?
R. L’unica possibile in quel momento di disordine, d’instabilità, di rapporti impossibili con i sindacati, di scioperi, di disordini, di sabotaggi. Non rimaneva altro che dare una spallata e quindi si decise, su mia proposta, di fare qualcosa. Si prese spunto da una manifestazione di facinorosi che, dopo aver fermato la produzione, furono licenziati. Era un fatto inaudito, perché in quegli anni nessuna azienda si permetteva licenziamenti per motivi disciplinari. Cominciò una reazione violentissima del sindacato, che arrivò non solo a protestare, ma anche a bloccare le fabbriche. Tutto ciò andò avanti, di fronte allo sbigottimento generale del Paese. Ma il momento culminante fu la reazione della popolazione di Torino, che decise in maniera spontanea di muoversi in un corteo di protesta contro l’impossibilità di lavorare: di fronte a questo corteo dei 40 mila, passato alla storia come reazione di saturazione alle continue pressioni di natura demagogica e politica, sembrò che il mondo sindacale si svegliasse. Venne raggiunto un accordo nel quale si confermarono i licenziamenti e si dava la possibilità di manovrare nelle fabbriche, mantenendo disciplina e ordine. Fu quello il punto culminante dell’inizio della ristrutturazione.
D. I sindacati si resero conto di non avere più il consenso popolare. E da lì partì il rilancio, sotto la sua regia. Pur da dirigente, lei rimase vicino al mondo operaio…
R. Sono nato nel mondo della produzione; la mia cultura manageriale si sposò con la leadership di un gruppo di persone che si riconoscevano in me. Qualcuno ha scritto che la Fiat era stata costruita secondo l’esempio sabaudo: in quegli anni, in cui la mentalità imperante era che si lavora per bisogno, convincere le maestranze a impegnarsi in attività utili per loro e l’azienda fu un passo fondamentale.
D. In quale misura il suo sapere proveniva dalla famiglia?
R. Nel Piemonte della mia gioventù, la cultura era basata sull’accettazione del proprio ruolo e sull’ubbidienza. E io crebbi in quell’ambiente: ognuno al suo posto a fare il proprio dovere.
D. Nel 1983, venne presentata la Uno: fu un successo che permise alla Fiat di arrestare il declino.
R. La Uno era considerata una macchina avanzatissima, perché combinava ingombri esterni compatti con un grande spazio interno. Con quel modello, la Fiat espresse il massimo della propria capacità tecnica, che era imperniata su piccole vetture per la motorizzazione di massa. Dove la Casa non era sicuramente all’altezza a livello internazionale era nel settore dei modelli medio-grandi. La Lancia Thema fu un ottimo risultato, ma rimase un episodio, perché dopo lo sviluppo andò a urtare contro carenze, anche economiche, della struttura di un Paese che non avrebbe consentito la produzione di macchine in quel segmento.
D. A quel punto, esplose il conflitto con Cesare Romiti, che sposava una visione diversa dalla sua. Romiti aveva una percezione del mondo dell’automobile che dimostrava scetticismo sul futuro del settore. Preferiva godere dei vantaggi economici generati dal rilancio della Fiat Auto per favorire la diversificazione in altri campi industriali. Se ci fu un conflitto, fu ideologico, o, comunque, di strategie. E lei lasciò la Fiat, che entrò in una fase di crisi…
R. La mia uscita fu traumatica perché il gruppo di uomini che credevano, come me, nell’iniziativa si trovò senza un punto di riferimento, privo di una guida tecnicamente evoluta: l’auto bisogna saperla fare, non basta disegnarla sul tecnigrafo, perché ci sono problemi nella gestione delle fabbriche, della vendita, del marketing. La Fiat si trovò sbandata e iniziò un periodo d’incertezza piuttosto lungo, che s’accompagnò poi a una crisi di mercato importante e a una carenza di quattrini. Nel giro di qualche tempo, il Gruppo si ritrovò nelle condizioni in cui era prima del mio arrivo’. (Brigitte Schwartz, Le grandi interviste. Vittorio Ghidella, il padre della Uno, in https://www.quattroruote.it/news/industria).

TOP MANAGEMENT: FIAT AUTO ’80. ‘Potremmo sottointitolare: i favolosi anni ‘80’, ha scritto qualche anno fa l’ing. Roberto Faldella, già dirigente in grandi aziende del settore auto, come responsabile di sviluppo e progetto di sistemi e modelli, ricordando quell’epoca, quando la Lancia Delta HF 4WD vinse 6 Titoli Mondiali Marche consecutivi e 4 Mondiali Piloti, nei 6 anni di produzione, tra l’87 ed il ’92, nel Campionato Rally (WRC). Possedeva una meccanica d’avanguardia. La sua cancellazione coincise, di fatto, con il declino dell’auto italiana:

“La moda ed il design italiano conquistavano il mondo, la lira raddoppiava sul dollaro e i PC Olivetti competevano con i migliori IBM; all’avanguardia in campo mondiale le fibre ottiche di TELECOM e le centraline telefoniche digitali dell’Italtel di Marisa Bellisario. E Rita Levi Montalcini vinceva il Nobel. Fiat Auto era prima in Europa… Ciò, nonostante un contesto oggettivamente difficile derivante dagli anni ’70: la crisi Fiat ed italiana del periodo, inflazione inizialmente a due cifre, e soprattutto l’avanzata dei prodotti giapponesi, basso costo congiunto con alta qualità e tecnologia, che spazzarono via buona parte dell’industria occidentale dei media player, ove albergavano manager buoni a vivere di rendita. I fattori di successo partono dall’alto, dal Chief Executive Officer (CEO) e dal Top Management. AD di Fiat Auto era l’ing. Vittorio Ghidella. La nascita di un nuovo modello era un processo altamente integrato tra le funzioni aziendali ed ottimizzato nel rapporto benefici/costi. Il nuovo modello era una evoluzione del precedente, in ottica cliente nonché tecnologica, utilizzando per quanto possibile componenti e attrezzature produttive esistenti e dando un nuovo vestito alla macchina, come d’altra parte facevano i giapponesi. Ciò consentiva di limitare gli investimenti, avere una ampia gamma, contenere tempi di sviluppo e di attrezzamento: una vettura come la UNO fatturava 1.000 miliardi di lire al mese, quindi un fermo macchina di un mese per cambio attrezzature costava 1.000 miliardi di fatturato”.


E limitare i rischi. Una strategia opposta a quella seguita di recente, secondo Faldella:
‘Sistematica rottamazione dell’esistente, prodotto e attrezzature produttive, fermi stabilimento perfino superiori all’anno, elevati investimenti per unità di prodotto. Direttore dell’Innovazione era l’ing. Giancarlo Michellone, grande manager ed ingegnere: già negli anni ’70 aveva realizzato i primi ABS, portò avanti con 30 anni di anticipo progetti nel campo delle energie alternative, bio-conversione dei rifiuti urbani, ingegneria per l’ambiente e per l’agricoltura; negli anni ’90, sotto la sua guida il Centro Ricerche Fiat svilupperà molti prodotti e tecnologie innovative, tra i più prestigiosi il common rail, iniezione elettronica nei diesel ad altissima pressione, diventata poi un must in tutti i motori diesel per i vantaggi in termini di consumi, emissioni, potenze specifiche, e successivamente il controllo elettronico della fasatura nei motori a benzina, con benefici similari. A partire dal 1985 buona parte dei grandi manager che avevano portato Fiat Auto dalla grave crisi degli anni ’70 ad essere la prima in Europa, con investimenti ed enormi profitti, lasciarono Fiat Auto; che già nel 1992 era di nuovo in grave crisi’. (Roberto Faldella, TOP MANAGEMENT: FIAT AUTO ’80S, in https://www.eng4.eu/top-management).

Ghidella – che spingeva sull’automobile come ‘cuore del gruppo’ – perse, come detto, e vinse Romiti, che puntava a “diversificare” ancor di più, ossia a trasformare definitivamente la Fiat in una holding finanziaria (che poi sarà realizzata nel corso degli anni Novanta) di partecipazioni appartenenti a diversi settori, finanza, assicurazioni, editoria ecc. Gli effetti di questa scelta non avrebbero tardato a manifestarsi. È un punto nodale, anche se all’epoca non concepito in tutte le sue conseguenze. In altri termini: i profitti dell’auto cominciano in quel periodo ad essere reinvestiti in altri settori. L’Ing. Ghidella sarà l’ultimo grande uomo del ‘fare’ e di meccanica. Dopo di lui in Fiat Auto il buio. Al posto di uomini ‘d’officina’ esperti, vogliosi di migliorare ed innovare il ‘prodotto auto’, Gianni Agnelli preferisce circondarsi di finanzieri. Da allora in poi nella Casa molto cambierà. La stessa tirerà a campare tra ben pochi progetti validi, o recepiti come tali dal mercato. Fiat, non solo gli Agnelli, Società vanto della storia dell’automobile, si mutava in una holding che ripudiava paradossalmente la centralità dell’auto, distratta da investimenti in una miriade di settori merceologici non legati all’automotive; che campava di prestiti non rimborsabili e sussidi statali (la famosa socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti).
La qualità del veicolo Fiat (con Autobianchi dal 1967, con Lancia dal ’69) fino a Ghidella
era stata scarsa (come gli acciai usati, che si arrugginivano già sul depliant, dicevano in Svizzera, o il Fix It Again Tony, dovendo portare spesso l’auto dal meccanico…), poi migliorò, sia pure non del tutto. La “Qualità Totale” rimase uno slogan. Era, comunque, il primo produttore europeo. Fu la scelta della proprietà a svuotare progressivamente un patrimonio di conoscenze, una tradizione imprenditoriale che piuttosto bene, ed oltre la crisi degli anni ’70, si era consolidata nel tempo, soprattutto a Torino e dintorni, in campo ingegneristico, carrozzerie, design, componentistica, tecnici, maestranze ecc. Alcune vetture erano ben riuscite, la citata UNO, la Lancia Thema, la Croma, la Bravo, la Punto, con prezzi abbordabili. Patrimonio di generazioni che andò disperso.
Gli anni ’90 sono segnati dalla Guerra del Golfo, ‘Mani Pulite’, le difficoltà della Fiat che
perde posizioni sul mercato domestico e su quello europeo, mentre i concorrenti Peugeot, Ford, Renault e Volkswagen migliorano le loro. Dal 1988 al 1993 il Lingotto non lanciò alcun nuovo modello. A peggiorare la situazione, si aggiunse, con Maastricht, nel 1993, lo smantellamento delle ultime barriere alla circolazione di merci nella U.E. Era giunto il momento di doversi confrontare con la concorrenza senza più scudi protezionistici, di natura tariffaria o di altro tipo. Ed anche di vedere le Polizie Municipali di nostri piccoli centri andare a multare le vecchiette o le soste vietate su Audi e BMW… I risultati furono disastrosi: quota del mercato europeo ridotta al 12% e perdite per 1.800 miliardi di Lire. Cosicché si corse ai ripari, attuando una enorme capitalizzazione della Fiat (4.285 miliardi) sotto la regia di Mediobanca, che fece entrare nell’azionariato nuovi azionisti, sé stessa, Deutsche Bank, Assicurazioni Generali, Alcatel.
Questi azionisti composero, assieme alle finanziarie di famiglia IFI e IFIL, un ‘sindacato di blocco’ che avrebbe mantenuto il controllo nelle mani degli Agnelli: infatti, una clausola del Patto stabiliva che nessuna decisione avrebbe potuto essere presa senza il loro consenso. D’altro lato, Mediobanca avrebbe esercitato un forte potere di condizionamento, e questo rafforzò in particolare Romiti, che godeva della fiducia di Enrico Cuccia e di Mediobanca, a scapito di Umberto A. Peraltro, proprio mentre il governo varava gli ennesimi incentivi a favore del mercato nazionale dell’auto, la Casa del Lingotto spostava varie produzioni all’estero; per i conti di Fiat Auto quell’ ingente sforzo delocalizzativo non diede i risultati sperati, a causa delle crisi dei “mercati emergenti” nel 1997-’98. Nel 1998 Paolo Fresco subentrava come Presidente a Romiti (che a sua volta era subentrato nel 1996 a Gianni Agnelli) e, vista la situazione, nel 2000 negozia con gli statunitensi di General Motors un accordo che prevede la cessione del 20% di Fiat Auto e l’opzione a comprare il restante 80% nel 2004 (o pagare una penale, in alternativa, il che avverrà). Fresco raccontò che, prima di spegnersi, nel gennaio 2003, l’Avvocato gli raccomandò di vendere la Fiat dopo la sua morte. Il 2001 si era chiuso con un reddito operativo che non era sufficiente neppure a pagare gli oneri finanziari, gli interessi; nel 2002 la situazione tracolla.
A fine maggio, l’esposizione complessiva della Società raggiunge i 35,5 miliardi di euro. Tra i creditori ci sono le banche italiane, esposte per 8,4 miliardi di euro. In cambio del riscadenzamento, la Casa accetta una serie di condizioni e dà il benservito all’ AD Paolo Cantarella, già capo di Fiat Auto dal 1990 al ’96, nominato poco prima della fine della Presidenza Agnelli, al compiere l’Avvocato 75 anni. Dal punto di vista delle quote di mercato, si è al punto più basso di un declino ormai più che decennale. In Italia, la percentuale delle auto vendute dal Lingotto era del 60,42% nel 1986. Nel novembre 2002 è del 28,1%. In Europa (Unione Europea più Svizzera) la quota Fiat era del 13,85% nel 1990, al secondo posto dopo la Volkswagen.
Nel novembre 2002 del 7,7%, e la stessa è all’ottavo posto, dopo Volkswagen, Peugeot, Ford, GM, Renault ed un paio di giapponesi. Le cose non vanno bene neppure fuori d’Europa. Le principali agenzie di rating dichiarano il declassamento delle obbligazioni Fiat: titoli “spazzatura” (junk), il 23 dicembre 2002. Le cause più specifiche della crisi della Company, per semplificare, iniziano da una politica errata di fusioni ed acquisizioni. L’unica acquisizione di rilievo fatta da Fiat Auto è quella dell’Alfa Romeo, per gentile volere del governo. In compenso ha venduto Seat nel 1981 e non è riuscita nell’intento di acquisire né Volvo, né Daewoo. Nello stesso periodo di tempo, Volkswagen ha acquisito marchi come Seat, Skoda, Audi. Segue un modello di ‘globalizzazione povera’. La Casa ha, inoltre, sottratto risorse al mercato europeo per lanciarsi in avventure rivelatesi fallimentari nei Paesi in Via di Sviluppo, sperando di poter lanciare una world car, operazione riuscita solo in parte con la Palio. Non è riuscita a penetrare nei mercati più promettenti (India e Cina): si è cioè globalizzata troppo poco. L’esternalizzazione selvaggia di funzioni produttive, l’outsourcing è stato, infine, praticato da Fiat in misura tale che intere porzioni di produzione, anche strategiche, sono state collocate al di fuori dell’azienda.
(Da Vladimiro Giacché, Cent’anni di improntitudine. Ascesa e caduta della FIAT, 2002, in
http://www.proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=206&artsuite=2).

Ha efficacemente ricordato Riccardo Ruggeri, già CEO di New Holland, in La Verità del 26 giugno 2019:

“La crisi del 2008 aveva cominciato a colpire anche gli Stati Uniti, le tre Big dell’ Auto (GM, Ford, Chrysler) sono in ginocchio: Ford decide di salvarsi da sola, le altre chiedono aiuto allo Stato. Il presidente Barack Obama decide di «salvare» GM (la parola autentica «nazionalizzazione mascherata» non si può usare, siamo nel Paese del liberismo più sfrenato, o no?) e di «vendere» Chrysler (peccato che sia di proprietà di Daimler, ma il presidente tutto può). La tedesca Daimler ha rischiato di fallire per l’ avventura Chrysler, si sussurra che il giochino le sia costato 60 miliardi di dollari. Chrysler viene offerta a tutti i costruttori di auto del mondo, tutti la rifiutano. Perché? Arriva Sergio Marchionne, e in tempi rapidi l’ operazione si chiude. Sembra un gioco delle tre carte, eppure al tavolo verde c’è Barack Obama, appena eletto presidente, c’ è la Fiat con Marchionne. Come può un’ azienda giudicata «junk» acquistare, in America, la fallita Chrysler senza metterci del cash, ma solo «carta», disegni e know how (presunto)? Riflettendo con il Wall Street Journal è corretta la sintesi «una nazionalizzazione mascherata seguita da una privatizzazione facilitata». Di norma chi compra, se ci mette quattrini veri, pretende il potere, il management, la sede del quartier generale, lo sviluppo prodotto, la cassa, gli investimenti, la difesa dei suoi stabilimenti nazionali. Altrimenti non avrebbe senso. In America le small car di tecnologia italiana non si sono viste, perché al cliente americano non interessavano. Marchionne, nel frattempo, procede con passo da bersagliere all’ integrazione fra Fiat e Chrysler, negozia il «costo del lavoro» sia con l’ amministrazione Usa, sia con il sindacato americano Uaw. Ottiene grandi benefici sui costi, è evidente che la contropartita (sottesa) sarà: investimenti di prodotto su Jeep e Ram, investimenti sugli stabilimenti, ma solo in quelli americani. Niente trippa per l’ Italia”.


Non si può dire, insinua l’autore, ma sarà così, e lo scopriremo presto:

“Il mercato americano si è ripreso, la crescita parte proprio dai modelli Suv e Pick up penalizzati pesantemente durante la crisi e grazie alla loro elevata redditività Chrysler comincia a cambiare segno. Di conseguenza, l’ indebitamento entra in una fase di progressiva riduzione. C’ è il problema dell’ Europa, intesa come investimenti industriali e come sviluppo prodotti di nuova generazione: auto elettriche ibride e veicoli a guida autonoma. Marchionne ha un problema ancora più grande: l’ Italia. Deve come ovvio confermare che il cervello e il cuore di FCA sarà l’ Italia. Quindi, gli investimenti prioritari qua devono avvenire. Lui sa che non finirà così, perché è già tutto deciso, FCA sarà un’ azienda americana. Allora ha un’ idea, l’ ennesima, al solito geniale. Si inventa una strategia prodotto-mercato suggestiva: uscire dalle auto medio-piccole per clienti poveri ed entrare nel ricco segmento premium per clienti di fascia alta. Il futuro ha i nomi di Alfa Romeo e di Maserati, due marchi prestigiosi. I «competenti» nostrani hanno orgasmi multipli nell’ assistere al miracolo. Strategia «ballon d’ essai colorati», applicati a finti Piani Industriali. Tutto finto, perché FCA non ha né i prodotti da produrre, né i quattrini per fare gli investimenti, né il mercato. Si discetterà per lungo tempo sul nulla, perché in realtà si trattava di una gigantesca bolla di fake truth’. (Da Riccardo Ruggeri, FCA Remain o Exit, 2019).

Sergio Marchionne, che arriva al Lingotto nel 2004, dopo la morte di Gianni ed Umberto Agnelli, succedendo a Giuseppe Morchio, doveva soprattutto garantire dividendi (farlocchi) alla ‘Famiglia’ – ed a sé stesso, ça va sans dire – oltre che far sopravvivere la struttura residuale, già ‘tecnicamente fallita’. Non far rinascere qualcosa della potenza della Fiat o di Torino ‘Detroit d’Italia’. Quella era finita da prima. Marchionne era, inoltre, portatore della cultura automobilistica dell’emigrante italiano in Canada, ammiratore delle Camaro e delle Muscle Cars. Non sapeva praticamente nulla di auto. Non voleva però darlo a vedere, bisognava agitare le acque, così che lui ed i suoi ‘tecnici’ hanno passato 14 anni a rottamare tutti i preesistenti ben funzionanti pianali, e relative strutture produttive, e “progettare” nuovi pianali, uno peggio dell’altro, pomposamente definiti ‘piattaforme’. E costosissime ristrutturazioni di stabilimenti. Mentre i soliti benpensanti italiani applaudivano sfegatati. Altrettanto strana è la perdurante ‘sudditanza psicologica’ della nostra politica verso gli stinti eredi del già discutibile Avvocato, amante di arti, regate, ‘nevi’, belle donne, di casa a New York, amico di Kissinger e di liberals ecc., ma come industriale…
Nel luglio 2018 improvvisamente Marchionne muore per un tumore in un ospedale svizzero. Prima di avviare una fusione. Ha scritto, a caldo, Marco Cobianchi, il 23 luglio 2018:
“Sergio Marchionne con i soldi pubblici ha fatto sopravvivere la Fiat, i predecessori erano quasi riusciti a farla fallire. La sua abilità è stata tale da riuscire non solo a incassare soldi pubblici in Italia, ma perfino in America. La differenza è che in America li ha restituiti, in Italia no. Bisogna partire da questa verità storica per evitare i zuccherosi e interessati peana che per mesi saremo costretti a leggere sull’ex amministratore delegato e sulla sua epopea. La seconda abilità di Sergio Marchionne è stata quella di far perdere le tracce dei suoi obiettivi presentando, a cadenza ansiolitica, talmente tanti piani industriali, revisioni di piani industriali, aggiornamenti di piani industriali, trimestrali, semestrali, annuali e pluriannuali che, alla fine, nessuno sapeva più quali fossero gli obiettivi industriali e finanziari della Società. Dal 2004, data del suo arrivo al vertice della Fiat, al 2014, data di consegna all’editore Chiarelettere della mia inchiesta American Dream, ha presentato ben 8 piani industriali, tutti, senza esclusione, accolti dai giornali italiani con grande giubilo. In realtà nessuno ci capiva niente, ma si fidava di lui, oltre che dei suoi investimenti pubblicitari. Per questo Marchionne ha avuto bisogno, nei 14 anni trascorsi in Fiat e poi in FCA di creare il ‘mito Marchionne’: perché la borsa, gli investitori, i giornalisti si dovevano fidare di lui, non dei suoi numeri. Quelli che comunicava, infatti, erano tutti sopra le righe. In American Dream ho calcolato che dei nuovi modelli promessi ad ogni piano industriale ne venivano realizzati solo la metà e tutti in ritardo sui tempi indicati. Per non parlare dei piani di espansione all’estero: se si va a vedere il disastro dello sbarco in Cina o in India il mito di Marchionne infallibile viene drasticamente ridimensionato”. (Vi racconto luci e ombre della Fca di Marchionne di Marco Cobianchi, autore del libro American Dream, Chiarelettere, 2014, in https://www.startmag.it/smartcity/vi-racconto-luci-e-ombre-della-fca-di-marchionne).

Le aree di debolezza, tolti alcuni marchi americani, sono antiche e ben note. Precedono la crisi Covid. Marchionne non è mai riuscito a produrre utili in quella che una volta era la vecchia Fiat Auto. La FCA Italy che ne ha preso l’eredità resta un’incompiuta. La società raggruppa le attività industriali in Italia, Europa, Turchia e Sudamerica ed è un pozzo senza fondo di perdite. Nel 2018 ha chiuso i conti con ben 1,25 miliardi di perdite nette. Doppiate le perdite dell’anno precedente quando il rosso a fine bilancio si fermò a 670 milioni di euro. Ma la striscia negativa è lunga. FCA Italy ha perso 1,1 miliardi nel 2016 e altri 1,6 miliardi nel 2015. I costi superano inevitabilmente e di molto i ricavi, opera costantemente in perdita. FCA è troppo piccola. Da anni in Italia non viene progettata nessuna vettura, solo restyling. L’ultima, la Fiat 500, è presentata alla grande, il 4 luglio 2007 (Festa USA!), ai Murazzi del Po, a Torino. Poi molte Concept (come la Maserati Alfieri), qualche Alfa Romeo cara e con poco mercato (Giulia, Stelvio, chissà Tonale) e chiacchiere, ancor prima di Greta e dei deliri green, poi l’ attesa di media e pubblico per le annunciate, farsesche auto ibride ed elettriche in arrivo ecc. Occorreva trovare presto un partner.
Così, nel maggio 2019, iniziano le conversazioni per la fusione tra FCA e Renault. Come dirà il Presidente di Renault, Jean-Dominique Senard, tornando, nel corso dell’Assemblea degli Azionisti, sul mancato matrimonio tra Renault (già associata alla giapponese Nissan) e FCA: ‘I vantaggi della fusione tra FCA e Renault erano evidenti. Il board era pronto a votare a favore del progetto. C’era solo un voto contrario, il rappresentante del sindacato francese CGT. I due rappresentanti di Nissan si sarebbero astenuti in modo positivo. Ma i rappresentanti dello Stato non hanno condiviso questa analisi e il voto non ha avuto luogo. FCA ha ritirato la proposta, sono molto deluso’ (https://www.adnkronos.com/soldi/economia/2019/06/12/rimpianto-renault-html).

Ovvero, una volta ancora la République Française si mette di traverso e non se ne fa nulla…
Poi è storia recente, la fusione di FCA, finalmente, con PSA-Peugeot del novembre 2019,
concretizzatasi all’inizio del presente anno. Più che una fusione, l’acquisizione di FCA da parte di
PSA, con molte incognite sul futuro degli stabilimenti della Penisola e relativa occupazione, sulla
componentistica italiana, il cui futuro è scurissimo, giacché le prossime piattaforme saranno tutte
PSA e così via. Sintetizzando: John Elkann è ora il nuovo Presidente di Stellantis, ma il CEO
è il portoghese Carlos Tavares, AD di PSA. Nel CdA di Stellantis, di 11 membri, 6 sono nominati da PSA e 5 da FCA. L’inglese Mike Manley è ‘il nuovo Marchionne’ della FCA. La vecchia Fiat, ed i marchi italiani, ci perdono nell’operazione, checché se ne dica. Chi ci guadagna molto, in termini azionari è, al solito la famiglia Agnelli, parte della nuova proprietà con il 14,6%.
In pratica, PSA si è comprata FCA, pagando agli azionisti un premio di oltre il 25% …
‘Stellantis N.V. è un’impresa multinazionale di diritto olandese, nata dalla fusione tra i gruppi PSA e Fiat Chrysler Automobiles; la società ha sede legale ad Amsterdam e controlla quattordici marchi automobilistici: Abarth, Alfa Romeo, Chrysler, Citroën, Dodge, DS Automobiles, FIAT, Jeep, Lancia, Maserati, Opel, Peugeot, Ram Trucks e Vauxhall. Il gruppo ha siti produttivi, di proprietà o in joint venture, in ventinove Paesi situati tra Europa, America, Africa e Asia. Un colosso con oltre 400.000 dipendenti. La fusione tra FCA e PSA ha inizio nell’ottobre 2019. Il 31 ottobre viene comunicato alla stampa che i due gruppi progettano di unire le forze per creare un leader mondiale nella nuova era della ‘mobilità sostenibile’; il 5 luglio 2020 viene annunciato il nome della nuova società, Stellantis; nel dicembre è annunciato che Mike Manley guiderà le operazioni nordamericane di Stellantis; il 4 gennaio 2021 le rispettive assemblee straordinarie degli azionisti approvano in streaming la fusione. Il 16 gennaio 2021 nasce ufficialmente il Gruppo Stellantis’. (Da https://it.wikipedia.org/wiki/Stellantis).
Ai 14 marchi summenzionati va aggiunta ‘Fiat Professional’ per i veicoli commerciali leggeri. Molti in Italia, Romano Prodi in testa, esprimono ora preoccupazione e fingono di dimenticarselo, ma Chrysler e Fiat furono ‘salvate’ nel 2009 dai quattrini e dalla volontà politica del Presidente Barack Obama e dalle capacità di Deal Maker di Sergio Marchionne. Fu allora, non ora, che l’Italia perse la sua più che centenaria industria dell’auto*.

NOTA
*Nel 2019 la classifica mondiale dei Costruttori che hanno venduto più auto al mondo, secondo un’elaborazione di Car Industy Analysis, prima della pandemia Covid, vede (con in proiezione la fusione FCA-PSA): 1) Volkswagen Group: 10.97 (Milioni di veicoli)
2) Toyota: 10.74
3) Renault-Nissan: 10.06
4) FCA-PSA: 7.91
5) General Motors: 7.72
6) Hyundai: 7.20
7) Ford: 5.39
8) Honda: 5.17
9) Daimler (Mercedes-Benz): 3.34
10) Suzuki: 3.01

Gianni Marocco

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