Giornale di Bordo.In ricordo dello storico Claudio Finzi, e di un dubbio che mi è ancora rimasto

Docente di storia delle dottrine politiche, si interessava anche di archeologia e di storia antica: era tutto il contrario dell’accademico “mononucleare” che per tutta la vita studia solo cinquant’anni di storia e guarda con sospetto chi osa spaziare da un secolo all’altro o addirittura si dedica alla divulgazione

Claudio Finzi

La recente morte di Claudio Finzi, ricordata con ampiezza di riferimenti su questo sito, ha evocato in me lontani e un po’ malinconici ricordi. Non me ne posso infatti a rigore considerare un amico, perché lo seguii da lontano e non ebbi che sporadiche frequentazioni con lui, ma sono stato sempre un convinto estimatore della sua opera così ricca di sfaccettature e rigorosa per impegno culturale. I miei incontri con lui furono pochi, ma tutti significativi. M’imbattei per la prima volta in lui – non fisicamente, ma idealmente – nella Biblioteca Marucelliana di Firenze, nella saletta che oggi è dedicata alle esposizioni ma che in passato metteva a disposizione dei frequentatori una vasta gamma di riviste culturali appena uscite e consultabili direttamente, in deroga all’arcigno principio secondo cui il lettore è un potenziale ladro o, nel migliore dei casi, un emerito scocciatore. Fra quelle pubblicazioni era presente “L’Italia che scrive”, gloriosa rivista fondata dal grande e sfortunato editore Formìggini (sì, da pronunciare sdrucciolo: aveva addirittura fatto incidere un disco perché il suo cognome non odorasse come un formaggino, come mi disse Giovanni Volpe, rimproverandomi bonariamente per aver sbagliato l’accentazione).

Il periodico era all’epoca diretto dal professor Nicola Francesco Cimmino, che aveva fondato con lo storico esponente del Msi Ernesto Di Marzio l’associazione “Centro di vita italiana”, promotore di memorabili incontri culturali, e lo leggevo volentieri perché era ben fatto e anche perché era una delle poche pubblicazioni orientate a destra presenti nella sala. Il mio occhio balzò su un articolo in cui venivano ricordati i “tre guardiamarina”: tre giovani neolaureati, tutti di destra – Roberto De Mattei, Adriano Romualdi e appunto Claudio Finzi – che finirono con quel  grado il servizio militare di leva in Marina (cito naturalmente a memoria, sono passati da allora poco meno di cinquant’anni e in epoca di Covid sarebbe ardua una ricerca bibliografica). L’articolo mi piacque, ma solo vari anni dopo, nei primi anni Ottanta, ebbi modo di conoscere di persona Finzi. Credo di essergli stato presentato dall’ispanista Paolo Caucci, docente a Perugia ma con radici anche a Firenze, che conoscevo da tempo e che, vistomi tagliato fuori dalla carriera accademica e costretto a destreggiarmi con lavori precari dopo il servizio militare, cercò, senza successo anche per una certa riluttanza da parte mia a chiedere intercessioni e favori, di aprirmi un varco per l’università. Finzi mi prese in simpatia anche perché per sbarcare il lunario fra una supplenza e l’altra curavo un settimanale dell’Associazione Industriali di Firenze e anche lui, prima di vincere il concorso per assistente ordinario all’università, aveva lavorato per la Confindustria. Mi colpì molto l’ampiezza dei suoi interessi. Docente di storia delle dottrine politiche, si interessava anche di archeologia e di storia antica: era tutto il contrario dell’accademico “mononucleare” che per tutta la vita studia solo cinquant’anni di storia e guarda con sospetto chi osa spaziare da un secolo all’altro o addirittura si dedica alla divulgazione. Proprio parlando di storia antica convenimmo sulla contraddittorietà del modo con cui questa disciplina viene insegnata nelle scuole. Si studia prima la storia greca, poi la storia romana come se queste civiltà non si fossero sviluppate sincronicamente, e se fenomeni come le costituzioni timocratiche ad Atene e i comizi centuriati a Roma non fossero coevi. Era, il mio, e credo anche il suo, un approccio comparativista, alla Spengler o se si vuole alla Toynbee, che per altro non teneva conto del conservatorismo mentale della classe docente italiana, capace magari di alzare barricate sessantottarde, ma diffidente e iperconservatrice quando qualcuno insidia il suo quieto vivere di capitoli da studiare “da pag. a pag.”

Da quel fugace colloquio ci osservammo a distanza, come a distanza, a parte un breve e un po’ malinconico incontro in una convention di partito, seguii le fortune di colui che sarebbe divenuto il suo successore alla cattedra di storia delle dottrine politiche all’università di Perugia. I colloqui con Finzi ripresero intorno al 2005, per motivi di lavoro: una casa editrice molto qualificata mi aveva chiesto di redigere un manuale per il biennio  delle scuole superiori e mi sorse spontaneo, memore di quel comune sentire sulla didattica della storia antica, rivolgermi proprio a lui, che abbinava ai suoi bravi quarti di nobiltà accademica un eclettismo d’interessi indispensabile a chi scrive un libro di testo. Ci parlammo come se ci fossimo visti il giorno prima, invece era passato quasi un quarto di secolo. Finzi mi diede una disponibilità di massima, ma poi il progetto non decollò, e non avemmo di conseguenza più occasione d’incontrarci e di collaborare.

Fu un peccato, perché da lui avrei avuto solo da imparare e anche perché avrei trovato l’occasione di porgli la domanda che non avevo mai avuto il coraggio di fargli: era o no parente di quell’Aldo Finzi, eroico pilota della grande guerra, fondatore con Balbo della nostra Aeronautica militare, sottosegretario agli Interni nel primo gabinetto Mussolini, poi costretto a dimettersi dopo il delitto Matteotti, infine fucilato alle Fosse Ardeatine per le origini ebraiche e anche per la conversione all’antifascismo? Era una di quelle domande che non possono fare per telefono, ma solo di persona, magari dopo una cena debitamente annaffiata di vino e di ricordi, perché nelle risposte che attendono può essere racchiusa una delle tante tragiche beffe della storia del Novecento.

p.s. Debbo ammettere, comunque, che, a parte Claudio e Aldo, c’è un altro Finzi che ha ben meritato nella storia d’Italia: l’ambasciatore Paolo Vita Finzi, volontario di guerra decorato nel primo conflitto mondiale, giornalista, diplomatico, volontario di nuovo nella guerra di Spagna, poi epurato dal ministero degli Esteri in quanto ebreo (per sopravvivere visse in Argentina scrivendo articoli e commerciando libri usati), finissimo letterato, nella sua irresistibile Antologia apocrifa, ma anche acuto storico delle idee nel saggio Le delusioni della libertà, autore nel 1972 – quando pubblicare con editori di destra era motivo di emarginazione – del brillante saggio Il cane di Fedro ovvero della sicurezza europea uscito per i tipi dell’editore Giovanni Volpe, coraggioso figlio dello storico Gioacchino.

@barbadilloit

Enrico Nistri

Enrico Nistri su Barbadillo.it

Exit mobile version