Rinascere dal fango delle trincee: “Il mio cuore fra i reticolati” di Mario Carli

Il romanzo del (futuro) ideatore della "rivoluzione anti-snob", il turbine della Grande Guerra per ritrovare il senso di una vita

La trincea, l’amore, l’ansia di rinascita. C’è tutto questo ne Il mio cuore fra i reticolati di Mario Carli (Aga Editrice, 2014), romanzo di battaglie e di passioni sconfinate, testimonianza intensa della nostra guerra, delle speranze infiammate di una generazione di giovani audaci, della promessa immaginifica di una nuova alba che voleva sorgere a ogni costo.

Il protagonista è Franco Arbace, una logorata fiacchezza nell’affrontare la vita e un intero patrimonio sperperato tra alcove corrotte e qualche salotto elegante. Come lo Sperelli dannunziano de Il Piacere, il vecchio venticinquenne si divide tra due donne: l’una gli racconta l’amore spirituale, tanto aulico quanto inafferrabile, l’altra quello carnale, un’esplosione di voluttà e (pure) di costante degradazione morale. L’unico scopo lo riconosce nella ricerca spasmodica del godimento, delle sensazioni più vili e mediocri: Franco affoga così, inspiegabilmente, promettenti energie nell’inezia della mondanità e nella futilità del peggiore dilettantismo erotico. E sembra allora inverosimile, con queste premesse, che un aristocratico caduto in miseria, stanco delle sue debolezze e della sua vita, possa anche solo provare ad incarnare l’attitudine possente con cui molti volontari si incamminarono verso il fronte.

Ma la guerra, la grande mobilitazione, è per Franco una rivelazione, un disvelamento. La pioggia degli shrapnels una doccia di purificazione. Nell’uragano dei bombardamenti il protagonista abbandona le scorie del vecchio trantran, valorizza il proprio carattere, si dichiara pronto a tutti i sacrifici pur di rendere l’Italia più giovane e vigorosa. La staticità degli anni passati sembra adesso, scrive Carli, una cosa paradossale, incredibile. Almeno di fronte al dinamismo febbrile di quei momenti terribili. L’esperienza bellica diviene quindi l’opportunità agognata di superare limiti reputati invalicabili, un susseguirsi glorioso di gesta eroiche che addirittura spingono Franco a sposare la durezza e l’intransigenza del neonato corpo degli Arditi; il volontario ne apprezza lo slancio individuale, la dedizione disinteressata. Tutto quello che meglio esprime, dice, l’irrequietezza e la vivacità del genio italico.

Così il protagonista -pare evidente- si fa quasi alter ego dello scrittore. E lui, la guerra, con l’uniforme dell’ufficiale, l’aveva vissuta davvero. Il romanzo in effetti si presenta, quasi spontaneamente, custode privilegiato delle inquietudini e dei sogni rivoluzionari che avevano ispirato Carli nella compilazione del manifesto programmatico dell’ardito-futurista, sintesi ideale dell’etica combattentistica che dall’invenzione marinettiana si trasponeva efficacemente nelle tempeste furiose della Grande Guerra.

Già ne avevamo parlato nel primo episodio dedicato al nostro autore: per Mario Carli, infatti, l’ardito era l’aristocrazia guerriera, il futurista armato su cui doveva innervarsi il destino politico dell’Italia nuova. Ecco, Franco Arbace si trasforma improvvisamente in tutto questo. Ed è per tale motivo che Il mio cuore fra i reticolati è, soprattutto, un romanzo di progressiva rigenerazione, di strepitosa ri-nascita. Franco si getta nella “corsa luminosa” solo quando comprende come tutte le indolenze, tutte le costrizioni mondane che l’avevano ingabbiato avessero annoiato inutilmente la forza propositiva della sua giovinezza; il protagonista attinge a quel che rimane delle sue più profonde e nascoste riserve vitali, ammorbate dalla dissoluzione e dalla vigliaccheria della vecchia quotidianità: ne consegue una deflagrazione quasi mitica di azioni inaudite che possono finalmente colorare i suoi giorni, lo aiutano a rinnovarsi e a ritrovarsi, a superare l’altrimenti inesorabile afasia spirituale nella quale aveva smarrito la sua anima.

Ed è a questo punto doveroso improntare una distinzione, netta, che intercorre tra la sopra citata opera dannunziana e il romanzo di Carli (che con il Vate condivise l’esperienza fiumana). Il vizio, il gusto per i salotti, l’amore per due donne antitetiche. E poi la tensione estetica, la perdizione, la pretesa irreprimibile dell’ebbrezza edonistica. I parallelismi sono manifesti, come abbiamo scritto. Se però Andrea Sperelli soccombe, battuto, nella ricerca centrifuga del piacere e di improbabili sublimazioni estetizzanti, di cui alla fine percepisce tutta l’inconsistenza e la volgarità, Franco Arbace riesce invece a vincere l’incertezza, supera fieramente la passività e l’apatia tornando padrone delle proprie aspirazioni, della propria volontà.

Il romanzo-diario di Carli significa, in definitiva, questo. Significa abbeverarsi alle sorgenti nascoste dell’essere per affrontare con entusiasmo e impeto le sfide che si prospettano davanti a noi. Significa provare in tutti i modi a lasciare anche solo una traccia della nostra esistenza, del nostro vissuto. Un po’ come fece Franco Arbace. Che, ferito, da un letto di infermeria, non smise di sognare la rivoluzione nazionale.

Domenico Pistilli

Domenico Pistilli su Barbadillo.it

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