Tripoli e “La casa di Shara Band Ong” (di Mariza D’Anna)

Le esperienze di una bambina italiana cresciuta in Libria fino all'età di nove anni

«Tripoli, bel suol d’amore, ti giunga dolce questa mia canzon…» Sono passati esattamente 110 anni da quel 1911, quando fu scritta questa canzone, poche settimane prima dello scoppio della guerra italo-turca che avrebbe portato l’Italia a colonizzare la Cirenaica e la Tripolitania, terre che avrebbe lasciato solo nel gennaio del 1943.

Uno dei ben 120 mila italiani, il 13 per cento della popolazione,presenti nel paese all’inizio della seconda guerra mondiale, era il trapanese Francesco, giuntovi nel 1928, dove ai margini del deserto, a cento chilometri da Tripoli, ottenne in concessione dallo Stato un vastissimo fondo pietroso e lo trasforma in una grande e fiorente azienda agricola. Era il bisnonno di Mariza D’Anna, redattrice del quotidiano “La Sicilia” di Catania, che ha appena pubblicato il romanzo autobiografico “La casa di Shara Band Ong”, per la casa editrice Màrgana.

È l’ideale continuum del suo primo volume Il ricordo che se ne ha. Biag Miggi (2017), dove il protagonista era il nonno Carlo. Qui è ancora la storia della sua famiglia in Libia, ma in particolare delle sue esperienze di bambina, cresciuta a Tripoli fino all’età di nove anni, dove, con i genitori, insegnanti nel liceo italiano e il fratello, abita al quarto piano del palazzo in stile razionalista che si trova a Shara Band Ong, fino a quando è costretta a lasciarla con la cacciata degli italiani dal Paese. Quelle strade, quei rumori, quei sapori restano il luogo della memoria, dove per la piccola tutto è iniziato. 

Come nel primo volume, non tutto è fedele racconto di quello che è accaduto ma, narrando il passare degli anni, l’autrice ricostruisce i suoi miti privati, comuni a quel melting pot di bambini nati nell’ex colonia italiana. Racconti vissuti e altri tramandati in famiglia, e tuttavia patrimonio comune di quegli italiani: la storia di una vita trascorsa in Libia dove la convivenza tra popoli di culture, religioni e costumi diversi non solo fu possibile, ma ricca di affetti e di solidarietà comuni.

Già, la cacciata degli italiani. In molti avevano lasciarono volontariamente il paese dalla seconda metà degli anni quaranta, dopo che all’Onu nel 1947, per un solo voto, la Tripolitania non fu assegnata all’amministrazione italiana come avvenne invece l’anno dopo per la Somalia, ma tanti restarono e resero quel paese il loro: Francesco e Carlo furono tra questi e così la loro famiglia, che crebbe di generazioni, e ai figli si aggiunsero i nipoti. 

Nel 1962 ancora in 35 mila italiani vivevano lì. Tutto cambiò d’un tratto con il colpo di stato del settembre 1969 che portò al potere i giovani ufficiali guidati dal 27enne capitano Gheddafi, che si autopromosse colonnello.

Improvvisamente in pochi mesi la Libia, eden dell’amore dei suoi genitori e della sua infanzia felice, diventa una terra ostile e straniera dalla quale è costretta a scappare, sulla prua di un bastimento, profuga di un Paese nel quale non farà più ritorno. Prima progressive restrizioni, poi il decreto di confisca di tutti i beni del 21 luglio 1970, infine la costrizione a lasciare il Paese entro il 15 ottobre, con null’altro che quello che avevano indosso, e con lei altri 20 mila italiani.

E come già 25 anni prima i profughi istriani, anche i cittadini italiani espulsi dalla Libia vissero il loro calvario, trasformati in esuli in una patria che non era più loro, che non li riconosce e dove non possono più riconoscersi.

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Vito Orlando

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