Storia. I Moti del 1820-21

La ricostruzione dell'ambasciatore Marocco degli avvenimenti del biennio ottocentesco

A causa della pandemia del Covid-19 non si celebreranno, credo, atti, convegni, simposi, mostre, incontri di studio e dibattiti pubblici sugli avvenimenti del 1821. Per restare all’Italia e ad avvenimenti che o la riguardarono direttamente o coinvolsero personalità della cultura: fu l’anno, due secoli fa, dei moti carbonari e liberali, rilevanti specialmente nel Regno delle Due Sicilie ed in Piemonte, della morte di Napoleone a Sant’Elena, della Dichiarazione d’Indipendenza della Grecia. I greci certo celebreranno, magari digitalmente. Avvenimenti collegati tra di loro. Un’analisi dettagliata eccede questa sede. Mi limiterò a ricordare alcuni fatti, cause, conseguenze.

I primi due sono legati, con la naturale integrazione successiva di studi più approfonditi, a ricordi scolastici (almeno per la mia generazione) che risalgono alla vecchia Scuola Media, quella dell’Esame di Ammissione, vagonate di latino, lo studio a memoria (!) se non di tutte, almeno di una buona metà delle strofe delle Odi Civili di Alessandro Manzoni, Marzo 1821 e Il Cinque Maggio.

Alessandro Manzoni (1785-1873 ), figlio biologico del minore dei riformatori fratelli Verri, Giovanni, e di Giulia Beccaria – l’irrequieta figlia di Cesare, l’autore del famoso Dei Delitti e delle Pene, fatta sposare dalla famiglia al già anziano, vedovo, grigio aristocratico don Pietro, di Lecco – cresciuto in un ambiente assai favorevole alle nuove idee dell’Illuminismo, nella ancor tollerante Milano che era stata fedele a Maria Teresa d’Asburgo, ai suoi figli Imperatori, Giuseppe II e  Leopoldo II, e poi nell’Europa Napoleonica, tra Francia e Lombardia, dopo la sua ‘conversione’ al cattolicesimo, nel 1810, aveva iniziato, oltre agli Inni Sacri, una serie di componimenti poetici di argomento patriottico. Ispirati a temi relativi alle vicende prerisorgimentali: in Aprile 1814 il conte Manzoni esprimeva entusiasmo per la caduta di Napoleone e per la cacciata dei francesi dall’Italia, mentre nel Proclama di Rimini (aprile 1815) sosteneva l’iniziativa di Gioacchino Murat, che nell’omonimo proclama incitava gli Italiani alla lotta per l’indipendenza nazionale. Murat era ancora, ma per poco, Re di Napoli, dopo aver rinnegato l’alleanza col cognato Imperatore ed averne sottoscritta una nuova con l’Austria nella speranza di salvare il trono (che presto Metternich decise, al Congresso di Vienna, di ridare a Re Ferdinando IV di Borbone). Opere scritte di getto, sulla spinta degli avvenimenti, dando sfogo a sentimenti tumultuosi, inquadrando Murat addirittura come un ‘Liberatore inviato da Dio per sottrarre gli italiani alla schiavitù’!

              MARZO 1821. I MOTI CARBONARI E LE SOCIETÀ SEGRETE

Riunione carbonara

A partire dal novembre 1820, Manzoni – che già aveva sperimentato depressione e disturbi nervosi che lo perseguiteranno fino alla morte, forse ereditati dalla madre – aveva iniziato a redigere la tragedia dell’Adelchi. Concluso un primo abbozzo,  improvvisamente se ne distolse per rimetter mano alla poesia civile, con la stesura (tra il 15 ed il 17 marzo) dell’ode Marzo 1821, celebrante la presunta invasione del Lombardo-Veneto da parte delle truppe sardo-piemontesi dopo l’abdicazione di Vittorio Emanuele I, a seguito del moto insurrezionale promosso in Piemonte da nobili ufficiali affiliati alla ‘Federazione’ o alla ‘Carboneria’, quest’ultima una società segreta dalle origini controverse, probabilmente derivata dalla massoneria e formatasi per iniziativa britannica, nel Mezzogiorno d’Italia durante la Spedizione di Russia; presto estesasi a tutta la penisola ed oltre. 

La lirica manzoniana è dedicata ‘Alla illustre memoria DI TEODORO KŒRNER, POETA E SOLDATO DELLA INDIPENDENZA GERMANICA, MORTO SUL CAMPO DI LIPSIA IL GIORNO XVIII D’OTTOBRE MDCCCXIII, NOME CARO A TUTTI I POPOLICHE COMBATTONO PER DIFENDERE O PER RICONQUISTARE UNA PATRIA’: 

Soffermati sull’arida sponda,/ Vòlti i guardi al varcato Ticino, /Tutti assorti nel novo destino, /Certi in 

cor dell’antica virtù, /Han giurato: Non fia che quest’onda /Scorra più tra due rive straniere: /Non fia loco 

ove sorgan barriere/ Tra l’Italia e l’Italia, mai più!

L’han giurato: altri forti a quel giuro/ Rispondean da fraterne contrade,/ Affilando nell’ombra le spade/ Che or levate scintillano al sol./ Già le destre hanno stretto le destre;/ Già le sacre parole son porte:/ O compagni sul letto di morte,/ O fratelli su libero suol.

Per proseguire l’epica invocazione, ispirata all’acceso romanticismo del tempo, con i celebri versi, molto völkisch, in verità:

Quello ancora una gente risorta/ Potrà scindere in volghi spregiati,/ E a ritroso degli anni e dei fati,/ Risospingerla ai prischi dolor:/ Una gente che libera tutta, /O fia serva tra l’Alpe ed il mare;/ Una d’arme, di lingua, d’altare,/ Di memorie, di sangue e di cor.   (https://it.wikisource.org/wiki/Marzo_1821)

Con prudenza, il Manzoni decise di distruggere ogni copia di tale ode dopo il fallimento del tentativo rivoluzionario. Il suo amico, conte Federico Confalonieri, noto e ricco patrizio milanese, non fu altrettanto cauto. I moti del luglio 1820 nel Regno di Napoli rivelarono un’ispirazione settaria guidata dalla Carboneria (ovvero da una parte della Massoneria), con nomi diversi, al esempio ‘Federati’ in Piemonte e Lombardia. A tale ‘Federazione’ aderirono molti giovani ufficiali dell’esercito sardo di idee liberali e gli esponenti dell’aristocrazia lombarda che meno tolleravano il ritorno alla dominazione austriaca, dopo che Milano era stata la capitale del Regno d’Italia, al cui vertice Napoleone aveva posto il figliastro Eugenio di  Beauharnais, abile generale e Capo della Massoneria come primo Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia e primo Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio d’Italia del Rito scozzese antico ed accettato. Non tutto in quel dispotismo modernizzante, meritocratico, era da buttare, pensavano non pochi patrizi lombardi.

Federico Confalonieri, massone, divenne il tramite tra i federati piemontesi ed i federati lombardi nei mesi che precedettero l’insurrezione del marzo 1821. Tra la fine d’agosto e gli inizi di settembre 1820, egli fu cercato dal conte Ettore Perrone di San Martino, ufficiale dell’esercito francese sino al maggio 1819, per conto, almeno così gli disse, di Carlo Alberto, principe di Carignano, discendente di un ramo collaterale dei Savoia, presunto erede al trono, non avendo figli maschi viventi né il re Vittorio Emanuele I, né il più giovane fratello Carlo Felice. Carlo Alberto, ‘l’italo Amleto’ di Carducci, era moderatamente seguace delle ‘nuove idee’. In un incontro, a Vigevano, il Perrone gli espose il piano dei ‘federati’ e di Carlo Alberto: approvazione della costituzione e guerra all’Austria per la conquista, intanto, della Lombardia. Confalonieri si sarebbe mostrato molto perplesso. Il 13 ottobre 1820, Silvio Pellico, Pietro Maroncelli, Melchiorre Gioia ed altri vennero arrestati in quanto carbonari aderenti a piani cospirativi. Dall’insurrezione napoletana e da quell’arresto la storiografia situa convenzionalmente l’inizio del processo risorgimentale antiaustriaco nella penisola. La cosiddetta “tragica aurora”.

La ribellione scoppiò a Torino, Pinerolo, Alessandria, Fossano ai primi di marzo 1821 e fu l’espressione di una gioventù educata sugli scritti di Vittorio Alfieri, su austere (ed alquanto immaginarie) virtù dell’antica Repubblica di  Roma; di un buon numero di ufficiali provenienti dalle file delle Armées napoleoniche; dell’atmosfera grettamente reazionaria vigente nel restaurato Regno Sardo, già incorporato alla Francia Imperiale; del temporaneo successo dell’insurrezione napoletana; dell’avversione che molti piemontesi, non solo nobili, nutrivano ora per l’Austria asburgica garante dell’equilibrio della Restaurazione. Austria transitata dal ‘giuseppinismo’ giurisdizionalista – passando per il trauma della testa mozzata nel 1793 a Maria Antonietta, figlia dell’Imperatrice Maria Teresa – alla reazione assolutista del Metternich, del Congresso di Vienna, della Restaurazione legittimista, della Santa Alleanza, del dogma del diritto divino, del rinnovato connubio Trono-Altare. 

Come scriverà Massimo d’Azeglio ne I miei ricordi, “Un dispotismo pieno di rette ed oneste 

intenzioni, ma del quale erano rappresentanti ed arbitri quattro vecchi ciambellani, quattro vecchie dame d’onore con un formicaio di frati, preti, monache, gesuiti” e “l’accumularsi di ingiustizie e scioccherie dopo il 1814” dava ai suoi critici – non certo a un Solaro della Margarita, poi Ministro degli Esteri di Carlo Alberto – l’illusoria impressione di una maturità dei tempi, che gli accadimenti non confermeranno. Senza la sottile, spregiudicata diplomazia di Cavour e l’intervento della Francia di Napoleone III, nel 1859, il processo risorgimentale non sarebbe probabilmente mai decollato.

Quando l’insurrezione scoppiò Vittorio Emanuele I non volle concedere la Costituzione (quella di Cadice del 1812, mentre i militari più estremisti avrebbero preferito quella francese del 1791), ma neppure reprimere la sollevazione. Abdicò il 13 marzo a favore del fratello Carlo Felice, in quel momento a Modena, e si allontanò da Torino, dopo aver designato Reggente il principe Carlo Alberto. Alcuni lombardi passarono allora il Ticino per sollecitare l’intervento piemontese nel Regno Lombardo-Veneto. Non appena le truppe sarde avessero varcato il confine, vi sarebbero state, nei piani, la sollevazione e la formazione di un governo provvisorio, sostenuto da milizie cittadine milanesi che avrebbero collaborato alla cacciata degli Austriaci, con il conte Confalonieri designato come la personalità con maggiori responsabilità in quella auspicata contingenza. 

Negli ultimi giorni di febbraio, alla vigilia della insurrezione piemontese, il già perplesso, dubbioso Confalonieri, ammalato, non aveva potuto prendere parte agli avvenimenti. Che si conclusero con la sconfessione della Costituzione, l’allontanamento di Carlo Alberto, l’intervento di truppe austriache, richieste dal Re Carlo Felice al Congresso di Lubiana, nell’ambito delle intese della Santa Alleanza, e la sconfitta totale degli insorti. Così come Ferdinando I di Borbone aveva fatto per debellare la rivoluzione guidata nel Meridione da Guglielmo Pepe. 

Tuttavia, la capace polizia dell’imperial regio Governo continuò le sue indagini e Federico Confalonieri fu arrestato nel dicembre 1821. Il processo si concluderà nel novembre 1823 con la condanna a morte dell’aristocratico lombardo, di una grande famiglia già devota all’Austria, e di altri, poi tramutata in ergastolo allo Spielberg e, nel 1835, finalmente alla deportazione in America. Gabrio Casati fu sempre vicino alla sorella Teresa, morta nel 1830 senza poter rivedere il marito.

                                                                    

Targa commemorativa della sollevazione del 1821, Pinerolo

Carlo Felice decise, dal canto suo – dopo aver cercato, invano, di convincere Vittorio Emanuele a ‘ritirare’ l’abdicazione – pur essendo intellettualmente superiore ai suoi fratelli, e non meritando solo la fama di ‘Carlo Feroce’, la punizione esemplare dei colpevoli, istituendo tre differenti giurisdizioni, per i militari, per gli impiegati del Regno, per i civili. La Regia Delegazione emise, dal 7 maggio al primo ottobre, 71 condanne a morte, 5 condanne alla galera perpetua, 20 condanne a pene tra i 5 e i 20 anni. Dopo il suo scioglimento, i Senati pronunciarono altre 24 condanne a morte, altre 5 all’ergastolo e 12 a detenzioni dai 15 ai 20 anni. La Commissione militare alla fine di ottobre aveva destituito 627 ufficiali. I piemontesi compromessi con i moti del 1821 furono quasi quattromila, dei quali oltre un migliaio furono costretti all’esilio in Francia, in Svizzera, in Spagna, in Gran Bretagna ed altrove. Anche se ci furono solo due sentenze capitali eseguite (il tenente dei Carabinieri Laneri ed il capitano Garelli) con l’impiccagione. Giuseppe Parlato ha curato il Dizionario dei piemontesi contemporanei compromessi nei moti del 1821, continuando e terminando la ricerca di Giorgio Marsengo, Deputazione Subalpina Storia Patria, Torino, 1982-’86.

Il Conte Santorre Derossi di Santarosa, figlio di un colonnello caduto a Marengo contro i francesi nel 1800, a 24 anni eletto Maire (sindaco) di Savigliano, leader dell’insurrezione, lasciò la famiglia e sette figli, emigrò in Francia, poi in Svizzera ed Inghilterra, ove condusse vita stentata, sotto falso nome, dando lezioni d’italiano e di francese, quindi, nel 1824, accorse all’appello della Grecia a combattere per la sua libertà contro il Turco, e cadrà in uno scontro nell’isola di Sfacteria come soldato semplice: lui che era stato Ministro della Guerra nell’effimero Governo Provvisorio dopo l’abdicazione di Vittorio Emanuele I! Oltre le condanne, la confisca dei beni. Per ordine del nuovo Ministro degli Interni, conte Gaspard-Jerôme Roget de Cholex, fu chiusa l’Università di Torino e molti professori subirono severe ammonizioni anche perché, scrisse il sovrano in una lettera al fratello Vittorio Emanuele, a Modena, presso la figlia duchessa Maria Beatrice, il 9 maggio 1822: 

“Tutti quelli che hanno studiato all’Università sono del tutto corrotti: i professori sono da detestare, ma 

non c’è modo di sostituirli perché tutti coloro che sanno qualcosa non valgono più di loro. Insomma, i cattivi sono tutti istruiti ed i buoni sono tutti ignoranti” (Da Corrado Vivanti, Età Contemporanea, Torino, Marietti, 1988).

Al di là degli ideali alti e disinteressati (si trattava dei figli di Ministri, di generali, del principe Carlo Emanuele Dal Pozzo della Cisterna, del conte Annibale Santorre Derossi di Santarosa, del conte Giacinto Provana di Collegno, del conte Guglielmo Moffa di Lisio, di Carlo Emanuele Asinari di San Marzano, di Roberto Taparelli d’Azeglio, tra gli altri) di appartenenti alla classe dei detentori del potere politico, militare, economico dello Stato – anche se di fatto e non di diritto, come essi aspiravano sull’esempio inglese, ma neppure in senso chiuso ed esclusivo, questo va riconosciuto –  e delle sofferenze da molti patite, rimane, nell’analisi storiografica, lo sconcerto per la leggerezza con la quale un gruppo di nobili piemontesi cospiratori, imbevuti d’idee rivoluzionarie, autoproclamatisi ‘patrioti’, che conosceva Parigi, ma poco assai dell’Italia, pensasse di adottare una Costituzione elaborata dalle Cortes spagnole di Cadice nel 1812, in piena occupazione francese, di sconfiggere gli austriaci senza un esercito vero, sognasse di proclamare una unilaterale unità d’Italia, della quale spesso neppure conosceva bene la lingua, parlando in maggioranza solo e sempre il piemontese ed il francese. Non casualmente uno dei capi del tentato golpe, Guglielmo Moffa di Lisio, declinerà, già anziano, la candidatura al Parlamento italiano per non possedere un’adeguata conoscenza della lingua italiana, soprattutto scritta! I primi moti risorgimentali italiani furono in sostanza un fallimento: impreparazione, fretta, approssimazione, scarso o nessun legame con la popolazione, da parte di ‘patrioti’ che si attendevano insurrezioni che non avvennero, dell’ottimismo della volontà, non della ragione. Carenze, illusioni che Mazzini e la ‘Giovine Italia’ erediteranno.

 Cugino di Massimo d’Azeglio – eclettico politico liberal-moderato, che sarà pure Presidente del Consiglio subalpino prima di Cavour, militare, pittore, romanziere, che aveva, a testimonianza della confusione dei tempi, un padre lealista, un fratello implicato nei moti del 1821, un altro gesuita, fondatore della Civiltà Cattolica, e divenne pure genero del Manzoni era Cesare Balbo di Vinadio, intellettuale, uomo pacato, cattolico liberale, che dopo il 1814 diceva agli amici, come ricorderà d’Azeglio nei Ricordi: “nulla c’è al mondo di più bello che la guerra e l’amore!”. 

Essendo, soprattutto, una ‘nobiltà di spada’ era sensibile all’organizzazione militare. Come ricordava lo stesso d’Azeglio il contrasto tra l’efficienza delle Armate Imperiali (nelle quali parecchi compromessi del 1821 avevano servito ed il cui ricordo, non ancora mito, persisteva ben vivo) e le modeste, raffazzonate milizie dello Stato dei Savoia, rimasto privo di un esercito alla Restaurazione, era avvilente, scoraggiante. Le idee erano vecchie come le bianche parrucche e scarseggiavano i quattrini! Il Re Vittorio Emanuele I era tornato a Torino nel maggio 1814, con la regina Maria Teresa d’Asburgo, festosamente accolto dal popolo (Metternich gli farà pure dono della Liguria), ma non disponeva, intanto, neppure di una carrozza: gliene dovette prestare una proprio il padre di Massimo d’Azeglio, il marchese Cesare. Con un ideario simile, che permarrà fino alle stragi della WWI, se non della WWII, nostalgico delle vittorie napoleoniche, di uniformi sgargianti, di rapide carriere, di titoli, gli sforzi dell’abile principe di Metternich per assicurare un equilibrio di potere tra le Potenze, 

ergo un lungo periodo di pace al Continente, non potevano essere adeguatamente apprezzati… 

          Il CINQUE MAGGIO. MORTE DI NAPOLEONE A SANT’ELENA

In quello stesso 1821, il 5 maggio moriva a Sant’Elena, remota isola, Napoleone Bonaparte, 

lì deportato dagli inglesi dopo Waterloo. Notizia che giunse in Europa soltanto nel mese di luglio. Alessandro Manzoni, prudentemente trasferitosi nella sua villa di Brusuglio, lesse della scomparsa dell’ex Imperatore dei francesi sulla Gazzetta di Milano del 17 luglio 1821, rimanendone assai turbato. Egli era affascinato dal genio militare, dal titanismo, dal carisma dello scomparso, ed immediatamente si accinse a stendere un’ode che ne riassumesse la vita straordinaria. Tra il 18 e il 20 luglio, Manzoni compose così Il Cinque Maggio. La grandezza di Napoleone non viene sminuita, ma passata al setaccio della Fede e della divina Provvidenza. Tale grandezza non risiede, quindi, nelle sue effimere imprese e conquiste terrene, quanto nell’aver egli alfin compreso, attraverso le sofferenze dell’esilio, la vanità delle glorie passate e l’importanza salvifica della Grazia divina. 

Al cattolico Manzoni non interessano più di tanto le passate glorie di Napoleone, bensì le sue conquiste spirituali, ch’egli individua essere l’unico mezzo per raggiungere una gloria vera, autentica. Cronologicamente collocato al crocevia tra le esperienze di scrittura delle tragedie e del romanzo, Il Cinque Maggio costituisce la cornice lirica entro la quale si definiscono alcuni temi topici della poetica manzoniana, come, su tutti, quello dell’autorità e della fama umana ridimensionata dalla gloria divina; constatazione da cui dipendono il tono da inno sacro ed il carattere esplicitamente esortativo, edificante delle strofe finali:

Ei fu. Siccome immobile,/ Dato il mortal sospiro,/ Stette la spoglia immemore/Orba di tanto spiro,/ Così percossa, attonita/ La terra al nunzio sta,/ Muta pensando all’ultima/ Ora dell’uom fatale;/ Nè sa quando una simile/ Orma di piè mortale/ La sua cruenta polvere/A calpestar verrà.

Per concludere:

Fu vera gloria? Ai posteri / L’ardua sentenza: nui / Chiniam la fronte al Massimo / Fattor, che volle in lui / Del creator suo spirito / Più vasta orma stampar.

 

Il Cinque Maggio risponde alla forma metrica dell’ode. Il testo si compone di 108 versi raggruppati in strofe da sei settenari. Il primo, il terzo ed il quinto settenario pongono l’accento sulla terzultima sillaba e non sono rimati; il secondo e il quarto sono rimati fra loro e terminano con una parola piana, mentre il sesto ed ultimo settenario è tronco e rima con l’ultimo verso della strofa successiva. (https://it.wikipedia.org/wiki/Il_cinque_maggio).

Avendo Alessandro Manzoni sottoposto il testo della sua nuova ode alla censura di Milano, ne venne da questa cortesemente respinto. Non si poteva lodare Napoleone neppur da morto (anche se nella sua ode egli mai lo nominava) e neppure per esaltazione della Provvidenza. Come per Marzo 1821 essa dovrà attendere decenni per essere pubblicata.

La provvida sventura (già attribuita ad Ermengarda nell’Adelchi, che ricavando il bene dal male permette il riscatto) di quei mesi turbolenti starà, in ogni caso, alla base del suo grande romanzo storico, I Promessi Sposi.

                    IL MITO DELLA GRECIA. LA SUA INDIPENDENZA 

 Il 25 marzo 1821 commemora l’inizio della guerra per l’Indipendenza dagli Ottomani, che occupavano il territorio greco dalla fine del XV secolo, tranne Cipro, Creta e le Isole Ioniche rimaste veneziane più a lungo. L’atto solenne della Rivoluzione inizia con Germanós III, metropolita di Patrasso, che benedice gli insorti greci. Durante la rivoluzione greca contro la dominazione turca si scrissero delle pagine gloriose, intrise di sangue per la lotta alla libertà, della storia ellenica. Condottieri e capitani irriducibili, uomini valorosi combatterono ed immortalarono l’idea di un 

popolo fiero, anche attraverso le loro gesta:  il sogno di tali eroi era quello di una Grecia libera ed indipendente. Allo stesso tempo fu la rivisitazione di un mito. Quello che il Neoclassicismo, dal 1760 circa, aveva ampiamente diffuso per l’Europa nell’architettura, nella pittura, nella letteratura, nell’arredamento. Il mito neoclassico, quando viene immerso nella nuova sensibilità romantica e liberale, dà luogo ad una esaltazione generosa, spesso idealizzata, di un Paese già patria di Platone, Aristotele, Pericle, ma divenuto col tempo sostanzialmente balcanico, simboleggiata dalla morte di Lord Byron, di Santorre di Santarosa ed altri, eppur confusa, inevitabilmente, con la geopolitica del tempo, la questione degli stretti, l’aspirazione russa ad uno sbocco sul Mediterraneo.

L’influenza della cultura neoclassica, pur essendo la ‘nazionalizzazione delle masse’ ancora lontana, fu enorme. In Italia ed in Europa. Ippolito Pindemonte, ad esempio, inizia nel 1805 la traduzione dell’Odissea, dopo altri tentativi poco riusciti; Vincenzo Monti conclude nel 1811 quella assai nota dell’Iliade. Vittorio Alfieri, dallo studio di Plutarco, Dante, Petrarca, Machiavelli, degli illuministi, ricavò una personale visione razionalista e classicista, convintamente anti-tirannica ed in favore di una sconfinata libertà ideale, alla quale unì l’esaltazione del genio individuale, tipicamente romantica. Diventò un simbolo per intellettuali e giovani colti. Quegli stessi che vivranno per lo più solo idealmente, letterariamente, ma visceralmente, le vicende dell’indipendenza greca. Grecia non come appendice balcanica, ma ipotesi di cuore ideale, pulsante di una nuova Europa che attinge l’antica sapienza e l’armonia classica, la ‘nobile semplicità e quieta grandezza’ di Winckelmann.

In Italia la poesia di Ugo Foscolo aggiunse all’ansia romantica di libertà ideale di Alfieri, ed altri, un precoce, alto Blut und Boden:

 «Quantunque italiano d’educazione e d’origine, e deliberato di lasciare in qualunque evento le mie ceneri sotto le rovine d’Italia anziché all’ombra delle palme d’ogni altra terra più gloriosa e più lieta, io, finché sarò memore di me stesso, non oblierò mai che nacqui da madre greca, che fui allattato da greca nutrice e che vidi il primo raggio di sole nella chiara e selvosa Zacinto, risuonante ancora de’ versi con che Omero e Teocrito la celebravano», dirà in una lettera del 29 settembre 1809. (U. Foscolo, Epistolario, Le Monnier, 1933-1994).

Scriverà di Foscolo e della poetica foscoliana il critico letterario Cesare Angelini:

“Già quella sua nascita greca, gli dà felicità a ricordarla. «Sapete che io nacqui in Grecia». Naturalmente continua a viverci, poiché l’animo «è pieno del nativo aer sacro». Dice: «Passerò il mare e andrò a fornire l’avanzo della mia vita nella materna Zacinto». Sopra tutto nell’amplissimo Epistolario, vasta è l’esultanza per tutto quello che è greco: la terra e il mare e il cielo, la lingua e i poeti, e monumenti e reliquie. In Grecia ha nelle sue radici la Bellezza, e i suoi fonti e i suoi templi custoditi dagli Dei e dalle Ninfe. La Bellezza è greca. E il Foscolo che confessa d’esser nato per far bene una cosa sola, la poesia, la respira come la luce, se ne nutre: e la passione, anzi la deificazione della Bellezza, sarà la costante della sua poesia, dai primi indizi del sedicenne che ha appena intravvisto, al canto perfetto delle Grazie dove il lume della Dea splende e trabocca: «la deità di Venere adorai». La lingua, egli la conosce come un greco e accoglie con pari commozione le parole della Dea che torna dagli oracoli di Malatunta e la benedizione in greco che la madre gli manda ogni sera. Omero gl’invade le notti e i giorni. (…) Poi quel suo dimorare a lungo nel mito e la persuasione che senza il mito non è possibile vera poesia, diventerà l’ispirazione religiosa delle Odi e delle Grazie, testimoniando che la sua grecità è cosa tutta interiore e schietta, e non frutto d’un tempo neoclassico in cui visse. Come molti intellettuali della sua epoca, si sentì però attratto dalle splendide immagini dell’Ellade, simbolo di armonia e di virtù, in cui il suo razionalismo e il suo titanismo di stampo romantico si stemperano in immagini serene di compostezza neoclassica, secondo l’insegnamento del Winckelmann. Il neoclassicismo lo trascende con la sua passione di uomo greco, che in quella letteratura trova una patria”. 

(C. Angelini, La grecità del Foscolo, in Altro Ottocento, Bologna, Boni Editore, 1973).

Alla pari di Alfieri e Dante, Foscolo venne nel Risorgimento considerato come una sorta di “vate” della Patria italiana e della sua libertà, specialmente grazie all’ammirazione per le sue idee politiche nutrita da Giuseppe Mazzini.  Ferma restando la grandezza del poeta, la glorificazione di Foscolo ad opera del nascente, o neonato, Regno d’Italia era parte della creazione di un pantheon di eroi laici per la religione civile della nuova Italia.

Gli sconvolgimenti napoleonici avevano lasciato tracce profonde tra le coscienze un po’ in tutti i Paesi ed i greci erano coscienti che la libertà di commercio, che gli Ottomani assicuravano, poteva interrompersi senza l’indipendenza e la libertà della Patria. La Grecia libera ed indipendente avrebbe garantito ai commercianti, ai marinai, agli agricoltori, ai professionisti di decidere del proprio destino. Non si trattava di una maturità politica già solida, ma i rappresentanti della ricca borghesia commerciale greca avevano acquisito la consapevolezza dei vantaggi della liberazione dalla sudditanza alla Sublime Porta. Alla Grecia guardavano con simpatia la Francia, l’Inghilterra, la Russia, tanti patrioti ed intellettuali italiani. Non mancavano vari eminenti tedeschi che nutrivano sentimenti di amicizia per il popolo greco, erede dell’Ellade classica dalla quale era nata la civiltà occidentale, a cominciare da Johann Wolfgang von Goethe, Friedrich Schiller, Friedrich Hölderlin. 

 L’embrione del movimento patriottico prese vita negli ambienti dell’emigrazione greca in Europa. Nel 1814 fu fondata ad Odessa la Filikí Etería, una organizzazione segreta a carattere cospirativo presieduta da Alexandros Ypsilanti. I primi combattimenti ebbero luogo nel 1821: l’insurrezione divampò in tutta la Grecia continentale, fomentata dall’arcivescovo di Patrasso, Germanós. Contemporaneamente aveva luogo la secessione dell’Epiro guidata da Alì Pascià. Nel 1822, quando fu emanata una Costituzione provvisoria, i turchi ripresero il controllo dell’Epiro e tentarono di ristabilire il loro dominio con il terrore. I fatti più sanguinosi ebbero luogo nell’isola di Chio, dove nell’aprile 1822 la popolazione venne pressoché sterminata, ed a Costantinopoli, dove il patriarca Gregorio V fu impiccato per rappresaglia (anche se pure i greci si erano macchiati di gravi eccidi). Eventi che sollevarono l’indignazione degli ambienti liberali; intellettuali ed esuli come Lord Gordon Byron, Santorre di Santarosa e Giuseppe Rosaroll, partirono per unirsi ai tenaci rivoluzionari ellenici che, guidati nel Peloponneso da Kolokotronis ed a Missolungi da Markos Botsaris, mantenevano importanti sacche di resistenza. La fine della guerra e l’autonomia della Grecia saranno sancite, sotto il protettorato di Francia, Gran Bretagna e Russia (che per ragioni religiose e di secolare ostilità alla Turchia sarà attiva nel processo, soprattutto a partire dalla salita al trono di Nicola I, nel 1825), con il Trattato di Pace di Adrianopoli, del 1829, e di Indipendenza con il Protocollo di Londra del 1830. Indipendenza che sarà, però, accompagnata da aspre lotte intestine.

Gianni Marocco

Gianni Marocco su Barbadillo.it

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