Sinfonia Isotta/2. Una cometa dalla scia lucente tra libri note e stampe borboniche

Giuseppe Del Ninno ricorda l'antico sodalizio intellettuale con il Maestro Paolo Isotta

Paolo Isotta

Paolo Isotta

E così, caro Paolino, anche tu mi hai giocato lo scherzo crudele che attende ognuno di noi in fondo al cammino, lo stesso scherzo giocatomi da troppi amici. All’improvviso, mi hai fatto arrivare la notizia come una freccia nella schiena: inaspettata, come la tua uscita di scena. La nostra era un’amicizia di vecchia data, con un andamento ellittico come quello delle comete: ci vedevamo, consumavamo insieme belle esperienze di libri, di cene, di gite, di visite, poi si spariva vicendevolmente gli uni agli occhi dell’altro.

Ora la tua cometa ha portato la sua coda luminescente chissà dove, in qualche remoto angolo d’universo, e chissà se e quando, e dove, e come, la tua orbita potrà incrociare la mia. La notizia della tua scomparsa ha spalancato il baule dei miei ricordi con su scritto “Paolo Isotta”; come in un film, ho rivisto quel lungo tratto di strada percorso insieme, con la mia famiglia e i nostri comuni amici.
La prima scena affiorata alla superficie della memoria mi vede a casa tua, in quel sacrario, compendio della tua esistenza: i libri, le stampe di soggetto borbonico, la scala scenografica che immette nei penetrali della dimora, la terrazza dove s’aggirano i gatti e le tartarughe, a incarnare il genius loci al quale eri devoto come a San Gennaro, nel fascinoso sincretismo che ti sei costruito negli anni; e poi la terrazza, dalla quale si apre uno spazio vertiginoso sul Golfo, e lo sguardo vola sopra Mergellina, per perdersi verso l’orizzonte.
Ricordo il sartù di riso, che io, a tua richiesta e con per me insolita spudoratezza, ti chiesi, come asse portante del nostro pranzo di amici ritrovati; quel sartù per il quale facesti apparire sulla scena la tua cuoca, affinché riscuotesse il meritato applauso. E sempre quel giorno, la gita in taxi, per i luoghi più suggestivi e meno noti al turismo di massa della nostra Napoli: San Giovanni a Carbonara, San Domenico Maggiore, l’Orientale…
L’occasione per il nostro riavvicinamento era stato l’incontro con la tua amica Lara Sansone e il suo compagno: quattro chiacchiere tra vicini di tavolo, nel ristorante sul mare di fronte al Castello Aragonese d’Ischia, dove pure eravamo stati insieme anche con Stenio, in una tempestosa giornata estiva: repentini cavalloni sotto il cielo nero e raffiche di vento ci avevano colto alla sprovvista sulla mia barchetta di legno dell’epoca, tanto che avesti ad esclamare: ” Maronna, so’ venuto a murì a Ischia!”, perché le emozioni forti facevano eclissare il tuo linguaggio forbito e barocco, per lasciar libero campo alla tua, alla mia lingua: il napoletano. Dal mare, governai un difficile approdo, per lasciarvi, tu, Stenio e la mia famiglia, al “ristorante dei Pirati”, mentre mio figlio maggiore mi aiutava a domare la barca, riportata al largo fra i marosi.
Proprio in quel ristorante, anni dopo, scoprivamo con Lara, nipote della mitica attrice eduardiana Luisa Conte, l’amicizia in comune con te: non ricordo se lei o mia moglie insistette perché ti telefonassi, e da lì ripartì un altro segmento della nostra amicizia sospesa.
E ancora, ricordo la mia visita, quando fui nominato amministratore dell’Orchestra di Roma e del Lazio, allora la terza Istituzione musicale della Capitale: avevo bisogno del tuo fattivo conforto, che tu non mi negasti, ma che poi venne meno, per motivi che scoprii anni dopo. Me ne resi conto quando mi mandasti il “pdf” del tuo straordinario “Il canto degli animali”, dove rivelavi la tua smisurata, elegante erudizione, la venerazione per i sommi – come li definivi – Ovidio, Virgilio e Leopardi, e non pochi disgusti per personaggi più o meno illustri, fra i quali, appresi, colui che era Presidente della Fondazione orchestrale di cui ero amministratore… Era dunque lo sgarbo che da lui avevi subito il motivo per cui non ti eri fatto vedere in nessuno dei concerti della “mia” orchestra.
E poi, come nel flashback di un film-opera (quell’opera che amavi), mi passa davanti agli occhi la sequenza del nostro primo incontro, decenni orsono, in occasione della presentazione nell’Aula Magna del romano Collegio del Nazareno, dove mio figlio Massimiliano frequentava il liceo, del libro collettaneo “C’eravamo tanto a®mati” (sorridemmo insieme al timido entusiasmo di uno studente, che volle stringerti la mano, quando sentì che ti presentavamo – come eri – come uno dei più illustri musicologi, categoria che lui aveva confuso con quella dei disc jockey…).
E poi le cene, le telefonate, gli scambi di recensioni… Tutta una vita che ci è scorsa fra le dita come sabbia, e che ora ha svuotato la tua clessidra. Faccio il conto degli amici che mi hanno lasciato in tutti questi anni, e la terra che abito mi sembra sempre più spopolata; ma al tempo stesso ringrazio il Cielo – e San Gennaro… – per avermi fatto il dono di quella famiglia che tu non hai avuto in sorte e che allieta le mie giornate.
Insomma, è ora di lasciarci, caro Paolino, proprio due giorni dopo che c’eravamo sentiti, tu per confermarmi di aver ricevuto il mio ultimo libro, che non potrà godere della tua recensione: un rammarico in più, ma certo non il più grande. Il rimpianto è per me quello di non aver accolto, negli ultimi tempi, i tuoi ripetuti inviti, a raggiungerti alla mensa della tua dimora di Corso Vittorio, sospesa sul mare della nostra Napoli. Riposa in pace, nella quiete dei Campi Elisi che cantasti e nella nostra memoria riconoscente.
@barbadilloit

Giuseppe Del Ninno

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