10 Febbraio. “Torturato dai partigiani comunisti e gettato in foiba, così mi sono salvato”

L'ultima intervista rilasciata da Graziano Udovisi, tenente della Milizia difesa territoriale, l'unico italiano che finì in una cavità carsica ma si salvò. Il racconto dell'olocausto di quei giorni.

Questa è la storia di Graziano Udovisi (1925-2020), nato a Pola d’Istria. Ex tenente della Milizia difesa territoriale sino al 1945 fu torturato e portato in una foiba dai partigiani comunisti jugoslavi. Pubblichiamo l’ultima intervista da lui rilasciata nel 1996, a cura di Maria P. Gianni.

«Non sono croato, ma italiano, e ne sono fiero! Nonostante quello che ho patito c’è qualcuno che sta falsamente diffondendo l’ipotesi che io sia croato a causa del cognome, solo per screditare la mia persona e la mia storia. Inizialmente il cognome di mio padre era “Udovicich”. Nel ’22 è stato cambiato in Udovisi, perché con l’avvento prima dell’Italia, poi del Fascismo, molti hanno deciso, in base ai loro sentimenti, di italianizzare i loro cognomi. Ma la prova che sono istriano è nell’h finale, tipica dei nomi della piccola penisola.»

Inizialmente, da un primo contatto con il tenente dell’esercito italiano Graziano Udovisi, oggi settantunenne (l’intervista è di 24 anni fa, ndr), è emersa una certa sua reticenza nel rilasciare l’intervista. Uno dei principali motivi è la sofferenza che prova ogni volta che racconta e rivive la sua drammatica esperienza. Udovisi è determinato più che mai a ribadire il suo amore per la Patria, il suo senso del dovere e il ricordo di oltre ventimila fratelli italiani che non ce l’hanno fatta. Quello di Udovisi è un triste diario di ricordi che fa parte di un macabro e vergognoso capitolo della storia, dimenticato da troppi.

Ancora oggi non dorme sonni tranquilli, i suoi pensieri tornano indietro, a quel terribile sabato 5 maggio 1945 (si badi, 5 maggio, ovvero dopo la fine della guerra), quando si presentò alle ore 17,30 direttamente presso il comando slavo.

Il suo senso di responsabilità lo fece intervenire per cercare di salvare i suoi sottufficiali. Niente da fare. I massacratori slavi non lo fecero neanche parlare, ma, dopo avergli chiesto solo nome, cognome e grado, gli legarono le mani dietro alla schiena col fil di ferro e lo stiparono in una cella di tre metri per quattro, assieme ad altri trenta italiani, stretti come sardine, quasi senza aria, e tutti ugualmente con le mani legate col fil di ferro dietro la schiena. Morivano di sete e, dopo imploranti richieste, ciò che è stato loro offerto è stato un fiasco colmo di urina. Seminudi, avevano solo un paio di pantaloni addosso. «Bisogna ricordare che io non parlo per me stesso» dice Udovisi, «ma almeno ventimila nostri italiani sono stati massacrati in questo modo, almeno ventimila!.»

Allora Udovisi era tenente della Milizia Difesa Territoriale, reggimento comandato da Libero Sauro, figlio di Nazario Sauro, l’eroe istriano. «Mi sono presentato insieme a un amico, che era mio ospite, proveniente dalla zona di Mantova e considerato un regnicolo, ossia un suddito del Regno d’Italia. Da sottolineare che serbi e croati, non appena occupata la zona istriana, hanno considerato slavi tutti coloro che vi risiedevano, ormai per loro non più cittadini italiani».

 

Esumazione di cadaveri da foibe in Slovenia

Ma, anche se considerati slavi, secondo il loro modo di pensare, eravate da eliminare?

«Non tutti. C’erano quelli che nel ’43 hanno immediatamente impugnato le armi per difendere la popolazione e il territorio italiano. Poi ci sono stati quelli che stavano a guardare e quelli che stavano con gli slavi. Ci sono stati anche tanti italiani che hanno infierito su di noi. Il PM Giuseppe Pititto li ha trovati e ha parlato di crimini contro l’umanità. Come sono stati perseguitati gli ebrei, e qualcuno doveva pagare qui in Italia, così italiani, croati, serbi e sloveni, tutti gli jugoslavi, cioè slavi del sud, hanno detto che eravamo noi a dover pagare, come se noi, noi singoli individui, avessimo dichiarato loro guerra».

 

Ma perché il governo italiano non ha difeso le proprie terre e si è comportato così irresponsabilmente? «Basti pensare che abbiamo un segretario del partito della sinistra triestina (PDS) che ha affermato sui giornali che negli anni ’43 ’48 il comunismo diede copertura e legittimazione alle foibe. Quindi era tutto preordinato, tutto predisposto. Il nostro sforzo di combattere gli slavi fu totalmente vano».

 

Lei aveva solo 19 anni quando è stato sul punto di morire. Se la sente di raccontare la sua storia?

«Io non sono stato catturato, ma mi sono presentato direttamente al comando slavo e non per consegnare le armi, perché ero già in borghese. Rientrato con il mio reparto a Pola di notte, nessuno sapeva del mio ritorno, tranne alcuni dei miei compagni. Non sarebbero riusciti mai a trovarmi, ma uno dei miei sottufficiali, parlando con mia madre, disse che gli slavi li stavano cercando dappertutto e chiese se potevo fare qualcosa. Capii che avevo il dovere di presentarmi al comando slavo per dire che avevo mandato la maggioranza dei miei uomini a Trieste. Solo così, forse, avrebbero smesso di cercarli. Sono intervenuto solo per salvare qualche mio soldato».

 

Ha sortito qualche effetto questo gesto di grande coraggio?

«Assolutamente no. Però, ringraziando Iddio, mi sono salvato sia io che il mio amico presentatosi con me. Lui, essendo stato considerato regnicolo, quindi abitante del Regno d’Italia, è stato mandato in un campo di concentramento, e per cercare di mantenere buoni i contatti con l’Italia lo hanno considerato prigioniero di guerra. Mentre per quel che mi riguarda, mi hanno considerato un traditore, perché ufficiale».

 

Che sentimento è rimasto in lei dopo quella tragica storia?

«L’amaro in bocca, anche perché l’Italia ha fatto ben poco per noi».

 

E poi che è successo?

«Ad un certo punto ci hanno prelevati in sei e portati in un’altra stanza per torturarci tutta la notte. Dopo mezz’ora non sentivo più nulla, avrebbero potuto anche tagliarmi a pezzettini, ma non me ne sarei reso conto. Ormai il corpo non rispondeva più ai riflessi, era inerme, e quando a un certo momento mi hanno ordinato di alzarmi in piedi, ho cercato di guardarmi intorno: il mio volto era talmente tumefatto, livido e gonfio che vedevo a malapena da due piccole e lunghe fessure degli occhi. Dovevo avere la testa rovinata. Ricordo di aver visto un mio compagno di fronte a me, la cui schiena era completamente rossa e mi chiesi per quale motivo lo avessero dipinto di quel colore, invece era tutto il sangue che stava uscendo dalle innumerevoli ferite. Se lui era ridotto in quel modo, se gli altri erano così, allora anch’io ero in quelle condizioni, ma non me ne rendevo conto. E quando ci hanno fatto alzare in piedi per portarci fuori, entrarono due ufficiali, un uomo e una donna, e lei disse che il più alto doveva stare davanti alla fila. Nessuno si mosse. Allora questo ufficiale mi prese per i capelli, mi strattonò, spingendomi davanti alla donna, la quale, senza dire una parola, mi spaccò la mascella sinistra con il calcio della pistola. Mi misero poi alla testa della fila perché ero ufficiale, gli altri erano dietro, ma l’ultimo non ce la faceva a stare in piedi. Forse perché lo avevano massacrato più degli altri, forse perché più debole; non so. Sin dal primo momento di prigionia ci avevano legato le mani dietro la schiena col fìl di ferro, per non slegarcele mai più, neanche durante le torture. Si può facilmente immaginare come quei maledetti fili taglienti avessero solcato la carne dei polsi e come continuavano a incidere sulle ferite al minimo movimento. Poi ci misero in fila e ci portarono fuori seminudi, senza scarpe. Forse il fresco della notte ha fatto in modo che capissi qualcosa di più, in quanto la testa era completamente imbambolata, il cervello funzionava relativamente. A quel punto altri soldati, ben vestiti, ci portarono fuori, nel bosco, non erano quelli che ci avevano torturato. Dovevano essere dei militari, qualcuno della banda d’accordo con loro e anche borghesi, partigiani comunisti, erano tutti contro di noi. Ci hanno disposti in fila l’uno dietro all’altro, sempre con le mani dietro la schiena e ulteriormente legati insieme tramite un filo di ferro che scorreva sotto il braccio sinistro di ognuno, per formare una fila dritta, fino ad arrivare all’ultimo che, non avendo la forza di stare in piedi, essendo svenuto a terra, era stato legato non al braccio, ma intorno al collo. Ricordo di aver sentito suggerire da due che parlavano in italiano, nel nostro dialetto, di legarlo attorno al collo. Sicuramente durante il tragitto l’ultimo è morto soffocato dal filo che ci legava l’un l’altro. Abbiamo camminato per un viottolo, non so per quanto tempo, ero distrutto e il fil di ferro che mi univa ai compagni era una tortura. Appena riuscii a farlo scorrere leggermente lungo il braccio, fino al polso, mi sembrò un sollievo. In quel momento sono scivolato e caduto. Immediatamente mi è arrivata una botta con il calcio di una mitragliatrice al rene destro. A causa di ciò ho subito tre operazioni al rene, che da quel momento ha sempre prodotto calcoli».

Quante altre conseguenze ha avuto?

«Tante. Non solo sono stato leso in modo tale da essere sordo all’orecchio sinistro e al destro ci sento per metà. Ma dal tragitto di trasferimento da Pola fino a Fianona me ne hanno fatte di tutti i colori: mi hanno fatto mangiare della carta, dei sassi, mi hanno sparato vicino alle orecchie. Si divertivano tanto a vederci sobbalzare. Mi hanno accompagnato verso un posto e ci hanno detto: “Fermatevi. La liberazione è vicina”. Dentro di me ho mandato un pensiero al Cielo. Ho guardato dentro alla foiba, ma non vedevo niente, perché era mattina presto. Giù in fondo si scorgeva solo un piccolo riflesso chiaro. Si sono tirati indietro e quando ho sentito il loro urlaccio di guerra mi sono buttato subito dentro come se questa foiba rappresentasse per me un’ancora di salvezza. Dopo un volo di 15-20 metri, non lo so, sono piombato dentro l’acqua. Venivo trascinato sempre più giù e mi dimenavo con tutta la poca forza rimasta in corpo. Ad un certo momento, non so come, sono riuscito a liberarmi una mano. Ho immediatamente nuotato verso l’alto e ho toccato una zolla con dell’erba, era in realtà una testa con dei capelli. L’ho afferrata e tirata in modo spasmodico verso di me e sono riuscito a risalire, ringraziando Iddio. Ho salvato un fratello».

Questa persona dov’è ora?

«È andato in Australia e, purtroppo, è morto. Però ha lasciato la sua testimonianza. Ha lasciato l’Italia perché qui non trovava lavoro, non trovava più pace. Ha sofferto per la lontananza dalla sua terra e per le torture subite».

Graziano Udovisi è l’unico sopravvissuto agli infoibamenti che sconvolsero l’Istria negli anni 1943-1945. La nostra speranza è che le sue parole giungano anche alle coscienze dei più sordi.

Maria P. Gianni

Maria P. Gianni su Barbadillo.it

Exit mobile version