Da Fiume alla rivoluzione antisnob, Mario Carli l’ardito “dimenticato”

Dalla trincea al fascismo passando per Fiume: tutte le tappe della vita e dell'opera di un rivoluzionario conservatore

“Volontarismo. Sdegno del tran-tran mediocre, in cui non si rischia né si guadagna troppo. Passione per l’emozione, per il pericolo, per la lotta. Personalità, iniziativa, fantasia, accortezza di animale predace […] Tutti gli slanci, tutte le violenze, tutte le impennate di cui trabocca l’anima italiana”: se volessimo abbozzare una descrizione di ciò che Mario Carli significò per il sostanziarsi della Rivoluzione Conservatrice italiana, potremmo limitarci a queste poche righe. Ma la sua figura di futurista, ardito, legionario fiumano e poi fascista ribelle, inviso a parrucconi e cicisbei di regime, esige una più attenta analisi. Incontro di pensiero-bellezza-azione, eretico per ortodossia, Carli fu certamente uno degli intellettuali più affascinanti ed eclettici del primo Novecento e segnò, con il contemporaneo delinearsi della sua azione politica e sociale, l’evoluzione che coinvolse la nostra Italia negli anni che oscillano tra la Grande Guerra e l’instaurazione del regime fascista. Alimentò con posizioni mai convenzionali il fronte nazional-rivoluzionario, tentando nel dopoguerra di fertilizzare un terreno di lotta comune tra i movimenti avanguardisti; contro la panciuta e fiaccata società liberalborghese -in una nuova osmosi tra destra e sinistra- pensò all’ardito-futurista, forgiato dal sangue delle trincee e dal furore del movimento marinettiano, come esemplare traghettatore della nuova alba. Tra prigioni e punizioni disciplinari, deciso a rappresentare il legionarismo “di sinistra” nella Fiume dannunziana, seguì e appoggiò il Poeta nell’Impresa per il consolidamento della rivoluzione nazionale, poi stroncata a Rapallo dal grigiore burocratico della classe dirigente giolittiana; ma non avrebbe comunque frenato la sua spinta propositiva, pur cercando altre e originali sintesi per raggiungere esiti differenti rispetto a quelli che precedentemente l’avevano ispirato. E si allineava così, con una netta “virata” a destra, al nascente regime mussoliniano: sul modello dei fasti latini, abbandonato quel sovversivismo che sapeva di sindacalismo rivoluzionario, idealizzò in un nuovo Impero l’egemonia culturale dell’Italia sulle altre nazioni. Insomma: Mario Carli, che ci apprestiamo a descrivere, attraversò col fascino dell’esteta e la violenza del combattente i principali avvenimenti del primo dopoguerra italiano. Ed oggi        -contro la stigmatizzazione delle idee e la partigianeria a priori- è più che mai necessario attingere a quel fuoco di italianità, di anticonformismo e di pretese rivoluzionarie che Carli straordinariamente personificò.

 

GLI ESORDI TRA FUTURISMO POLITICO E ARDITISMO GUERRIERO

Originario di San Severo di Foggia in Puglia, dove vide la luce il 30 dicembre 1888, Mario Carli sperimentò e accolse il dinamismo vitalistico dell’avanguardia futurista nascente negli ambienti fiorentini: tra le pagine de “La difesa dell’arte”, “Il centauro”, “La rivista”, dove scriveva, prese forma quel gruppo di intellettuali  -con protagonisti Settimelli e Corra- che avrebbe dato impulso alla nascita de “L’Italia futurista” (1916-1918), epicentro del nuovo movimento incendiario che dal ribellismo delle forme espressive si amplificava in rivolta non soltanto artistica ma anche spirituale ed esistenziale. E Carli rappresentava il vertice di questa rivolta che la nuova generazione muoveva contro la vecchia società ingessata e imbellettata dalle conquiste della modernizzazione capitalistica di quegli anni; in bilico tra il patriottismo più esasperato e il solidarismo comunitarista, convogliava nella sua figura le aspirazioni e le rivendicazioni avveniristiche di una multiforme classe di ribelli insoddisfatta tanto della vecchia società liberalgiolittiana quanto della prefigurazione ostile del livellatore egualitarismo socialista. Con Marinetti partecipò alla campagna interventista e dopo il 24 maggio coerentemente si arruolò volontario, relegato però in Avellino a compiti amministrativi per una severa miopia. Che non annichilì comunque la voglia di trincea: si sarebbe aggregato nel 1917 al neonato corpo degli Arditi, guadagnando sul campo il grado di capitano; oltre che una ferita alla mano, una medaglia d’argento e la croce di merito. L’arditismo, di cui Carli fu mirabile testimone, diveniva così consolidamento guerriero dei presupposti politici e sociali introdotti dal movimento marinettiano; l’ardito era il soldato politico, il futurista di guerra. La tensione estetica, che già aveva attraversato il primo impegno letterario con il romanzo Retroscena (Firenze, 1915) e le prose liriche di Notti filtrate (Firenze, 1918), esplodeva violentemente nella raffigurazione romantica e passionale del nuovo idealtipo di guerriero partorito nelle tempeste della Grande Guerra: “Scugnizzo vestito di sole, che s’arrampica sul palcoscenico del mondo, squarcia il velario del futuro, fa crollare a caramboli le scene di cartapesta, insolentisce gli aristocratici delle barcacce, prende a pernacchi i palchi dorati, e torna a squarciare la notte con lo schianto dei suoi canti guerrieri”: così si presentava l’ardito-futurista, con un pugnale tra i denti e una bomba alla mano. Le esperienze patite nel fango delle trincee sarebbero state poi recuperate in Noi arditi (Milano, 1919; ristampato da Edizioni ETS nel 2019) e in Arditismo (Roma, 1929; ristampato da Edizioni Ritter nel 2011), oltre che nel romanzo di guerra Il mio cuore fra i reticolati (Milano, 1933; ristampato da AGA Editrice nel 2014).

Tuttavia l’esuberanza della nuova aristocrazia guerriera, indocile e scapigliata, alimentò tra gli alti vertici militari la preoccupazione di veder nascere in poco tempo una milizia paramilitare: entro il mese di novembre, veniva proclamato lo scioglimento del corpo d’armata d’assalto e alcuni mesi successivi, tra gennaio e febbraio 1919, veniva smobilitata la seconda divisione d’assalto insieme con i reparti indivisionati; la prima divisione rimaneva invece in servizio, inviata in Libia senza compiti operativi.

 

“ROMA FUTURISTA” E L’ASSOCIAZIONE ARDITI

 

Ad agosto del 1918 il capitano degli arditi, in una lettera a Marinetti, sottolineò la necessità di ravvivare il movimento per la materializzazione delle pretese politiche futuriste, volte al “rinnovamento degli spiriti e delle coscienze”: centro di irradiazione del magmatico blocco di idee e officina della sempre più febbrile e dinamica avanguardia italiana, su impulso di Carli, Marinetti e Settimelli, “Roma futurista” usciva per la prima volta a settembre e si proponeva come laboratorio politico rivoluzionario.

Già il primo numero della rivista accoglieva il “Primo appello alle Fiamme” che Carli indirizzò alle truppe d’assalto, propiziando il consolidamento di una piattaforma ideologica che potesse incanalare la sfida simultanea lanciata dall’arditismo contro il socialismo pacifista e il liberalismo snobista, in un nuovo ideale di rivolta antiborghese: alcuni mesi dopo, a gennaio, creava a Roma -successivamente al “Secondo appello alle Fiamme”- l’Associazione fra gli Arditi d’Italia; e l’11 maggio 1919 fondava con Ferruccio Vecchi “l’Ardito” dove mistica guerriera e anticonformismo si intrecciavano in un quadro magmatico che oscillava tra rivoluzione e conservazione, tra anarchismo e nazionalismo.

In questa nuova prospettiva si inseriva l’articolo “Arditi, non gendarmi!” con cui Carli rispondeva al Ministro della Guerra Caviglia che, in quegli stessi giorni, dopo l’incendio dell’ “Avanti” socialista operato da arditi e nazionalisti, aveva diramato una circolare nella quale sosteneva la possibilità di disciplinare quei reparti per un valido ausilio alla forza pubblica: il capitano rispondeva rivendicando l’autonomia della sua milizia, ed escludeva ogni tentativo di subordinazione alle forze dell’ordine (la diffusione del giornale, accusato di “bolscevismo”, sarebbe stata poi vietata nelle caserme).

Mentre si andava solidificando l’alleanza tra futurismo e fascismo, Carli fondava a Roma il fascio futurista romano; ne avrebbe lasciato la guida quando, in seguito a un infuocato comizio che aveva tenuto in favore di Fiume e Dalmazia, fu trasferito al deposito di fanteria di Cremona. Erano questi gli anni di febbrile dinamismo politico italiano che permisero a Carli di riversare nel dibattito ideologico nazionale la sua feconda irrequietezza: un vecchio mondo stava per tramontare definitivamente a favore di un altro; e una gioventù ribelle e frenetica tentava di costruire e consolidare -non senza contraddizioni- un’azione fascinosa e poetica, del tutto nuova e lontana dalle logorate categorie politiche sino a quel momento predominanti. Fu in questo clima di instabilità e disorganicità che Carli propose una tribuna comune tra i partiti e i movimenti da lui considerati rivoluzionari e avanguardisti. Non si risparmiò le critiche di Mussolini quando, a tal proposito, suggerì una collaborazione tra fascisti, futuristi e arditi con socialisti, riformisti sindacalisti e repubblicani. E segnalava così gli elementi di convergenza alla sinistra: “Noi siamo libertari quanto gli anarchici, democratici quanto i socialisti, repubblicani quanto i repubblicani più accesi […] non abbiamo nulla a che fare con i nazionalisti reazionari, codini e clericali”.

 

L’ESPERIENZA FIUMANA E ‘’LA TESTA DI FERRO’’

Intanto Mussolini si mostrava sempre più prudente e deciso a percorrere la via istituzionale, tentando di tessere un’alleanza con le destre che potesse risolvere la questione monarchica. Con un attendismo, però, profondamente contrario allo spirito infiammato di Carli: si consumava in questo modo, in contemporanea alla frammentazione dell’alleanza tra futuristi e fascisti, il dissidio tra il capitano degli arditi e il capo del fascismo. Ma sarebbero state le entusiasmanti vicende di Fiume a regalare a Carli una nuova prospettiva d’azione, dove sindacalismo rivoluzionario e suggestioni nazionalistiche si sarebbero sposati in una originale combinazione ideale di rinnovamento spirituale. “La vecchia antitesi fra vita e sogno, fra realtà e poesia, fra buon senso e immaginazione, è stata finalmente sorpassata. I due termini si possono considerare fusi e sovrapposti. Tutti gli artisti, tutti i moderni, tutti i geniali possono lanciare con me il loro alalà più giocondo”: l’inquieto e irriverente capitano contemplava finalmente la realizzazione della vita-festa tanto agognata e propugnata fino a quel momento dall’arditismo politico e dal futurismo più acceso; l’estetismo armato, cantato da una generazione di pionieri e combattenti, trovava la sua materializzazione nella Fiume dannunziana in una sublime tensione lirica che abbracciava insieme realtà e idealità.

Fuggito dalla fortezza di Cremona -dove stava scontando una condanna a tre mesi- non tardò a raggiungere il Poeta nella città occupata; si erano già recati lì Marinetti e Vecchi, ripartiti quasi subito a causa di alcuni attriti con l’ala più cauta del Comando. A Fiume, infatti, si respirava incessante il contrasto tra l’anima virtuosa e legalitaria e quella ribelle e scapigliata. E sarebbe stato proprio Carli, mentre organizzava il fascio futurista fiumano, a rappresentare quest’ultima con vigore ed energia negli articoli elettrici de “La Testa di Ferro”, settimanale pubblicato a partire da febbraio del 1920, che ospiterà -tra le altre- le firme di Kochnitzky, Furst, Comisso, Somenzi e Margherita Keller (cugina di Guido Keller, meglio conosciuta come “Fiammetta”). Cuore del fiumanesimo e avamposto della sinistra legionaria, il giornale prendeva il nome

-come racconta Giordano Bruno Guerri- dalla celebre arringa che D’Annunzio pronunziò il 30 settembre 1919 contro Nitti nella quale contrapponeva la sua dura calvizie ai capelli “fissati dal cerotto” dei vecchi politicanti: “Se da stasera e per sempre il nemico lucano si chiama Cagoia, tutti gli italiani di Fiume si chiamano Teste-di-Ferro”; questa proclamazione avrebbe anche ispirato la consuetudine degli aviatori, guidati da Keller, di radersi la testa a zero e di spargere i capelli durante il primo volo (ribattezzandosi “teste di ferro”).

Carli invocava la rivoluzione sul modello della Città di Vita, germoglio della nuova Italia e fulcro della rinascenza mondiale: sostenendo il lavoro dell’Ufficio Relazioni Esteriori (URE), diretto da Kochnitzky, auspicava la nascita della “Lega di Fiume” come libera associazione internazionale per quella che doveva essere una nuova autodeterminazione dei popoli contro ogni organizzato “trust” sopraffattore e contro il nuovo ordine plutocratico, risultato degli accordi di Versailles. Sulla scia di queste vibranti affermazioni, Carli non nascondeva una controversa suggestione per la Russia dei Soviet e per il movimento bolscevico; ne rievocava la febbre sovversiva e il carattere rivoluzionario che non coincideva affatto, scrisse, con l’inerme e sfibrato socialismo italiano, continuando: “Tra Fiume e Mosca c’è forse un oceano di tenebre. Ma indiscutibilmente Fiume e Mosca sono due rive luminose. Bisogna, al più presto, gettare un ponte tra queste due rive”.

 

LA ROTTURA CON MUSSOLINI E LA FINE DELL’IMPRESA

Nel frattempo il fascismo gettava la maschera e si rivelava inequivocabilmente un movimento di destra; Carli, di contro, all’inizio del 1920, poneva l’Associazione fra gli Arditi d’Italia sotto la presidenza onoraria di D’Annunzio che avrebbe inevitabilmente contribuito a consolidare e definire l’apparato rituale del fenomeno combattentistico; questo avrebbe anche orientato, nei mesi dell’Impresa, la costruzione dell’impianto identitario dei suoi legionari. La sezione arditi di Milano, fondata da Vecchi a gennaio del 1919, rimase invece fedele a Mussolini che avrebbe continuato a finanziarla. La rottura era ormai prevedibile: si sarebbe definitivamente avverata dopo il secondo congresso dei Fasci del 24 e 25 maggio quando il capo del fascismo, sancita la linea istituzionale del movimento, provocò le dimissioni dal comitato centrale di Marinetti e Carli (entrambi avevano partecipato all’adunata sansepolcrista).

La permanenza di Carli a Fiume, inoltre, diventava sempre più sgradita agli “innumerevoli elementi della vecchia Italia, della vecchia mentalità tradizionale” che inquinavano l’azione rivoluzionaria del Comando con quello stesso carrierismo e affarismo con cui avrebbero rinnegato la Causa dopo la firma del Trattato di Rapallo; nel giugno del 1920, infatti, Carli fu costretto a trasferire la sede del giornale a Milano. Alla vigilia dei bombardamenti sulla “Città Olocausta”, e ridotto ormai all’isolamento politico, avrebbe poi organizzato con alcuni anarchici un’azione terroristica programmata per il 28 dicembre: bisognava far saltare con un ordigno esplosivo la centrale elettrica di Milano per lasciare il capoluogo lombardo al buio e stimolare una rivolta in favore di Fiume; il piano tuttavia fu sventato e Carli -dal 21 dicembre al 12 gennaio- fu rinchiuso in prigione. L’esperienza volgeva irrimediabilmente al termine, ma il capitano degli arditi non avrebbe abbandonato il Poeta neppure dopo il Natale di Sangue; e “La Testa di Ferro” sarebbe stata pubblicata fino a marzo del 1921. Ad evocare la passione civile e politica, condensata in una irrefrenabile ansia di rigenerazione morale, sono il romanzo Trillirì (Piacenza, 1922; ristampato nel 2013 da AGA Editrice) e gli scritti riproposti in Con D’Annunzio a Fiume (Milano, 1920; ristampato nel 2013 da AGA Editrice). Entrambi infatti testimoniano l’eroismo disinteressato di quella gioventù scanzonata che, tra istinti rivoluzionari e slanci ideali, si raccolse nella Città di Vita per pensare una nuova e più bella realtà.

“Prima ancora di vedere Gabriele D’Annunzio, e di firmare il giuramento stampato nell’Ufficio che accoglieva i volontari”, scrisse Carli, “io giurai fedeltà a Fiume italiana, e a questo giuramento ho la coscienza di non essere mai venuto meno”.

 

“OLTREPASSARE IL FUTURISMO”: LA SVOLTA A DESTRA

Nell’agosto del 1920, alcuni mesi prima la fine dell’Impresa, il giornale del fiumanesimo aveva pubblicato “Al di là del comunismo”, un importante manifesto con cui Marinetti -come sottolinea Claudia Salaris- sanciva il ritorno del futurismo nell’alveo degli interessi esclusivamente artistici; ed esaltava, pur rallegrandosi dell’assonanza tra futuristi russi e rivoluzione bolscevica, la vita-opera d’arte contro il comunismo livellatore e mediocrista non adatto allo spirito individualista e creativo degli Italiani. Anche “Roma futurista”, dopo la sconfitta alle elezioni del 1919 in cui Marinetti aveva affiancato Mussolini nel “blocco Thevenot” (non a caso la lista, frutto dell’alleanza tra futuristi, arditi e fascisti, prendeva il nome da una famosa bomba a mano utilizzata nella Grande Guerra), si presentava a partire dal primo numero del 1920 come una testata di interesse esclusivamente artistico e letterario. Il capo del futurismo avrebbe poi confermato il suo allontanamento dalla politica attiva nel 1921, quando presentava a Parigi nel manifesto del “Tattilismo” l’invenzione di una nuova arte imperniata sulle esperienze e sugli stimoli tattili. Carli confessò il suo disaccordo rispetto alla svolta del movimento in una lettera spedita a Marinetti poco dopo la presentazione del Tattilismo: anche lui, come Settimelli, si apprestava ad abbandonare e a superare il futurismo. Nel frattempo, in un clima di fervido movimentismo politico che avrebbe permesso al capo del fascismo di radicarsi nelle stanze del potere, Carli -insieme allo stesso Settimelli- preparava la sua adesione al nascente regime: profondamente influenzato dalla lettura machiavelliana, abbandonate le pregiudiziali repubblicane, fondava infatti il 21 aprile del 1922 “Il Principe” con la volontà di radicalizzare le rivendicazioni mussoliniane per lo svecchiamento e il rinnovamento dell’Italia; in questi termini e secondo queste ambizioni, le idee inscrivibili nell’area del socialismo nazionale e dell’interventismo di sinistra furono accantonate in funzione monarchica e imperialista (attorno alla rivista si sarebbero raccolti altri transfughi futuristi tra cui Volt, Mario Dessy e Bruno Corra).

 

L’ULTIMO CARLI: “L’IMPERO”

 

“Il Principe” avrebbe esaurito la sua funzione con l’assestamento definitivo del regime; bussola del fronte fascista antiborghese, con l’ambizione di rigenerare la fittissima costellazione ideologica che aveva attraversato i fogli di “Roma futurista”, “L’Ardito” e “La Testa di Ferro”, veniva pubblicato l’11 marzo del 1923 il primo numero de “L’Impero”. E Il 25 aprile successivo, Carli e Settimelli, promotori del giornale, insieme al ricongiunto Marinetti firmavano il manifesto de “L’Impero italiano” in cui rivendicavano per la Penisola il “diritto di governare il mondo” e per il popolo “tutte le libertà tranne quella di essere vigliacco”. Tra i fogli del quotidiano politico (raccolti nel volume Fascismo intransigente nel 1926, riproposto da Società Editrice Barbarossa nel 2007), Carli celebrava il superamento dell’egoistica concezione partitocratica, “sempre insufficiente di fronte ai grandi momenti e alle grandi apparizioni della storia”, in virtù della più nobile aspirazione a una “Patria più forte, più grande e prosperosa”; e contro le spinte disgregatrici delle ambizioni personalistiche riversava nel Sovrano l’incarnazione unitaria dello Stato. Immaginando un “Impero mediterraneo pacifico e luminosamente civile”, consegnava all’Italia il primato latino che si spiegava in un’egemonia culturale e diplomatica sulle altre nazioni: “Non gli ipocriti pretesti di Albione, né il cinismo brutale dei fulvi Germani, e nemmeno il tremebondo dispotismo di una Francia dissolventesi. Ma l’equilibrata saggezza ereditata dai Romani, ma il senso di umana giustizia che la Chiesa Cattolica ci ha profuso nei venti secoli di sua civiltà […] Questo sarà il nostro Impero”.

Di carattere irriverente e “intransigente”, la rivista denunciava aspramente le scorie liberali del vecchio mondo e non lesinava critiche a certe fiacchezze del regime mussoliniano, proponendosi come fulcro culturale del fascismo che stava al contrario volgendo lo sguardo verso elementi e soggetti distanti dallo spirito diciannovista ed eretico degli esordi. Ed è in quest’ottica che Carli si oppose a Gentile e ai suoi retaggi politici in occasione della compilazione del “Manifesto degli intellettuali fascisti” il quale altro non era, per il capitano degli arditi, che un “manualetto da propaganda” straripante di luoghi comuni e privo di quella sensibilità propria di chi aveva vissuto e idealizzato -al contrario degli accademici e dei dogmatici- gli avvenimenti di quegli anni.

Altrettanto significativa e degna di nota fu la sollevazione antisnobista (confluita nel 1929 nel volume Antisnobismo, riproposto nel 2020 dalla casa editrice Aspis) che, tra i fogli de “L’Impero” e di “Brillante” (rivista romana pubblicata tra il 1927 e il 1929), fustigò i vizi degeneri della mondanità senza tuttavia scadere nel moralismo artificioso e pedantesco: dopo il consolidamento dell’assetto politico fascista, bisognava per Carli plasmare il “regime mondano” sul modello dell’Italiano nuovo; contro ogni genere di esterofilia, di ibridismo o di putrefazione spirituale. E bisognava in tal senso riformare quell’aristocrazia slombata e imborghesita per riconsegnarla alla sua tradizionale, e allo stesso tempo fondamentale, funzione sociale.

Agli inizi degli anni ’30, consumatasi anche la spinta propulsiva de “L’Impero”, Carli avrebbe diretto “Oggi e Domani” (1930-1932) sino a quando, nominato console generale in Brasile, si recò a Porto Alegre dove tentò di lanciare un nuovo giornale; il progetto non si concretizzò: fu trasferito a Salonicco e qui si trattenne per circa un anno, dal 1934 al 1935. Colpito da un male incurabile fece rientro in Italia; si sarebbe spento a Roma il 9 settembre 1935.

Scrisse l’ardito Piero Bolzon: “Che Carli dovesse morire di morbo lento è terribile, è pena, cui non so tuttora adattarmi. Solo una fine eroica, che gli fallì, sarebbe stata degna di così eccezionale giovinezza”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Domenico Pistilli

Domenico Pistilli su Barbadillo.it

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