“Cabala di un amore perduto”, il romanzo di Eros Damasco

Un thriller fantasy tra i vicoli napoletani del Seicento e le megalopoli americane di un’epoca futuribile

Un città futuribile nella quale potrebbe essere ambientato il romanzo di Damasco

Pubblichiamo l’estratto del romanzo “Cabala di un amore perduto” di Eros Damasco, edito da Fallone: per la potenza narrativa dell’autore, si tratta di un libro da non perdere

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E finalmente in una stanza attigua senza mobili, ma con un’unica sedia girevole al centro sulla quale era montata con bracci semoventi una sorta di binocolo o ingranditore, centinaia di foto alle pareti. Franz Kampf si sedette come doveva fare per lunghe ore il professor Dyck, impugnò l’apparecchiatura e cominciò a puntare l’obiettivo sulle foto che s’ingrandivano verso una microscopia sorprendente e graduabile. In ognuna di esse, in serie sterminata, per varianti, era ritratta Mary Jane Oldred, moglie e amore unico del professore, che doveva essere stata in qualche modo l’emblema di tutta la femminilità del mondo.

Ora Franz Kampf la scrutava, approfondendola nelle risonanze che i suoi grandi occhi emettevano per ogni nuovo posizionamento del binocolo. Come se potesse vedere di essere vista. Forse perché in bianco e nero o forse perché coperta dalla filigrana del tempo non più reversibile, dovette sembrargli bellissima.

Gli parve bellissima. Le labbra sensuali che serravano una dentatura di perle d’avorio quando erano appena slargate a mostrare un sorriso accennato, le ciglia disciolte nell’atto d’attesa.

La copertina di “Cabala di un amore perduto” di Eros Damasco

Ora la vedeva ravvicinata in interni, ora ritratta in salotti seduta su poltrone di velluto porporino mentre incrociava le gambe, ora in lontananza. Da lontano sembrava ancora più bella. La vedeva in una piazza ora, una piazza europea forse, c’erano monumenti rinascimentali forse. Sorrideva da lontano. Ingrandì. E vide. E vide occhi esatti di un momento esatto in cui ogni cosa sembrava avere il tempo e lo spazio giusti per dirsi perfetto. Ora lo guardava. Franz Kampf non aveva dubbi. Lo guardava. Squarciava indissolubilmente quel tempo passato tra il momento del flash e il momento di quell’ispezione. Come se lo avesse atteso. Franz Kampf ne era certo. Lo stava guardando. Lo guardava come se l’avesse atteso per anni o secoli.

Cercò di distrarsi perché, per la prima volta nella sua seconda esistenza, fu preso da un tale sentimento incoercibile di nostalgia e da un afflusso di pensieri, sensazioni e reminiscenze tali da fargli sussultare il cuore. A lui, il freddo sofista degli omicidi, l’inesorabile arciere, incubo delle cronache nere d’alto rango nel mondo della politica internazionale.

Durò un attimo. Riuscì a distrarsi, infatti. Anzi, si alzò e proseguì a perlustrare. Cucine, stanze da letto con materassi idraulici o sostenuti forse da gas inerti con l’ausilio di leve elettroniche, bagni con piscine per rilassamento elettromagnetico e bioenergetico, monitor ovunque forse ancora funzionanti, appunti scritti su carta vegetale sparsi in ogni dove a testimonianza della passione che Dyck nutriva per le anticaglie.

Scese allora ai laboratori, attraverso discensori ancora utilizzabili. A ogni metro che percorreva gli parve di scendere nelle regioni più invalicabili della sua anima. Arrivò in fondo. E vide sin da subito i resti della sua prima effrazione. I macchinari, che lo avevano tenuto sveglio macinandolo nella speranza della seconda vita, nutrito d’immagini aberranti, erano rimasti spalancati come lo dovevano essere nel lontano pomeriggio della sua liberazione. Sembravano bare con catene d’apparecchiature elettroniche collegate ai monitor dell’attesa. Ancora macchie di sangue in grumi sul pavimento, rimasugli della strage. Un odore troppo penetrante di vuoto impossibile gli riempiva le narici.

Lo spettacolo della sua seconda nascita lo atterriva. Adesso Franz Kampf, per quanto sembri strano, è atterrito. Sgomento. Quello che stava cercando non era qui, forse. Eppure quello doveva essere stato il suo primo ricordo sulla terra, respirando l’ossigeno espanso sin dalla ionosfera fino agli strati più densi del livello del mare. Da qui doveva essere uscito, oltre tutte le vicende della sua prima vita inquieta nella quale aveva fatto invocare la morte repentina agli assaltati dalle sue bande sugli Appennini dell’Italia centrale che non quell’altra agonia della lentezza dei prigionieri dei briganti.

Una macchina della quale ignorava il funzionamento lo aveva ricucito fin nelle trame più insondabili del suo organismo fatto di tendini, tessuti cartilaginei, cuore e polmoni, che si dicevano ormai indistruttibili o quasi.

Ma lui non sapeva, non poteva ricordare più di tanto, se non per sentieri subito interrotti quella sua prima giovinezza fatta d’inseguimenti nei vicoli di Napoli, di vagabondaggi sul lungomare, di pesche la mattina tra gli scogli. Continuò a passeggiare. Arrivò infine nell’ultima stanza che ancora non aveva perlustrato ed era una stanza in qualche modo più grande e tenuta in gran ordine. È in quella che finiscono quasi tutti i filmati a disposizione della Casa Bianca, tranne uno che abbiamo ancora ma che molti critici dicono apocrifo: Franz Kampf vede in fondo alla parete una sorta di gigantesco obiettivo, un cerchio di metallo chiuso da una sorta di coperchio. Si avvicina, essendone irresistibilmente attratto. Lo manovra e riesce ad aprirlo. Gli si spalanca uno spettacolo incredibile. Si accendono le luci all’interno dell’ulteriore stanza immensa sulla quale si affaccia quella sorta di finestra. Era la bara al ghiaccio chimico di Mary Jane Oldred, costruita e voluta dal professore affinché la stessa tornasse un giorno a godere dei raggi del sole, ma soprattutto perché tornasse a innamorarsi di lui, di te che sei l’unico amore della mia vita.

Si accesero luci potentissime che rischiaravano tutto lo spazio interno e che per pochi minuti, fin quando non si spensero automaticamente a causa del rischio di alzare la temperatura prossima allo zero assoluto, permisero a Franz Kampf di vedere uno spettacolo incredibile.

Avvolta da fumi ghiacciati, galleggiante a causa di congegni antigravità, forse, veleggiava il cadavere intatto della moglie del professore. E a Franz Kampf, a vederla adesso, parve ancora più bella che nelle foto appese alla parete nel piano di sopra.

Mary Jane volteggiava attorno a un centro di gravitazione non visibile come una sirena in un acquario. Ogni tanto si avvicinava a quella specie di oblò che era il pertugio grande dal quale Franz Kampf la osservava. Poi ridiscendeva verso gli abissi della sua morte. Risaliva di nuovo come se stesse galleggiando in una danza imeneica. Sembrava che agitasse le mani a causa delle correnti che si formavano, le braccia come se nuotasse. Aveva gli occhi aperti e di un colore indimenticabile. I capelli, a dispetto della morte, parevano aver continuato a crescere e a ogni giro facevano una scia di filamenti come comete meravigliose o ellissi periodiche di una qualche costellazione. Avvolta nella nebulosa di ghiacci fumosi e già morta, ma comunque irraggiungibile, per quanto egli tentò a più riprese e con tutte le sue forze, ma inutilmente, di rompere quella porta, quel congegno, che poteva essere riaperto solo dal professor Dyck, la bellissima Mary Jane si estinse dopo poco tempo a causa dei deflettori che si spensero e che si sarebbero potuti riaccendere chissà quando. Del resto lo stesso Dyck la sorvegliava nei sonni placidi della morte attraverso altri congegni che non usavano neanche i raggi infrarossi bensì la captazione del rilascio di una scia sottilissima di neutrini che era ricostruita a freddo e con una tecnica assomigliante a quella che nello spazio fisico è definito replay.

Franz Kampf si lasciò andare a una sorta di sonno d’arresa che faceva il pari con l’anamnesi interrotta o riaccesa da improbabili inferenze. La testa tra le braccia, così viene riconosciuto nelle registrazioni delle microspie della Casa Bianca, e forse piangente.

Un’ora, non di più. Poi scompare dai filmati. Si alza e si allontana. Viene seguito per un paio di minuti ancora. Fin quando una furia distruttiva non lo investe e comincia a rompere ogni sorta di macchinario di suppellettili chimiche degli esperimenti di Dyck. Disintegra ogni cosa abbia a portata di mano, forse in preda a una sorta di follia dell’amore o del ricordo. È l’ultimo fotogramma a disposizione, nonostante sia stato considerato un falso da molti.

Poi si vede che sparisce. Che s’inoltra in una specie di corridoio appena apertosi nel laboratorio, forse a causa di una qualche manovra involontaria compiuta durante quei movimenti concitati. Sembra al rallentatore, condensato in un’ansa di sospensione. 

Un corridoio e la sua ombra che si allontana. 

Nessuno lo avrebbe più rivisto. 

 

L’opera

Ambientato tra i vicoli napoletani del Seicento e le megalopoli americane di un’epoca futuribile, Cabala d’un amore perduto di Eros Damasco si presenta come un thriller fantasy, arricchito da un connubio tra elementi stilistici classici e postmoderni.

Un romanzo, diviso in tre parti, nel quale il rapporto tra eroe e antieroe viene completamente ribaltato, a favore di una visione sulle zone in penombra della morale e della memoria, sull’artificio della felicità e sulla fatalità a cui conduce barattare l’amore col potere.

Un romanzo nel quale la dimensione temporale viene boicottata in favore di una linea spaziale, arcaica quanto ipertecnologica, mediante la quale si sviluppa una riflessione sul dolore per la perdita come stato ontologico dell’uomo, in un tempo sospeso senza dèi, senza Dio. 

 

L’autore

 

Di Eros Damasco si sa poco, se non pochissimo. Nato probabilmente a Il Cairo agli inizi degli anni Sessanta, ora risiede in Italia, pare nelle Puglie, forse a Santa Maria di Leuca.

Ha un passato poco edificante, trascorso tra vita spericolata e gioco d’azzardo. Poligamo ed eclettico, ha tentato la restaurazione di un antichissimo ordine monastico paracristiano. Una sola foto, ormai irrintracciabile, lo descrive dopo una sbronza con un sorriso sardonico perso tra la galassia del flash. Della costellazione non numerabile dei suoi scritti si dà qui l’inizio.

 

Nota redazionale

 

Eros Damasco ha voluto concederci, tra i tanti suoi manoscritti, Cabala d’un amore perduto a patto di non doversi mostrare mai e di non chiarire alcuni aspetti della sua biografia. 

Dispone di un portavoce ufficiale che presenzierà in sua vece a tutte le manifestazioni pubbliche e lo rappresenterà in toto, essendo tra i pochissimi a conoscere la sua vera identità e la sua vita privata.

Chi volesse contattarlo direttamente, potrà scrivergli all’indirizzo mail erosdamasco@gmail.com.

Eros Damasco

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