Giornale di bordo (di E.Nistri). Quando Giscard d’Estaing era vicino alla Nuova Destra

La rubrica settimanale di Enrico Nistri spazia dalla Francia al caso del deputato ungherese al festino, fino all'arrivo del vaccino

Valery Giscard d'Estaing

Valéry Giscard d’Estaing

2 dicembre

In memoria di Valéry. Quando la grandeur della Francia finì in rue Copernic

È morto Valéry Giscard d’Estaing. Indulgendo a una facile e crudele battuta, sarei tentato di dire che era morto da quasi quarant’anni. Da quel disgraziato 10 maggio 1981 in cui, contro le previsioni della vigilia, fu sconfitto di misura dal socialista François Mitterrand, che da allora in poi avrebbe sparigliato le carte della democrazia francese.

Sarebbe una battuta in parte veridica, ma ingenerosa, perché non è stata soltanto la fortuna politica di Giscard, ma la Quinta Repubblica e di riflesso la grandeur francese a conoscere un lento ma inarrestabile tracollo con quella data spartiacque. La Francia di questi giorni, alle prese con una crisi forse ancora più grave di quella italiana, lo sta a dimostrare. Le apparenti analogie fra l’odierno presidente della Repubblica e Giscard non debbono ingannare. Non basta essere arrivati alla massima carica dello Stato prima dei cinquant’anni (Macron a 42 anni, Giscard a 48, ma in tempi di gerontocrazia), essere usciti dall’Ena, essere stati ispettori delle Finanze per essere veri uomini di Stato. So che a destra in molti non perdonano a Giscard di avere dato il via libera a riforme laiciste, come la depenalizzazione dell’aborto o l’istituzione del divorzio consensuale, ma si trattava di leggi che, a parte alcune enclaves come l’Irlanda, venivano varate in tutta Europa e che in Italia, nel caso della legalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza, vennero sottoscritte anche da capi di Stato e di governo cattolici, come il primo ministro Andreotti e il presidente della Repubblica Leone. Il suo fu senz’altro un programma di “liberalismo avanzato”, che lo portò per esempio a liberalizzare l’emittenza televisiva, e lo pose in contrasto con l’ala “dura” dei gollisti. Ma su questioni di portata epocale, come la gestione dei flussi migratori, assunse posizioni tutt’altro che liberal. Non perseguì la grandeur, neppure architettonica: durante il suo settennato Parigi non fu deturpata dalle tubature del Centro Pompidou (il Pompideum, come lo chiamarono i detrattori), che paiono il prodotto della volontà di potenza di un idraulico che ha letto Nietzsche. Ma sotto di lui la Francia fu grande forse per l’ultima volta. Merito, certo, dell’eredità gollista e di un’ossatura amministrativa che manteneva in buona parte l’impronta napoleonica, ma anche della sua capacità di coniugare tradizione e modernizzazione. Durante il suo settennato fiorì il Club de l’Horloge, circolo di alti funzionari dell’amministrazione pubblica, che intrattenne stretti rapporti con gli ambienti della rivista Nouvelle Ecole, e uno dei due maggiori quotidiani francesi aprì le pagine del suo supplemento settimanale, il “Figaro Magazine”, a esponenti di spicco della Nouvelle Droite. Per chi mastica un po’ di francese e ha tempo, suggerisco la lettura della tesi di dottorato di Philippe Lamy Le Club de l’Horloge (1974 -2002). Evolution et mutation d’un laboratoire idéologique, facilmente reperibile in Pdf su internet.

Può darsi che il mio giudizio su Giscard d’Estaing sia viziato dai ricordi dei miei primi viaggi in Francia, alla fine degli anni ’70. Passata Modane, in uno di quei viaggi in cuccetta sul Palatino o col Roma Express su un semplice posto a sedere, che furono comuni alla generazione Interrail, pareva di entrare davvero in un altro mondo. Se chiedevi l’ora al capotreno, ti rispondeva guardando che stazione stavamo attraversando, perché la puntualità era la regola; se non avevi spiccioli per pagare una demi pression, il barista ti cambiava senza fiatare una banconota di cento franchi, mentre in Italia ci si arrangiava con i miniassegni perché il Poligrafico dello Stato, vittima dello strapotere sindacale, non era più in grado di stampare moneta a sufficienza. Bastava il fischietto di un flic a incutere soggezione, anche perché era ancora in vigore la pena di morte, abrogata poi da Mitterrand; oggi i poliziotti vanno in giro in ronde di quattro, con walkie-talkie, manganello, pistola, anche nel cuore della capitale. E temo che abbiano lo stesso paura.

Sulla sconfitta di Giscard al ballottaggio con Mitterrand influirono molti fattori: la fronda gollista di Chirac, grande sindaco di Parigi ma mediocre uomo di Stato, il peso della politica di rigore conseguente alle crisi petrolifere degli anni ’70, e anche – paradossalmente – l’attentato alla sinagoga di rue  Copernic, nell’ottobre 1980. Le indagini più recenti hanno fatto emergere la pista palestinese (e sarebbe da riflettere sulla prossimità della strage di Bologna, ma questo è un altro discorso), però in un primo tempo fu accreditata, con una subdola forma di depistaggio, la tesi dell’attentato neonazista; parte della sinistra colse l’occasione per denunciare i legami fra tecnocrati giscardiani e uomini della Nouvelle Droite, emersa pochi mesi prima agli onori della cronaca. La clamorosa gaffe del primo ministro Barre, che espresse la sua indignazione per questo “attentato odioso che voleva colpire gli israeliti che si recavano in sinagoga e ha colpito dei francesi innocenti che traversavano rue Copernic” non migliorò le cose, anzi contribuì a spostare in modo determinante il voto ebraico.

Fra gli svantaggi di arrivare alla presidenza della Repubblica nel pieno degli anni c’è anche il fatto che non è facile recitare la parte dell’ex presidente a cinquant’anni. Lo Chateau d’Estaing non era Colombey-les-deux-Eglises, e soprattutto Giscard al momento della sconfitta aveva poco più della metà degli anni di De Gaulle prima delle dimissioni. Dopo aver fatto il presidente del consiglio regionale dell’Auvergne, magra consolazione dopo essere stato il presidente della Francia, Giscard recuperò un suo ruolo fra Bruxelles e Strasburgo, e qui il suo contributo è stato molto discutibile, nella stesura di quella Costituzione Europea in cui non volle inserire un riferimento alle radici ebraico-cristiane del continente; arrivò addirittura a rifiutare da parte di un politico italiano la consegna di una lettera di Giovanni Paolo II, che la perorava, con un tratto di rara scortesia svelato dal monsignor Fisichella. Ma – è onesto aggiungerlo – non era solo lui, ma tutta una classe dirigente divenuta da europeista eurocratica ad aver smarrito le proprie radici. E se Giscard aveva l’attenuante di essere vecchio, altri, che condivisero la sua scelta e la sua esperienza, non avevano nemmeno quella.

3 dicembre

Di Orbán, di Zàier, e di Agatha Christie

La stampa di sinistra gongola per l’incidente in cui è incappato un esponente di spicco del partito di Orbán al Parlamento Europeo, sorpreso a Bruxelles mentre cercava di sfuggire a una retata della Polizia che aveva fatto irruzione a un party omosessuale. Il moralismo degli immoralisti ha buon gioco nel denunciare la doppia morale (e la doppia vita) dei sovranisti, ostili alla dottrina del gender e al matrimonio fra omosessuali, e poi non insensibili a quello che una volta veniva eufemisticamente chiamato “il vizio di Oscar Wilde”. In effetti, il partito di Orbán non ci fa una bella figura ed è facile ironizzare sui risvolti boccacceschi dell’incidente.

Non è mia intenzione fare l’avvocato d’ufficio dell’Ungheria; mi sento in dovere però di difendere la verità. In primo luogo, il deputato europeo coinvolto nello scandalo si è dimesso spontaneamente, esempio non disprezzabile di rispetto per la dignità della carica che aveva rivestito. In secondo luogo, nell’Ungheria di Orbán non è punita l’omosessualità. A essere rifiutati sono l’istituzionalizzazione della teoria del Gender e il riconoscimento del matrimonio fra omosessuali, cosa ben diversa da una relazione occasionale.

Un terzo argomento non me lo suggerisce la stampa ungherese filogovernativa, bensì Agatha Christie, con il suo celeberrimo assioma: «Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova». Ora, nella vicenda dell’eurodeputato ungherese esistono almeno tre circostanze inquietanti.

Il primo è il fatto che il governo di Budapest è proprio in questi giorni oggetto di attacchi senza precedenti per il suo rifiuto di sottoscrivere l’accettazione del Recovery Fund senza condizioni capestro sulla verifica dello Stato di diritto. Se la Polizia belga avesse dovuto scegliere un momento migliore, difficilmente ci sarebbe riuscita. Chi li aveva chiamati? Secondo la versione ufficiale, dei vicini impazienti per il rumore. Ma siamo proprio certi che tutta la vicenda sia derubricabile a conseguenza di una baruffa chiozzotta fra vicini di pianerottolo?

Il secondo è il fatto che quando i poliziotti hanno fatto irruzione nell’appartamento in cui aveva luogo il party hanno trovato la porta aperta. Chi fa qualcosa d’illecito, di solito chiude la porta a chiave. Ignoro la legislazione belga, ma penso che senza quel dettaglio difficilmente i poliziotti sarebbero potuti entrare in un’abitazione privata, a perseguire oltre tutto non il party omosessuale in sé, ma la violazione delle norme anti-Covid. Una circostanza che induce a meditare sull’evoluzione del comune senso del pudore nell’ultimo decennio, e fa pensare ad Al Capone, finito in gattabuia non per il massacro del giorno di San Valentino, ma per evasione fiscale.

Il terzo indizio risiede nelle chiacchiere fatte sulla stampa dall’intestatario dell’appartamento, che prima ha minimizzato l’evento, poi ha dichiarato che fra i frequentatori dei suoi party c’erano anche deputati conservatori polacchi. Il sospetto che dietro lo scandalo sessuale si nasconda un tentativo di delegittimare i due governi sovranisti ne esce rafforzato. È complottismo, tutto questo? Non sta a me giudicare. Resta il fatto che, in un mondo in cui siamo tutti controllati e spiati dai media elettronici, nessuno è al sicuro, anche se coperto dall’immunità parlamentare. Quello ungherese del resto è il terzo governo sovranista che rischia la destabilizzazione per una divulgazione di notizie riservate, dopo quello austriaco e, nell’agosto del 2019, quello giallo-verde italiano, la cui crisi, già per altro latente, esplose poco dopo le rivelazioni su una presunta quanto maldestra richiesta da parte della Lega di sovvenzioni alla Russia di Putin.

Detto questo, la vicenda dell’europarlamentare ungherese dovrebbe indurre a una riflessione più equilibrata sul rapporto fra orientamento sessuale e orientamento etico-politico. Che un paladino della famiglia tradizionale si riveli un frequentatore di festini gay conferma una verità dolorosa ma innegabile: il conflitto fra essere e dover essere è latente in molti di noi. La natura non fa sconti e, se invece di quel grande romanzo intellettuale che sono gli scritti di Freud, si studiano i capolavori della scienza positivistica, con la loro ricchissima documentazione, ci si accorge che determinate inclinazioni non nascono dall’ideologia, ma dalla biologia. Anche grandi santi hanno conosciuto in gioventù tentazioni (e non solo tentazioni) omosessuali e personaggi straordinari del secolo scorso, come, secondo varie fonti, lo stesso Lawrence d’Arabia, non furono esenti da quelle che una volta si chiamavano perversioni sessuali e oggi eufemisticamente parafilie. Ma non furono grandi per questo, lo furono semmai per la loro capacità di vincerle o di sublimarle.

Tutto questo, naturalmente, ha ben poco a che fare con il teatrino hard della politica che è stato allestito intorno alla figura di Jòzsef Zàier, e alla sua sofferenza, che meriterebbe quanto meno rispetto. Come l’avrebbe meritato undici anni fa (ma i tempi erano diversi) l’ex presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo. Anche il centrodestra in materia dovrebbe fare autocritica.

5 dicembre

Montagna chiusa. Ma è colpa mia se ai Vanzina preferisco Trenker

Infuria la polemica sulla chiusura degli alberghi di montagna e degli impianti sciistici, giustificata con l’esigenza di prevenire i contagi. Capisco le proteste di albergatori, gestori, e naturalmente dei sindaci, molti dei quali di centrodestra, tanto più che nella vicina Svizzera, residuo Stato libero e sovrano, tutto, pare. rimarrà aperto.

A costo di assicurarmi molti nemici, non posso fare a meno però di osservare che quanto sta succedendo è conseguenza anche degli usi e abusi dell’industria sciistica e in generale della mercificazione delle vette in atto ormai da troppo tempo, con l’avvento di quella monocoltura dello sci, fatta di neve “sparata” e di abbattute di abeti per aprire piste, che ha provocato tanti danni, ecologici e non solo. La montagna dovrebbe essere un luogo del silenzio, della meditazione, della faticosa conquista delle vette, dello sforzo fisico, della solitudine. Un luogo dove incontrare Dio, non i protagonisti di un cinepanettone. E lo sci dovrebbe essere fatto di “discese ardite”, ma anche di faticose risalite. Allo slalom, che presuppone affollatissimi impianti di risalita, dovrebbe essere preferito il fondo, che scoraggia o comunque non implica la concentrazione di persone.

A questo proposito, non posso fare a meno di proporre un ricordo personale. Da ragazzo ero innamorato del ciclismo e, pur non praticando attività agonistica, amavo misurarmi con le salite che conducevano ad altitudini di quasi mille metri sulle Alpi Apuane. Ma soprattutto mi piacevano le discese. Con una discreta dose d’incoscienza, a quattordici anni bevevo per darmi coraggio un “peroncino” in un bar e poi mi buttavo a capofitto per le strade su cui ero fino a pochi minuti prima arrancato sui pedali. Ma non avrei mai preteso che un furgone mi portasse in cima alla salita per garantirmi il piacere di scendere a rompicollo. Quelle discese mi piacevano anche perché erano il premio per il sudore versato su quei tornanti. Non vedo perché quello che vale per i ciclisti non dovrebbe valere anche per gli sciatori. Diversamente affrontata, questa emergenza sarebbe potuta servire a far recuperare sulle Alpi, e non solo, il vero spirito alpino. So, lo ripeto, che quanto ho scritto mi procurerà molti nemici, ma non è colpa mia se la montagna che vorrei è quella di Trenker, non dei Vanzina.

8 dicembre

Vaccino sì o no

Infuria la polemica sull’obbligatorietà dei vaccini, “almeno” per alcune fasce d’età e per determinate categorie professionali. Quella che sembrava un’ipotesi quasi irreale (il Tar del Lazio aveva annullato la delibera della Regione che imponeva l’obbligo dell’immunizzazione contro la normale influenza per gli over 65) comincia a essere presa in considerazione. La Costituzione non la esclude, ambigua ed elusiva come sempre: l’articolo 34 recita testualmente che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, sia pur precisando che “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.” In pratica delega tutto al legislatore ordinario, salvo aprire possibili contenziosi su quali trattamenti violino il rispetto della persona. Nel frattempo si sta facendo strada all’interno della maggioranza un partito volto a rendere la vita impossibile agli obiettori all’obbligo vaccinale. C’è chi ipotizza l’istituzione di un “passaporto sanitario” indispensabile non solo per i trasferimenti all’estero o magari anche all’interno dell’Italia (roba da ex Urss!), ma persino per entrare in un locale pubblico. Senza di esso sarà impossibile persino bere un caffè.

Non sono a priori un no vax, e ricordo ancora con gratitudine il sapore della zolletta di zucchero su cui, in prima media, ricevetti le gocce di vaccino Sabin che mi protessero dalla poliomelite. Però l’idea di essere posto di fronte all’alternativa fra la morte civile e l’imposizione di un vaccino realizzato in tutta fretta, con una sperimentazione necessariamente frettolosa, non mi entusiasma. Oltre tutto sono un soggetto allergico e ho rinunciato a un’operazione che avrebbe migliorato le mie potenzialità respiratorie per le incognite di una mia reazione all’anestesia; e questo non per una mia ubbìa, ma dietro consiglio dello specialista che avrebbe dovuto operarmi al setto nasale, e ci avrebbe anche guadagnato. Sotto il militare, feci presente la mia condizione all’ufficiale medico prima di fare la famosa “polivalente”, quella che si fa al petto, perché altrimenti gonfierebbe troppo la parte del corpo su cui si fanno normalmente le iniezioni e su cui ci si siede. E l’ufficiale medico saggiamente mi esonerò: non voleva grane e oltretutto mi sapeva reduce da una brutta bronchite asmatica. Un commilitone, che evidentemente non sapeva di avere delle incompatibilità, si beccò una brutta emiparesi. Era un ragazzo pulito, timido (la sua croce erano le “presentazioni”, perché non riusciva a tirar fuori la voce, che si abbassava alla fine facendo pensare a un giradischi cui è stata staccata la corrente). Era buono come lo sono i veneti quando sono buoni, e infatti era stato destinato ai lagunari. Certo, era uno su un centinaio, ma tutti i vaccini hanno delle incognite. E oggi  mi sembrerebbe assurdo, 43 anni dopo il congedo, essere meno libero di disporre della mia salute di quando ero sotto le armi.

In compenso, proprio contro l’allergia, ho fatto a più riprese, dagli undici ai trentacinque anni, cicli laboriosissimi di vaccino, con iniezioni sottocutanee che possono fare solo i medici. Non ne ho tratto alcun beneficio serio e il motivo mi è stato spiegato, alle soglie della sessantina, nell’ultima visita allergologica cui mi sono sottoposto: sono allergico a troppe sostanze, per cui il vaccino è inutile. Ho perso moltissimo tempo (soldi no: allora rimborsava tutto la mutua o il servizio sanitario nazionale) e mi sono preso anche uno shock anafilattico per una dose sbagliata. Il mio caso non fa testo, gli allergologi che mi prescrissero la terapia – due futuri luminari della scienzaa medica – erano in perfetta buona fede, ma resta il fatto che la scienza medica non è infallibile, e si accorge spesso molto in ritardo degli errori, specie quando i ricercatori sono spinti a lavorare troppo in fretta. E questa corsa al vaccino fra le nazioni mi ricorda la corsa allo spazio al tempo della guerra fredda, che provocò molte più vittime di quanto non sappiamo, anche perché l’Unione Sovietica comunicava il successo delle sue missioni spaziali solo quando erano riuscite.

@barbadilloit

Enrico Nistri

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