Giornale di Bordo. La giusta richiesta del filosofo Finkielkraut di rivedere le norme per il diritto d’asilo

La rubrica settimanale del prof. Enrico Nistri sui principali temi d'attualità: dal Natale anticipato al caso dei giovani di Cp denunciati

Un salvataggio della Marina militare italiana di immigrati in mare

26 novembre

Un filosofo immune dalla sindrome del St.Louis

Uno dei fattori che rendono problematico il contrasto di flussi migratori incontrollati, giustificati con la foglia di fico del diritto di asilo, è costituito dalla sindrome del St.Louis. Il St.Louis era un transatlantico tedesco, sul quale s’imbarcarono il 27 maggio 1939 963 ebrei tedeschi che avevano ricevuto in Germania il permesso di espatriare con un visto turistico. Dopo la notte dei Cristalli non si sentivano più sicuri in patria e speravano di trovare accoglienza come profughi. La prima destinazione fu Cuba, ma le autorità locali cercarono di estorcere loro per il visto d’ingresso come profughi una somma superiore a quella prevista ai turisti e solo alcuni se lo poterono permettere; analoghe difficoltà incontrarono in altre destinazioni e solo una parte di loro trovò accoglienza in Inghilterra. La maggior parte sbarcò ad Anversa, dopo un lungo viaggio che fece ribattezzare il St.Louis “la nave dei dannati”. L’episodio fu paradossalmente un successo della propaganda nazista: Goering ebbe buon gioco nel dire che non erano solo i tedeschi a non volere gli ebrei. In effetti l’Occidente non ci aveva fatto una bella figura.

Credo che la vicenda del transatlantico, cui nel 1976 è stato dedicato un film, eserciti oggi una profonda influenza sull’atteggiamento nei confronti dei migranti da parte di molti ebrei, portati a vedere nei barconi provenienti dalla Libia una replica del piroscafo cui ottant’anni fa era stato impedito lo sbarco. È una reazione comprensibile sotto il profilo umano e psicologico, opinabile però sotto quello politico. Intanto la “nave dei dannati” cercava di portare in salvo persone per le quali dopo la Kristallnacht la vita in Germania era divenuta pericolosa, mentre molti richiedenti asilo sono in realtà profughi economici. E poi i barconi soccorsi dalle varie Ong sbarcano, insieme a poveracci allettati dalla prospettiva di una vita migliore, anche fondamentalisti islamici, animati da sentimenti di odio nei confronti dei cristiani ma anche degli ebrei. Non è un caso se i responsabili degli ultimi attentati erano rifugiati, che da (presunti) perseguitati nei paesi d’origine si sono trasformati in perseguitanti nelle nazioni che li avevano accolti, garantendo loro assistenza sanitaria, istruzione, protezioni sociali.

Fra gli israeliti che non paiono affetti dalla sindrome del St.Louis è possibile collocare senza difficoltà Alain Finkielkraut. Filosofo, giornalista, accademico di Francia, figlio di genitori ebrei polacchi sfuggiti alla Shoah, Finkielkraut è capace d’individuare con rara lucidità il nemico principale, costituito non solo dal fondamentalismo islamico, ma dalla massiccia immigrazione extracomunitaria. Lo conferma l’intervista concessa a Elisabeth Lévy per “Causeur”, combattivo sito internet su posizioni di rottura col prêt-à-penser,  versione intellettualoide del prêt-à-porter pubblicata in Italia dal “Foglio” (chi fosse interessato può recuperarla, e ne vale la pena, segnaliamo il sito https://www.causeur.fr/author/afinkielkraut).

Confermando la sua onestà intellettuale, Finkielkraut propone “di rivedere le condizioni del diritto d’asilo, la gestione del ricongiungimento familiare e la politica migratoria nel suo insieme, perché si può pure dissolvere qualche associazione e chiudere alcune moschee salafite, ma il terrore non si fermerà e la trasmissione della cultura francese in Francia sarà sempre più contestata, e dunque più difficile se il sistema continua.” A questo fine propone di affrancare la Francia dai condizionamenti che “confiscano agli Stati l’autorità necessaria all’applicazione della loro politica di ammissione dei migranti”, creando di fatto, nonostante le buone intenzioni (“cancellare la macchia del rifiuto, da parte dell’Europa, di accogliere i rifugiati ebrei che fuggivano dalla Germania nazista durante i tempi bui del Ventesimo secolo”) “un terreno fertile per il nuovo antisemitismo.” Di conseguenza, chiede alla Francia di “affrancarsi dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo”. Ma chi governa la Francia avrà il coraggio di farlo? La decapitazione del professor Paty ha scosso molte coscienze, ma le resistenze del prêt-à-penser sono ancora molto forti in Francia come in Italia.

27 novembre

Dal provino per gli aspiranti docenti alla denuncia a CasaPound

Il 3 ottobre scorso un gruppo di militanti di Blocco Studentesco, un’organizzazione giovanile legata a Casa Pound, che raccoglie consensi in  tutta Italia e ha ottenuto anche a Firenze brillanti risultati alle elezioni della consulta studentesca, effettuò un volantinaggio all’interno dell’Istituto Galileo Galilei di Firenze, per protestare contro le misure anticovid, ritenute liberticide. Nel corso dell’irruzione alcune insegnanti che cercarono di impedire il volantinaggio entrarono in colluttazione e vennero “strattonate”. Il dirigente scolastico, come era per altro suo dovere di pubblico ufficiale, se ravvisava nell’evento una notitia criminis, sporse denuncia e a quasi un mese e mezzo di distanza ai confronti di tre partecipanti al blitz sono stati inflitti gli arresti domiciliari. Reati contestati: la violenza e minaccia a un corpo amministrativo dello Stato.

Premetto che ritengo l’iniziativa dei tre giovani, e degli altri partecipanti al blitz, molto discutibile, volta più a ottenere visibilità che a mettere a fuoco i reali problemi dell’istituzione scolastica di fronte all’emergenza Covid. Al loro posto, un volantinaggio l’avrei fatto, ma davanti al consolato cinese, o comunque fuori, non dentro la scuola. Però il provvedimento, emesso non certo in flagranza di reato e a carico di giovani incensurati, mi sembra sproporzionato. Soprattutto in una realtà come quella della scuola italiana, dove i casi di docenti irrisi, insultati, talora malmenati, spesso minacciati da studenti o genitori passano sotto silenzio e comunque non hanno a lungo dato adito a efficaci provvedimenti penali (solo il tanto vituperato decreto Sicurezza bis ha stabilito con chiarezza che l’insegnante nell’esercizio delle sue funzioni è  da considerare pubblico ufficiale).

Interessante mi sembra anche il ruolo del dirigente scolastico dell’istituto, il professor Alessandro Giorni. I giovani del Blocco lo attaccano in quanto membro della direzione provinciale pratese del Pd, e senz’altro sbagliano, perché la legge non preclude l’impegno politico ai pubblici funzionari, a ragione o a torto. Certo, una questione di sensibilità imporrebbe a chi indossa due abiti, quello del dirigente scolastico e quello dell’uomo di partito, di non dare adito nemmeno al minimo sospetto che la sua azione sia condizionata dall’animosità polemica nei confronti di coloro che considera avversari; ma, ripeto, è una questione di pudore, di delicatezza umana, non di diritto. Nemmeno il fatto che Giorni sia buddista e che ami i cani mi pare disdicevole. La denuncia che ha fatto era doverosa, anche se resta l’impressione che abbia amplificato quella che era pur sempre una semplice ragazzata, rimasta per fortuna senza conseguenze e ben diversa dalle violenze e dai vandalismi che hanno contrassegnato tante occupazioni. Più che di minacce a “un corpo amministrativo” (ma un docente non sarebbe più di un passacarte?) si sarebbe potuto parlare d’interruzione di pubblico servizio, ammesso che l’interruzione vi sia stata.

Dalla storia personale del professor Giorni, però, emerge una scelta singolare: quando ai dirigenti scolastici, in base ai principi della Buona Scuola, fu offerta la possibilità di scegliersi i docenti, pretese che gli aspiranti allegassero al curriculum “un video di due minuti massimo di durata, con ripresa a figura intera, in cui il candidato/a si presenta e illustra in sintesi le motivazioni della candidatura”. Era l’estate del 2016 e la richiesta suscitò molto scalpore, anche perché sulla scelta dei candidati avrebbero potuto influire fattori di natura estetica o comunque extraculturali ed extradidattici. A parte le prevedibili proteste sindacali e del Codacons, anche il “Fatto Quotidiano” pubblicò un commento critico. Parve a molti che il preside, con zelo da primo della classe, avesse voluto andare oltre i poteri concessi dalla riforma, esigendo dai professori che ambivano al privilegio di lavorare con lui addirittura un provino.

Oggi, il professor Giorni torna all’onore delle cronache come protagonista. Ma non sempre è bene avere un ruolo di protagonista, quando si esercitano funzioni pubbliche. È meglio fare che strafare. Talleyrand, quando era ministro degli Esteri, consigliava sempre ai suoi ambasciatori: “Surtout, pas trop de zèle”. Una massima aurea anche nel mondo della scuola.

28 novembre

Tacchino avvelenato per il Thanksgiving Day

Ieri ricorreva negli Stati Uniti il giorno del Ringraziamento, una festività inizialmente religiosa, poi divenuta civile, che si celebra il quarto giovedì di novembre. Risale al 1621, quando il governatore della colonia fondata dai Padri Pellegrini nel Massachussets ordinò agli abitanti di radunarsi nelle chiese per rendere grazie a Dio del primo raccolto.

Questa volta il giorno del Ringraziamento è stato caratterizzato da due novità poco gradevoli: la coincidenza con il tormentato passaggio delle consegne fra Trump e Biden e l’emergenza coronavirus, che ha scoraggiato raduni conviviali e cerimonie ufficiali. Ad esse si è aggiunta tuttavia una terza: i vandalismi ai danni di edifici pubblici e monumenti da parte dei gruppi “indigenisti”, che pretendono di riscrivere la storia al grido di “land back” (terra indietro, ovvero restituire la terra). Vecchia storia, obietterà qualcuno. È vero. Però l’aspetto innovatore e inquietante, della protesta è che non ha colpito come in passato solo le statue di generali o politici sudisti, di Cristoforo Colombo (che per altro in America non ci voleva nemmeno andare: voleva raggiungere le Indie e si dovette accontentare di scoprire un continente), o magari di ex presidenti degli Usa proprietari di schiavi o promotori della conquista del West, ma persino di Abramo Lincoln. Una statua del paladino della liberazione degli schiavi è stata abbattuta a Spokane, presso Washington. È il segno che quando in un movimento finisce per prevalere la deriva estremista si sa dove si comincia ma non si sa dove si finisce, come accadde per la rivoluzione francese e per la stessa rivoluzione russa (e, si potrebbe aggiungere, per il nostro Sessantotto). Del resto, come ha ricordato in un documentato articolo comparso oggi sulla “Stampa” Francesco Semprini, ci sono città come Portland nell’Oregon “da sei mesi ostaggio di scorribande degli antifa o delle frange più radicali di Black Live Matters”.

Naturalmente, i nativi americani (guai, ormai, a chiamarli pellerossa: la squadra di football dei Washington Redskins ha dovuto cambiare nome e logo, minacciata di boicottaggio!) avevano le loro ragioni, come tutti i popoli che hanno visto invaso il loro territorio.  In gioventù condivisi anch’io le simpatie romantiche nei loro confronti, espressione di una più vasta solidarietà con tutti i vinti della storia. Solo in seguito mi sono reso conto che chi è sconfitto non è per questo necessariamente migliore: può essere solo più debole. Nel caso in questione, alla loro scomparsa ha contribuito più il whisky che il winchester. Ma, a parte il fatto che la richiesta di avere indietro i propri territori oggi è solo una scusa per ottenere maggiori sussidi e “azioni affermative”, sarebbe interessante interrogarsi su quale sarebbe stata la sorte dell’umanità se le grandi praterie dell’America settentrionale fossero rimaste riserve di caccia al bufalo per qualche tribù di nativi americani. Chi avrebbe dato da mangiare agli immigrati irlandesi ridotti alla fame dalla grande carestia di metà Ottocento, ai nostri emigranti costretti dalla miseria a lasciare il Mezzogiorno, ma anche le aree povere del Settentrione? Con che mezzi, senza i prodotti dell’agricoltura intensiva delle grandi pianure degli Usa e del Canada, l’Europa uscita stremata dalla seconda guerra mondiale sarebbe sfuggita alla carestia (forse qualcuno ricorda la vignetta di Guareschi con lo sfilatino di pane prodotto per metà con grano statunitense)? Il colonialismo ha avuto le sue colpe, ma ha permesso di mettere a frutto le risorse del mondo a beneficio anche del proletariato europeo o statunitense e, in ultima analisi, degli stessi indigeni. Del resto anche al congresso dell’Internazionale socialista tenutosi a Stoccarda nel 1907 molti delegati si dichiararono favorevoli al colonialismo, motivando tale posizione con l’esigenza di uno sfruttamento più razionale delle risorse del globo. Lo stesso Marx, in un articolo firmato sul “New York Daily Tribune” il 25 giugno del 1853, scorgeva nel colonialismo britannico un fenomeno progressivo, in quanto eversore delle società tradizionali come quella indiana.

A parte questo, rimane aperto un altro interrogativo. Con che logica chi perora il diritto dei nativi americani a combattere la presenza europea o esalta la decolonizzazione dell’Africa condanna i sovranisti nostrani che denunciano “l’immigrazione selvaggia”? Perché il motto “l’Africa agli africani” era benedetto negli anni Sessanta dagli intellettuali progressisti e chi oggi invece rivendica “l’Europa agli europei” è tacciato di razzista?

È una domanda che qualcuno prima o poi dovrà porsi. Nel frattempo è difficile non constatare come questo Thanksgiving Day abbia riservato agli statunitensi un tacchino avvelenato.

29 novembre

Quando è nato Gesù bambino? Il presepe secondo Boccia

La sufficienza di alcuni esponenti di questo governo nei confronti del sentimento religioso comune ancor oggi a una parte consistente degli italiani è pari solo all’arrendevolezza delle autorità ecclesiastiche di fronte alle limitazioni del culto. Non mi sono scandalizzato neppure nell’aprile scorso della sospensione delle funzioni religiose in pubblico delle chiese nel periodo del confinamento; mi colpì piuttosto in quell’occasione che tale chiusura avvenisse per effetto di provvedimento unilaterale del potere politico, provvedimento che scavalcava le prerogative della Chiesa cattolica previste dai Patti Lateranensi, incardinati nella Costituzione. Fermare le messe avrebbe richiesto quanto meno una concertazione. Ora invece, dinanzi al mantenimento del coprifuoco alle 22 anche la notte fra il 24 e il 25 dicembre, con conseguente anticipazione della tradizionale messa di mezzanotte, non posso non manifestare il mio imbarazzo dinanzi alla sortita del ministro Boccia, secondo cui “non sarebbe un’eresia far nascere Gesù Bambino due ore prima”.

Beninteso, da un punto di vista storico e teologico il ministro ha le sue ragioni, forse più che sotto il profilo sanitario (il virus, come ha fatto notare anche Bruno Vespa, non colpisce a mezzanotte più che alle dieci). Non sappiamo con sicurezza non solo a che ora, ma in che giorno dell’anno e persino in che anno sia nato davvero Gesù. La Grande Enciclopedia illustrata della Bibbia, edita dalla Piemme, sostiene che Cristo sia nato fra il 7 e il 4… dopo Cristo. Secondo un’opinione diffusa, inoltre, la Chiesa avrebbe fatto coincidere il Natale con la festa latina del Sol Invictus, coincidente con quello che all’epoca era considerato, con un’approssimazione di quattro giorni, il solstizio d’inverno. Non ci trovo nulla di male: la Chiesa ebbe all’epoca la saggezza di cristianizzare tradizioni e rituali pagani, invece di pretendere di sradicarle.

Ma non è questo il problema. Il problema è che definire il calendario liturgico non è competenza del potere laico e che i membri del governo dovrebbero astenersi da affermazioni irridenti il sentimento religioso dei fedeli. Una data e un orario, anche se inesatti, una volta entrati a far parte della tradizione meritano rispetto: difficilmente, se non altro per preoccupazioni di sopravvivenza, il ministro Boccia avrebbe scherzato sulla data dell’Egira o sull’età dell’ultima moglie di Maometto. Fa piacere invece notare che negli Stati Uniti la Corte Suprema ha dato ragione alle proteste delle organizzazioni religiose della città di New York, colpite dalle restrizioni introdotte dal governatore Cuomo per l’emergenza Covid. La decisione è stata presa a maggioranza: cinque voti contro quattro. Non è da escludere che l’ago della bilancia sia stata la giudice cattolica nominata al termine del suo mandato da Trump, quel Trump cui l’attuale pontefice non ha mai nascosto la sua ostilità.

Concludendo, non sarà un’eresia far nascere Gesù Bambino due ore prima. Ma non lo è nemmeno sperare che questo governo muoia almeno un paio di anni in anticipo.

30 novembre

Quella sinistra che si preoccupa per la reclusione dei carcerati, e non per quella degli anziani

Ampia eco nella stampa per lo sciopero della fame iniziato da alcuni intellettuali di sinistra, per protestare contro il sovraffollamento delle carceri italiane e per i pericoli cui sono sottoposti i detenuti a causa della pandemia. Fra le poche eccezioni, Marco Travaglio, che in un editoriale sul “Fatto” ha osservato che “contro un virus che si combatte con l’isolamento, chi è già isolato è avvantaggiato”. Ma Travaglio, si sa, è un impenitente “giustizialista” (a proposito, che brutto neologismo! Cosa c’entrano le manette facili con Peròn? Io preferirei un vocabolo come “giacobino” o “robespierrista”, ma sono finezze filologiche). A Travaglio comunque Gad Lerner ha risposto sdegnosamente oggi sullo stesso quotidiano con un articolo dal titolo molto ottimistico: “Restiamo umani”.

Sia ben chiaro: il sovraffollamento delle carceri è un problema, ma un problema ancora maggiore è la diffusione della criminalità. Se gli omicidi sono diminuiti, è aumentato enormemente lo spaccio di droga, che è a pensarci bene un omicidio in differita. E se buona parte della popolazione carceraria è composta da extracomunitari, spesso richiedenti asilo per motivi umanitari, questo non avviene per un accanimento di Polizia e Magistratura nei loro confronti, quanto un po’ per il fascino che la prospettiva di facili guadagni e la speranza dell’impunità esercitano su persone venute in Italia per la prospettiva di migliorare la loro condizione, un po’ perché a chi non ha un domicilio è impossibile concedere gli arresti domiciliari. Il problema del sovraffollamento, tra l’altro, sarebbe risolto se i detenuti extracomunitari approfittassero delle convenzioni internazionali che permettono loro di scontare la pena nelle carceri dei Paesi d’origine, ma la maggior parte di loro si guarda bene dal farlo. Le condizioni in quei penitenziari sono nettamente peggiori di quelle che lamentano in Italia e non c’è la possibilità di adire la Corte Europea per chiedere un indennizzo per i giorni trascorsi in celle sovraffollate. Se poi il Coronavirus fosse così diffuso nelle carceri italiane, liberare molti detenuti, con l’indulto mascherato che viene richiesto, finirebbe per aumentare i rischi di contagio fra la popolazione non carceraria, anche perché chi ha violato il codice penale difficilmente si farà intimorire da un Dpcm.

Questioni tecniche a parte, c’è però un altro risvolto del digiuno a favore dei carcerati che suscita perplessità: il fatto che sino ad oggi pochi maîtres à penser si siano preoccupati di un dramma molto più grave, perché riguarda persone che non hanno delitti sulla coscienza (o, se li hanno, li hanno già espiati), non si ribellano, non possono fare nulla per migliorare la loro condizione. Parlo degli anziani ospiti delle case di riposo ai quali, per motivi di sicurezza, è precluso da febbraio, nella maggior parte dei casi, il contatto fisico con i loro parenti. Vengono centellinati loro anche gli incontri al parlatorio (altro termine che sembra tratto dal lessico carcerario) e i contatti telefonici o via skype (ma cosa può capire un malato di Alzheimer o un ipovedente delle labili ombre che appaiono sul monitor di un PC o di un tablet?). Tale isolamento non assicura agli ospiti delle Residenze sanitarie assistite l’immunità dal contagio, perché non si può impedire al personale medico e paramedico di avere una famiglia, di avere una propria vita, di avere figli che frequentano la scuola. Ed è molto più penoso, perché colpisce persone che, a differenza di detenuti in attesa della scarcerazione, come ultima prospettiva hanno un “fine pena mai”.

1^ dicembre

Vecchioni moschettiere del Re? Purché stia attento a Milady

Bella intervista di Roberto Vecchioni su “Libero”. Il titolo – “Datemi una monarchia, perché la sinistra ha fallito” – è un po’ forzato, ma la sua critica ai dogmi dell’uguaglianza, anche fra uomo e donna, è ampiamente condivisibile. Ho sempre stimato Vecchioni, al di là delle idee politiche, e mi dispiacque che vincesse un Sanremo con una delle sue peggiori canzoni, quella melodrammatica e un po’ furbetta “Sogna ragazzo sogna”, con quell’invettiva contro “il bastardo che sta sempre al sole” che tutti identificarono in Berlusconi (lui però smentì). Ma sono tanti anche gli scrittori che hanno vinto lo Strega con il più modesto dei loro romanzi (penso a un Manlio Cancogni, con Allegri gioventù, e non solo a lui). Certe sue canzoni, come Luci a San Siro o Le stagioni nel sole non posso fare a meno di ascoltarle con un brivido. Altre, come Il tuo culo, il tuo cuore, le ho largamente condivise. Me lo ha reso simpatico anche il fatto che abbia continuato a fare il professore di scuola, e di una disciplina seria come lettere classiche, anche al culmine del successo, cercando con le prevedibili difficoltà di conciliare carriera didattica e carriera artistica e di affrontare le inevitabili invidie e maldicenze in un mondo spesso gretto come quello della scuola.

Benvenuto, dunque, al “neomonarchico” (sui generis) Vecchioni fra i moschettieri del Re. E, naturalmente, occhio a Milady!

@barbadilloit

 

 

Enrico Nistri

Enrico Nistri su Barbadillo.it

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