Segnalibro. Il controverso rapporto dello scrittore Cesare Pavese con il fascismo

Dibattito sul Taccuino segreto edito da Aragno dove il poeta apprezzava la Repubblica Sociale e i tedeschi

Cesare Pavese

A settanta anni dalla morte di Cesare Pavese, avvenuta per suicidio nella notte fra il 26 e il 27 agosto del 1950, si è acceso un dibattito sullo scrittore e poeta che non accenna a diminuire. Emerge da un taccuino che lo scrittore, iscritto al Partito Nazionale Fascista, condannato a tre anni di confino (scontato uno solo), nel dopoguerra iscritto al Partito Comunista Italiano, aveva intimamente apprezzato, nel periodo fra il 1942-43 le scelte della Repubblica Sociale Italiana, ammirava la Germania del tempo, non disprezzava la guerra e deprecava i tanti tradimenti che avevano travolto l’esercito italiano.

Getta una nuova luce sull’uomo e sull’intellettuale la pubblicazione del suo Taccuino segreto, 29 pagine del diario che decise di non pubblicare, stralciandole dal Mestiere di vivere, ma decidendo di conservarle. L’8 agosto del 1990, quarant’anni fa, “La Stampa” pubblicò questo testo che fece discutere molto l’intelligentsia e i politici. Fu pubblicato a cura di Lorenzo Mondo, affermato giornalista della “Stampa”, laureato con una tesi su Pavese. Nei primi anni Sessanta, proprio a casa della sorella di Pavese, durante la consultazione di un cartone pieno di lettere, racconti, appunti, Mondo trovò questo taccuino di piccole dimensioni che lo fece trasalire per il contenuto. Un testo inedito ma soprattutto sconosciuto.

Giorni dopo, Italo Calvino, consulente della casa editrice Einaudi, informato dalla sorella di Pavese del ritrovamento di lettere da parte del giovane Mondo (che già lavorava come giornalista alla “Gazzetta del popolo”) lo convocò negli uffici della casa editrice. Mondo mostrò a Calvino le lettere e questo taccuino che, dopo averlo letto in presenza del giornalista, disse che non era il caso di pubblicarlo, né di parlarne. Semmai, più in là nel tempo, a tempo debito, insomma. Calvino, che in più occasioni criticò, come fece nel 1956 nella relazione che tenne nel corso del XX congresso del PCUS, la mancanza di libera espressione degli intellettuali nei regimi comunisti, decise di tacitare Pavese evitando la pubblicazione di un taccuino importante per comprendere lo scrittore che aveva espresso la propria approvazione verso la Repubblica Sociale Italiana.

Che cosa c’è scritto in questo taccuino ora pubblicato nella sua interezza a cura della studiosa barese (di stanza a Parigi) Francesca Belviso con uno studio interessante di Lorenzo Mondo, e un’introduzione dell’intellettuale Angelo d’Orsi tendente, quest’ultimo, a mettere le mani avanti, “spiegare” la posizione filofascista di Pavese per assolverlo con giri di frasi. Soprattutto d’Orsi teme che a destra si facciano i giochi di acquisizione che la sinistra faceva negli anni Settanta nei confronti degli intellettuali di destra (e ancora oggi vengono tentati, come nel caso di Tolkien e Spengler) dice: “è possibile che si assista, una volta di più, a più o meno goffi tentativi di annessione ideologica o di derubricazione politica”. Non è avvenuto, non c’è motivo di temere simili assurdi tentativi perché Pavese parla chiaro più di tutti. Con il suo comportamento e soprattutto con i suoi scritti.

I contenuti del Taccuino

Che cosa scrive lo scrittore torinese nel taccuino? Apprezza la capacità di resistenza alla guerra del popolo italiano e osserva che dovrà riconsiderare i pregi e la forza degli italiani e annota: “sarà vero che Mussolini ha sempre ragione? Quando si riesce, si ha ragione”. Un Pavese nazionalista, che si duole di soffrire di asma, malattia che gli impedisce di andare volontario in guerra. Aumenta la sua insofferenza verso gli ambienti antifascisti, che lui aveva conosciuto, che definisce “buoni solo a litigare”. E ricorda la necessità di disciplina, che farebbe bene agli italiani, e che il Fascismo saprebbe davvero insegnare. Apprezza la guerra intesa come prova da uomini e si lamenta dicendo: “Ti sembra bello correggere bozze e rivedere manoscritti mentre i tuoi compagni di scuola sono morti in mare, in terra e in cielo?”.

Manifesta grande ammirazione per la Germania, come detto, e facendo un parallelo con gli italiani afferma che il limite di questi ultimi è di non saper essere determinati e atroci. La guerra è il destino, dice, come l’amore. E disprezza Badoglio, denuncia i troppi tradimenti ed elogia il Manifesto di Verona del Partito Fascista Repubblicano apprezzando la parola “repubblicano” mostrando avversione contro i Savoia e la monarchia.

Pavese spera che la RSI possa purificare il regime morente. Elogia il giornalismo nazionalista e antidemocratico. Ma poi si nasconde nel convento di Serralunga, sta lontano dalla guerra e dall’impegno, anche solo intellettuale, e si occupa solo di poesie e di tradurre scrittori inglesi. Proprio in questo periodo studia e approfondisce anche il Mito, inteso come momento fondante della nascita delle civiltà e del mondo, come cosmogonia. Una visione che non è proprio democratica, liberale ma si richiama alle concezioni organicistiche e conservatrici.

Rimane sconvolto da un’esecuzione di militi della Divisone San Marco caduti in un’imboscata fatta dai partigiani. L’11 novembre del 1944, sessanta militi della San Marco stavano facendo un’ispezione nei paesi del circondario di Casale. Nei pressi di Ozzano caddero in un’imboscata: 14 furono uccisi subito, tre morirono in seguito in ospedale e 42 furono fatti prigionieri. I corpi riversi, il sangue sul selciato, i visi stravolti dalla morte. Pavese sopraggiunse in bicicletta poco dopo l’esecuzione e rimase sconvolto da ciò che vide. Nelle ultime pagine del libro Casa in collina scrisse:

“Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche morto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso”.

Finita la guerra e uscito dal nascondiglio nel convento, alcuni mesi dopo Pavese si iscrisse al PCI senza fare militanza e sollevando dubbi e sospetti fra i comunisti dell’epoca, sospetti confermati da Gian Carlo Pajetta in un’intervista rilasciata nell’agosto del 1990 alla “Stampa”.

I simboli della Rsi

Allora, che dire di Pavese? Assolverlo come fa d’Orsi il quale conclude dicendo che si tratta di uno scacco, quello di Pavese, che non riguarda il fallimento privato, essenzialmente amoroso, “bensì il suo complesso irrisolto rapporto con la società, con la politica, con l’umanità stessa. In quest’ottica credo – dice d’Orsi – ci si debba accostare al Taccuino, senza condanne o assoluzioni, ma con sforzo di comprensione delle difficoltà dell’autore e rispetto del suo ‘scacco’”. O condannarlo come fece Pajetta, che si dichiarò “stravolto” dalla lettura del Taccuino e definì il poeta “disertore”?

La risposta non è scontata ma si può tracciare un identikit politico di un autore che essenzialmente era impolitico. A Pavese non interessava la politica, lo ha sempre affermato, come Fabrizio Parrini, nel suo breve e interessante libro dimostra bene. Durante il Fascismo lo scrittore torinese aveva la tessera del Partito Nazionale Fascista. Ma fu condannato a tre anni di confino perché, innamorato di Tina Pizzardo, comunista e militante che rifiutò di sposarlo, accettò di fungere da “casella postale” per il recapito di lettere del gruppo antifascista cui lei apparteneva. Scoperto dall’Ovra (servizi segreti fascisti), fu arrestato e condannato a tre anni di confino. Ne scontò uno solo a Brancaleone calabro, in una casa sul mare. Poi, il Taccuino, dove espresse apprezzamenti sul Fascismo della RSI, sulla guerra, sui tedeschi e insofferenza verso gli antifascisti. Dopo la guerra rientrò nell’ambiente che aveva trattato dai tempi del liceo e dell’Università e si iscrisse al PCI.

Pavese, in poche parole, non si interessava di politica, non espresse critiche al regime fascista, aveva la tessera del PNF ma molto probabilmente non era fascista. Quando poi si iscrisse al PCI molto probabilmente non era comunista. Nel Taccuino scrisse ciò che realmente pensava in quel momento ma erano solo opinioni, osservazioni, sinceri convincimenti che derivavano da ciò che vedeva, non frutto di una visione del mondo, di adesione ai valori del Fascismo, all’ideologia della RSI.

*Pavese, Taccuino segreto, Aragno ed., pagg. CXXVI, 118, (a cura di Francesca Belviso, con una testimonianza di Lorenzo Mondo e introduzione di Angelo d’Orsi), euro 25.00

*Parrini, Cesare Pavese. Il mestiere di scrivere, Clichy ed., pagg. 141, euro 7.90

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Manlio Triggiani

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