Il disco, tenendo conto degli indispensabili contributi dei musicisti chiamati in causa, può essere definito un’opera aperta, il frutto di un sodalizio tra spiriti affini, per altro stilisticamente coerente e senza cali di tensione. Moreno Padoan, Michele Caserta, Ge-Stell, Giovanni “Leo” Leonardi, Celery Price (Francesco Pirro, autore anche della impeccabile veste grafica), Deca, Giorgio Mazzicafreddo e Maurizio Bianchi, oltre all’indimenticabile voce dei Disciplinatha Valeria Cevolani, s’incaricano di tessere le trame sulle quali poggiano gli austeri epitaffi di Camilletti, consegnando all’ascoltatore una corale prova d’avanguardismo sonoro, invero come non se n’ascoltava da tempo. Nessun ammiccamento estetizzante, nessuna parassitaria nostalgia di stili modernisti già storicizzati, semmai la rielaborazione originale di codici forgiati a Düsseldorf (Kraftwerk), o a Londra (Throbbing Gristle) messi in cortocircuito, come nell’oblò della lavatrice quando parte la centrifuga. Emblematiche in questo senso sono tracce Tape 5 e Tape 8, probabilmente le due estremità, le due polarità cardinali dell’albo. “Le gallerie scandivano il viaggio come memorie, evocavano frammenti di futuro. Ambivo una totalità paralizzante” così reitera Camilletti – tra moto e stasi – prima della partenza del treno sonoro; già perché le musiche composte da Celery Price per la quinta traccia, riesumando l’archetipo Trans europe express per farne raffinata didascalia pop in vitro, riescono ad evocare il viaggio a più livelli e a tradurre magistralmente le parole in suoni: languori esotici, sbuffi nostalgici, dilatazioni atemporali preludono all’accumulazione dei suoni, dei ritmi, accelerazione controllata stantuffi in movimento, (idea di) sincopata velocità che non sarebbe dispiaciuta a Marinetti. Poi a chiusura di nuovo la quiete prettamente ambient, come un’eco tantrica a suggello dell’alternanza tra rotaia aperta e mistico tunnel.
Trattazione a parte merita l’ultima traccia, Tape 8, a cura del gran aaestro della loggia industriale Maurizio Bianchi. Divulgatore principe di suoni radicali, precursore delle istanze rumoriste e sperimentali più estreme, roba da alieni nell’Italia di fine ‘70 inizio ‘80, M.B. dona a Epigrafe un notevole saggio di sabotaggio sonoro, portando il treno d’epigrafi a deragliare in altre galassie. Qui il viaggio si fa più aggrovigliato, ostico, labirintico. Magma cacofonico, voragine dapprima stordente, lancinante ginepraio di lamentazioni liofilizzate in striduli alieni, delfini impazziti, siderurgiche trasfigurazioni giunte fino al limite dell’encefalogramma piatto, poi via via qualcosa che assomiglia ad una spirale ascetica, come se il puro rumore infernale tracimasse in angelicale melodia senza soluzione di continuità: abbandonate le stelle implose, i rottami di astronavi in fiamme e l’acquario elettromagnetico, di colpo ci troviamo in Tibet, o forse in India, Saturno Nettuno, chissà. La traccia che chiude il disco, dopo averci sballottato tra eoni defibrillati e gorghi mefitici si riavvolge su se stessa, rallenta, rimpicciolisce deflagra, si spegne, muore risorta come cometa. La suite si chiude come il serpente che si morde la coda e sigilla il disco con una chiosa quanto mai pertinente, tratta da La persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter: “L’assoluto, non l’ho mai conosciuto ma lo conosco così come chi soffre d’insonnia conosce il sonno, come chi guarda l’oscurità conosce la luce”.