Artefatti. Viaggio al termine della parola, l’epigrafe di Psycho Kinder

“L’assoluto, non l’ho mai conosciuto ma lo conosco così come chi soffre d’insonnia conosce il sonno, come chi guarda l’oscurità conosce la luce”

Dopo due episodi discografici stilisticamente minimali, liricamente intimisti – Diario ermetico e Un disegno infantile/All’ombra di metafore (entrambi del 2019) – torna con un rinnovato approccio di primo acchito massimalista Psycho Kinder, creatura musicale del paroliere declamatore Alessandro Camilletti della quale a suo tempo segnalammo i virgulti. Epigrafe, questo il titolo del cd limitato a 100 copie, non è però un banale ritorno alle origini post-wave, alle beffarde invettive anticonformiste, intrise di verve icastica degli esordi. Quel piglio antimoderno e tuttavia futuristico, impetuosa critica al nichilismo molliccio, aleatorio, sterilmente incartato in vacue pantomime della nostra contemporaneità, resta presente ma subisce qui un duplice, radicale, trattamento. Il primo: la secca essenzialità dei testi, conciso ermetismo già appannaggio delle ultime prove di PK, conferisce all’opera saldezza, profondità aforistica, cristallino rigore, fredda incisività; altresì l’uniforme laconicità degli anonimi titoli, relegati a numeri, ribadisce l’aspetto letterariamente ed espressivamente spersonalizzato dello scritto/orale di Camilletti. Secondo: le musiche, recuperando l’attitudine dinamica, sperimentale, della raccolta di remix Ex Tension (2018), mettono in scena un variegato teatro – meccanico, lisergico, onirico, apocalittico, claustrofobico – balletto alchemico per automi digitalizzati, traccia dopo traccia condotti sensorialmente in laboratorio analisi treno ad alta velocità discoteca astronave natura morta foresta di cristalli liquidi mattatoio burocratico (che odora di Kafka sott’acido), Stalker e 2001 Odissea nello spazio quali atmosfere aleggianti, tragitto appunto spazialista, siderale, annichilente quanto affascinante. Entrambi gli aspetti – lirici e sonori – sembrano costituire ad incastro una liturgia elettronica per i tempi ultimi, invero già ampiamente sorpassati. Con Epigrafe siamo escursionisti nel dopo ignoto, palombari fluttuanti in postumi fuori dal tempo, senza ricordare bene cos’era il prima. Quel legaccio ombelicale umano, voltandosi indietro per scorgere il mito perduto o soltanto per riconoscersi in un ricordo fisionomico, deambula senza più appigli in un magma artificiale.

Il disco, tenendo conto degli indispensabili contributi dei musicisti chiamati in causa, può essere definito un’opera aperta, il frutto di un sodalizio tra spiriti affini, per altro stilisticamente coerente e senza cali di tensione. Moreno Padoan, Michele Caserta, Ge-Stell, Giovanni “Leo” Leonardi, Celery Price (Francesco Pirro, autore anche della impeccabile veste grafica), Deca, Giorgio Mazzicafreddo e Maurizio Bianchi, oltre all’indimenticabile voce dei Disciplinatha Valeria Cevolani, s’incaricano di tessere le trame sulle quali poggiano gli austeri epitaffi di Camilletti, consegnando all’ascoltatore una corale prova d’avanguardismo sonoro, invero come non se n’ascoltava da tempo. Nessun ammiccamento estetizzante, nessuna parassitaria nostalgia di stili modernisti già storicizzati, semmai la rielaborazione originale di codici forgiati a Düsseldorf (Kraftwerk), o a Londra (Throbbing Gristle) messi in cortocircuito, come nell’oblò della lavatrice quando parte la centrifuga. Emblematiche in questo senso sono tracce Tape 5 e Tape 8, probabilmente le due estremità, le due polarità cardinali dell’albo. “Le gallerie scandivano il viaggio come memorie, evocavano frammenti di futuro. Ambivo una totalità paralizzante” così reitera Camilletti – tra moto e stasi – prima della partenza del treno sonoro; già perché le musiche composte da Celery Price per la quinta traccia, riesumando l’archetipo Trans europe express per farne raffinata didascalia pop in vitro, riescono ad evocare il viaggio a più livelli e a tradurre magistralmente le parole in suoni: languori esotici, sbuffi nostalgici, dilatazioni atemporali preludono all’accumulazione dei suoni, dei ritmi, accelerazione controllata stantuffi in movimento, (idea di) sincopata velocità che non sarebbe dispiaciuta a Marinetti. Poi a chiusura di nuovo la quiete prettamente ambient, come un’eco tantrica a suggello dell’alternanza tra rotaia aperta e mistico tunnel.

Trattazione a parte merita l’ultima traccia, Tape 8, a cura del gran aaestro della loggia industriale Maurizio Bianchi. Divulgatore principe di suoni radicali, precursore delle istanze rumoriste e sperimentali più estreme, roba da alieni nell’Italia di fine ‘70 inizio ‘80, M.B. dona a Epigrafe un notevole saggio di sabotaggio sonoro, portando il treno d’epigrafi a deragliare in altre galassie. Qui il viaggio si fa più aggrovigliato, ostico, labirintico. Magma cacofonico, voragine dapprima stordente, lancinante ginepraio di lamentazioni liofilizzate in striduli alieni, delfini impazziti, siderurgiche trasfigurazioni giunte fino al limite dell’encefalogramma piatto, poi via via qualcosa che assomiglia ad una spirale ascetica, come se il puro rumore infernale tracimasse in angelicale melodia senza soluzione di continuità: abbandonate le stelle implose, i rottami di astronavi in fiamme e l’acquario elettromagnetico, di colpo ci troviamo in Tibet, o forse in India, Saturno Nettuno, chissà. La traccia che chiude il disco, dopo averci sballottato tra eoni defibrillati e gorghi mefitici si riavvolge su se stessa, rallenta, rimpicciolisce deflagra, si spegne, muore risorta come cometa. La suite si chiude come il serpente che si morde la coda e sigilla il disco con una chiosa quanto mai pertinente, tratta da La persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter: “L’assoluto, non l’ho mai conosciuto ma lo conosco così come chi soffre d’insonnia conosce il sonno, come chi guarda l’oscurità conosce la luce”.

 

Donato Novellini

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