Intorno al patriottismo contro tutte le mafie: la bandiera di Paolo Borsellino

L'introduzione di Alessandro Amorese al volume di Fabio Granata "Meglio un giorno"

Paolo Borsellino

Meglio un giorno di Fabio Granata

Pubblichiamo l’introduzione di Alessandro Amorese al volume “Meglio un Giorno” di Fabio Granata per Eclettica, un saggio giunto alla seconda edizione sulle radici antimafia del mondo postfascista.

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Vincenzo Scuteri muore il 4 aprile 1971. Viveva a Caulonia Marina, in provincia di Reggio Calabria, dove è colpito, nove giorni prima, da diversi colpi di pistola. Faceva il carpentiere, era un uomo del popolo, ‘colpevole’ per la mafia di avere la schiena dritta, di essere un onesto lavoratore: “Il ferro dalla mafia non lo voglio comprare” e quel comportamento, quella serietà, gli costarono la vita. Era un militante del Movimento Sociale Italiano, tanto che nella targa a lui dedicata si fa riferimento anche al suo soprannome ‘u camerata’. Non si sa altro di questa vittima dell’ndrangheta. Si hanno notizie più dettagliate, grazie soprattutto all’impegno dei figli, sull’avvocato Dino Gassani, ucciso dalla camorra il 27 Marzo 1981: è un penalista che rimane coerente e fermo nel non voler mollare la difesa di Biagio Garzione che, convinto a pentirsi, inizia rivelare i nomi dei vertici della Nuova Camorra Organizzata, tra i quali Raffaele Catapano, uomo di fiducia di Raffaele Cutolo e riferimento dell’anonima sequestri di cui Garzione era stato il telefonista. Dopo anni di minacce, Gassani muore, insieme al segretario Pino Grimaldi, nel suo studio al centro di Salerno, per mano di due sicari di Catapano, che avevano dapprima ‘provato’ a convincerlo a rinunciare o ad a far ritrattare le accuse del suo assistito. “Non posso perdere la dignità”, scrisse in un foglietto, quella sera. Era nato ad Angri, fu militante, dirigente e ‘Federale’ del Msi di Salerno, eletto poi consigliere regionale. Oggi, gli va dato atto, Fratelli d’Italia chiede che alla sua memoria sia dedicata la sala multimediale del Consiglio regionale. Sono solamente due delle tante storie poco conosciute, ignote quanto ignorate, una delle tante colpe da imputare alla destra politica italiana. Esempi di libertà, rettitudine, di buona politica e legalità, da tramandare, da indicare come esempi. Pensiamo a come, con gli anni, sia diventata patrimonio culturale degli italiani la vicenda di Peppino Impastato: a lui sono stati dedicati film, canzoni, esiste da tempo una casa-museo. E’ una figura nota, quasi pop, forse anche per i mezzi di comunicazione che utilizzò, uno su tutti la Radio. Non dimentichiamo che fu candidato con Democrazia Proletaria, dopo aver fatto parte di Lotta Continua e questa appartenenza fu importante, diciamolo chiaramente, per alimentarne il ricordo fino a renderlo una vera e propria icona della lotta alla mafia. Quello che diventò anche Pio La Torre, deputato e Segretario regionale del Pci: stava raggiungendo proprio la sede del partito a Palermo quando, insieme all’autista Rosario Di Salvo, viene ucciso, il 30 Aprile 1982. Tra i mandanti ci sono Totò Riina, Michele Greco, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca. La Torre, il primo parlamentare trucidato dalla mafia, ‘paga’ il suo impegno, anche istituzionale e legislativo, per introdurre il reato di ‘associazione per delinquere di stampo mafioso’ e la confisca dei beni dei mafiosi stessi. Prima dell’omicidio dell’esponente politico comunista, sarebbe potuto risultare il primo deputato a morire per mano della mafia un altro parlamentare siciliano, Angelo Nicosia, che si salva per pochi millimetri ma le conseguenze delle coltellate inferte lo portarono comunque alla morte, il 3 Agosto 1991, per una emorragia interna. Nicosia fa parte di quel mondo umano, direi anche antropologico intrinsecamente e profondamente nato per essere alternativo e ferocemente in conflitto contro ogni fenomeno mafioso. Questa anche è la storia di Dino Grammatico, sindaco di Erice (nel trapanese), a lungo Presidente all’Ars del gruppo missino che impressiona la Commissione parlamentare Antimafia quando con la sua chiarezza e coerenza dimostra la collusione tra mafia e politica siciliana, articolata nel corso degli anni in forme gravi di protezionismo politico delle clientele elettorali e dei gruppi di pressione, rivendicando al Msi le più importanti azioni di moralizzazione della vita pubblica siciliana: possiamo citare, ad esempio, l’inchiesta sull’allora Eras (Ente di riforma agraria siciliana) e la destituzione di numerose amministrazioni di consorzi di bonifica, covi di interessi tutt’altro che chiari e limpidi. Questa azione giustamente rivendicata, Grammatico la mette in pratica durante il suo ruolo di assessore all’Agricoltura quando affida alla Magistratura l’inchiesta che ebbe ad accertare inserimenti mafiosi nella gestione dell’ente siciliano. Un’inchiesta che diventa emblematica perché nell’invio alla Regione per essere inoltrata alla Magistratura rimane sepolta nei cassetti della stessa Presidenza della Regione. Questa operazione di ‘insabbiamento’ non è l’unica denunciata da Grammatico, ma la cito perché va nel solco della linea che i componenti missini nei vari aggiornamenti della Commissione Antimafia portano avanti, dimostrando che questa ‘omertà’ politica era un sistema ben oliato che faceva sì che le inchieste non venissero mai portate a termine. La destra politica italiana si trovò più volte, sola, sulla barricata avversa alla criminalità organizzata, trovandosi in più occasioni ad essere l’unica lista nei comuni commissariati per l’alta infiltrazione di mafia e ‘ndrangheta, come a Platì nel ’91 quando con l’allora Segretaria Provinciale Angela Napoli il Msi si presentò con una compagine unicamente composta da donne. Lo ricorda lei stessa: “Fu l’unica lista perché gli altri partiti non hanno osato affrontare l’ndrangheta. Ho ricevuto minacce ma andai da sola a presentarla; tenemmo poi un comizio con l’On. Valensise, con il microfono collegato alla batteria della macchina, in una piazza deserta con la sola presenza dei Carabinieri. Naturalmente prendemmo pochissimi voti perché nessuno andò a votare”. Nel caso di Platì ma anche di altri comuni, per esempio, della Locride, l’immagine delle persiane chiuse dalle quali sbirciare i ‘pazzi’ al comizio missino ha un significato forse ancora più profondo degli ‘Anni di piombo’. D’altra parte da Cesare Mori in avanti ‘Cosa nostra’ non può che essere antifascista e avrebbe votato, finanziato o fatto affari con tutti tranne che con i missini, conclusione alla quale arriva anche la Commissione Antimafia presieduta tra il ’92 ed il ’94 da Luciano Violante, non proprio un esponente della destra italiana. 

Pertanto, questo di Fabio Granata, è un libro che non placa ma amplifica la mia (e quella di tanti altri) inquietudine nel rileggere e ulteriormente approfondire vicende ed eventi che dovrebbero essere patrimonio nazionale e, pertanto, non esclusiva di una parte politica che invece in molti casi si è dimenticata o ha solo sussurrato nomi e fatti che invece dovrebbe avere sia come stella polare che come eterno testimone da tramandare. Il libro di Fabio Granata è utile anche per coprire questo vuoto, culturale, editoriale ed oserei aggiungere politico, perché raccontare, rappresentare pezzi di una storia di coraggio e sangue fino ad oggi poco nota è un fatto nodale, che fa giustizia storica in attesa che di queste vicende (che compongono una storia ben precisa) se ne accorgano anche la televisione di stato ed i giornali del main stream. Un libro che fin dalla prima edizione contribuisce inoltre a riperimetrare i contorni ed i confini tra la destra politica italiana, la propria storia ed i fatti degli ultimi tre decenni nei quali l’autore ha preso delle posizioni nette che, spiegate e dibattute nelle numerose presentazioni della prima stesura, hanno potuto ristabilire più serenamente verità e legittimità nelle sue posizioni, ricordando che molte questioni legate alla ‘trattativa’ intuite dall’autore si sono rivelate poi tragicamente vere. Sono alcuni dei motivi per i quali abbiamo deciso di lasciare pressoché intatte le pagine della prima edizione di ‘Meglio un giorno’, scritte in un periodo parzialmente diverso da oggi ma così genuine e spontanee da non dover essere necessariamente rivisitate ma sono aggiornate con un capitolo finale che arriva ai giorni nostri, quelli dell’emergenza sanitaria e la scarcerazione di molti esponenti mafiosi. Così come la prima edizione fu dedicata alla famiglia Borsellino, in questa seconda ci piace ricordare e sottolineare in maniera ancora più specifica l’impegno e la determinazione di Fiammetta nella ricerca di verità e giustizia per il Padre: un impegno che non si ferma davanti a nulla e che non guarda in faccia nessuno. Una battaglia irriducibile di ricerca della verità sui mandanti che è anche la nostra Battaglia in difesa della Bandiera di Paolo Borsellino.

Alessandro Amorese 

Alessandro Amorese

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