Come liberarsi dell’odio? La visione di Veltroni giornalista e scrittore

Il nuovo saggio dell'ex politico su "la malattia grave che si è impossessata del nostro tempo"

Walter Veltroni

C’è il Veltroni politico di lungo corso, militante di Sinistra e artefice delle molteplici camaleontiche trasformazioni in cui il vecchio PCI,  si è riproposto in un contesto storico (dopo il fatidico 9 novembre 1989) sempre più proiettato verso il bipolarismo, e c’è il Veltroni giornalista, narratore e regista, direttore dell’Unità e promotore del Festival del Cinema di Roma. Può non garbare il primo, anche se gli va riconosciuta una certa coerenza, rara di questi tempi, nella scelta di ritirarsi in buon ordine dalla scena pubblica, ma non può non apprezzarsi la verve di abile raconteur del secondo. Che si conferma anche con Odiare l’odio (Rizzoli), un agile libello, il cui titolo è un’efficace figura etimologica. Nel saggio, l’autore si prefigge di esaminare, in modo onesto ed imparziale, le dinamiche sociali che conducono all’odio e all’intolleranza. “L’odio è la malattia grave che si è impossessata del nostro tempo …un sentimento livido, una lunga bava di lumaca <che> si insinua nei pertugi delle nostre incertezze, delle nostre inquietudini, dei nostri disagi, …nelle ferite del nostro tempo e progressivamente ci domina” -così esordisce l’autore. 

Il libro ha una struttura a cerchi concentrici, che va dal personale all’universale. Dalla terribile esperienza privata del nonno Cirillo Kotnik, venduto per cinquemila lire da un delatore e morto per le torture subite dai nazisti, agli anni di piombo in cui il confronto ideologico, incistato di faziosità e acceso da vuota retorica, spesso alimentata da chi gridava alla rivoluzione comodamente assiso dietro cattedre universitarie, si è trasformato in lotta a mano armata. “Uccidere un fascista non è reato” o “Se vedi un punto nero spara a vista, o è un carabiniere o è un fascista” o “Morte ai rossi” sono stati, in effetti, prima slogan poi azioni. Sulla scia della “bava dell’odio”, si passa all’ultimo ventennio. Su scala globale, dall’11 settembre 2001, la “belva” dell’odio, aizzata dal terrorismo islamico, si è risvegliata tenendo sotto scacco la parte occidentale del pianeta, che da allora (forse) ha perso sicumera e presunzione di possedere valori assoluti ed esportabili. 

I capitoli centrali sono destinati all’esplorazione delle cause. Le fondamenta dell’odio si radicano nella paura dell’altro, del diverso, nella solitudine abissale a cui ci costringe un mondo paradossalmente iperconnesso, nella precarietà che determina nell’individuo “una condizione di surplace”, nella ipocrisia della flessibilità che condanna i più deboli a soccombere nella darwiniana struggle for life, nelle fasulle promesse di una olistica rivoluzione tecnologica che, al contrario, sta creando una nutrita classe di inadatti, in grado di sovvertimenti sociali e politici per i quali non esiste ideologia capace di controllarne le conseguenze» (Yuval Noah Harari). Si propaga, inoltre, sul web una campagna di intolleranza plurale che si esercita sul fil di lana della bufala più grossa da sparare. È questa una tentazione che accomuna potenti e gente comune. L’esito devastante è l’invasione della rete da parte di odiatori seriali che adoperano lo hate speech, se non appreso, perlomeno perfezionato grazie a ‘maestri’ molto molto influenti: “Trump ha imbaldanzito quegli americani che professano opinioni solo pochi anni fa ritenute socialmente inaccettabili. Le “belve da tastiera” hanno abbattuto barriere considerate a lungo inviolabili, come appunto il rispetto davanti alla malattia o alla morte. Ne hanno fatto le spese, per una sorta di cannibalismo becero e insensato, Nadia Toffa, Lamberto Sposini, Emma Marone, – cita lo scrittore. 

Naturalmente non manca una diagnosi sociopolitica.  Si analizza la profonda crisi delle istituzioni democratiche, troppo spesso sollecitate da adescamenti autocratici. Tali democrature si sviluppano nella società “liquida”, dominata da una dimensione temporale unilineare e, perciò, immersa in un perenne presente senza memoria del passato e senza speranza del futuro. Scontato corollario è l’inarrestabile processo di diffusa disintermediazione. Risultano, pertanto, devitalizzate tutte le grandi agenzie che costituiscono il tessuto di una democrazia: i partiti, vissuti come “partecipazione o comunità di persone, che condividono tempo e sogni, battaglie e parole”, le parrocchie e gli oratori, i circoli culturali, le case del popolo. Anche le città, con la chiusura di piccoli negozi di librerie, cinema, teatri, mutano volto, “dilatando così il senso di straniamento di ciascuno” – commenta, amaro, Veltroni-.

Come fermare le “centrali dell’odio”?

Recuperare l’indignazione di fronte alla sofferenza di immigrati in fuga da guerra e fame, non rinserrarsi nelle trincee del politicamente corretto, non partecipare all’arena dell’urlo selvaggio, recuperare il senso della dialettica senza arroccarsi in rigide posizioni, non costruire steccati e muri che separano, ricordare soprattutto che “Nessun uomo è un isola” (John Donne).

Fondamentale è stingere “una social catena” e combattere uniti la battaglia per il clima: “se l’Austria o il Belgio o il Perù decidono di limitare le emissioni in atmosfera non cambia nulla. Deve essere il mondo intero a scegliere la via della sostenibilità”. Insomma – e qui il discorso si fa ideale – “tendere verso la magnifica utopia di un governo mondiale, questo sì, figlio della globalizzazione e dell’interdipendenza”.

In buona sostanza, liberarsi dalla schiavitù dell’odio è l’unica salvaguardia della libertà. 

*Odiare l’odio (Rizzoli)

Cecilia Pignataro

Cecilia Pignataro su Barbadillo.it

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