Prati, il sesto Beatle in maglia rossonera

Fenomenologia di "Pierino la peste" indimenticabile bomber del Milan

Pierino Prati

Solo un film può restituire l’importanza che Pierino Prati ha avuto non solo al Milan. E’ Roma a mano armata di Umberto Lenzi (1976). Qui, dopo circa 33’, un barista, tifoso della Roma, dice al commissario, interpretato da Maurizio Merli: “Prati cià du palle così”. 

 

Claudio Gattuso, milanista classe 1946

Claudio Gattuso è milanese, classe 1946, proprio come Piero Prati. Come giornalista è nato professionalmente in un settimanale fondato da Giovannino Guareschi nel 1948 e rifondato vent’anni dopo da Giorgio Pisanò, con due scrittori del calibro di Vittorio Metz e Carlo Manzoni. Dopo essersi fatto le ossa, appunto, in un giornale politico sempre all’attacco, con la redazione in periferia, si è trasferito in centro, a occuparsi più comodamente di cronaca e spettacoli, soprattutto spettacoli. Intanto la passione per il Milan, dopo gli anni gloriosi di Prati, Rivera, Lodetti, Dino Sani, si era riaccesa con l’arrivo degli olandesi, passate le vicissitudini della serie B: ma i milanisti ci tengono a dire che anche nella serie cadetta, gli spalti di San Siro, a seguire i rossoneri erano gremiti come non mai. La terza stagione l’ha passata nei periodici del Corriere della Sera a occuparsi di tutt’altro:

                                                                                                            Nicola Caricola

Fenomenologia di Prati

Claudio Gattuso

Primi Sessanta. Con gli amici milanisti all’Arena del Parco Sempione, a metà settimana – allora usava così – partite vere tra ragazzi del Milan e dell’Inter. Per farsi le ossa, e i muscoli. E “imparare a giocare al pallone, santo cielo, dai mona!”: così esortava Nereo Rocco, allenatore dal 1961. Lì vedemmo, io e i compagni della media Carlo Tenca, a metà strada tra casa mia e l’Arena Civica, per la prima volta Piero Prati. Ala sinistra a cui piaceva precipitarsi appena possibile in area per lottare su ogni pallone. Atletico, potente, coraggioso. Quasi sempre con i calzettoni abbassati, come Mario Corso, che lo ha preceduto lassù di qualche giorno. Vestiva “moderno”: pantaloni a zampa di elefante, polacchine, camicia a fiori, sobria catenina d’oro, capelli lunghi. Il Paròn torceva il naso:

“Ho chiesto a Liedholm (allora dirigeva lui i giovani) un’ala sinistra, mi hanno mandato un cantante…”.

Ma poi se ne innamorò e gli scolpì il numero 11 sulla schiena. Fosse stato in Inghilterra, lo avrebbero soprannominato il sesto Beatle: il quinto era rigorosamente George Best.

Era del 1946, come me. Un motivo in più, forse, per spiegare l’affetto duraturo che ho per lui. Dall’Arena, a San Siro. C’ero anch’io, ovviamente, a scandire “Pierino, cosa fai? Gol, gol, gol!”. E di gol ne fece veramente tanti in rossonero. Lo chiamavano spesso sui giornali Pierino la peste. A noi duri e puri il soprannome non piaceva. Forse perché lo aveva coniato Gianni Brera, interista, per sottolineare la sua capacità di segnare nei minuti finali. Ci sembrava più uno sfottò, anche se di buon cuore. Come quello di abatino trovato per Gianni Rivera… E quello sì che era indubbiamente uno sfottò! Che se li tenesse per sé…

Gol da ricordare? Tanti, tanti. Per esempio, dopo una manciata di anni, quello nel derby del 1969 in casa dell’Inter: aveva segnato Corso nei primi minuti, stavamo per lasciare lo stadio sfiduciati, ma su un lungo passaggio di Trapattoni, Prati di testa segnò. Un’altra serata felice per gli ex liceali sempre in gruppo a vedere i Diavoli.

I gol più memorabili sono indubbiamente quelli della seconda Coppa Campioni vinta dal Milan. Nello stesso anno, il 1969, il 28 maggio, finale a Madrid, stadio Santiago Bernabeu. Lì gli amici non c’erano: ci accontentammo della televisione. Tre reti di Prati con magistrali assist di Rivera. Il quarto fu di Angelo Sormani. E per gli olandesi, quella sera frastornati da un gioco che avrebbero poi sublimato, tenne la bandiera un certo Joan Cruyff, di un hanno più giovane di Piero.

“Con il premio partita, lo confesso, non resistetti e mi comperai una Porche”,

così dichiarò anni dopo, quasi scusandosi di quell’impeto giovanile. Fu forse l’unica spesa pazza della sua vita, trascorsa poi con sobrietà e oculati investimenti.

In trasferta alla Roma. Quando Niels Liedholm ebbe l’incarico di risollevare le sorti della Roma – la Rometta, come in quegli anni la chiamavano i laziali -, lo volle con sé e il MIlan accettò in trasferimento. Non brillò come prima, ma nel primo anno, era il 1974, con i suoi gol, e la presenza di Conti, Di Bartolomei, De Sisti e Rocca – e dici poco! – i giallorossi arrivarono terzi e si rimisero per sempre in carreggiata, Noi milanisti cresciuti ma sempre sentimentali lo seguivamo anche lì, contenti quando segnava.

In Nazionale non ebbe molto spazio, schiacciato da un mostro come Gigi Riva. Era comunque nella rosa agli Europei vinti nel 1968 e ai Mondali due anni più tardi, per la medaglia d’argento.

Fine dei giochi, Dopo aver dato due volte le gambe alla Roma, come Riva alla Nazionale,  tornò al Savona, dove era già stato mandato nel 1966 a crescere e irrobustirsi, poi andò per un anno al Rochester Lancers. Ma che ci faceva, ci chiedevamo, un ragazzo di Cinisello Balsamo, alle porte di Milano, nello Stato di New York vicino ai gelidi Grandi Laghi del Nord America? E tornò subito in Italia. Ancora un anno al Savona e poi scarpette al chiodo. Fece per qualche anno l’allenatore, ma solo in squadre vicino a casa, per non allontanarsi dalla famiglia e dagli amici: Lecco, Solbiatese, Bellinzago, Pro Patria. Forse quell’anno in America gli aveva fatto un po’ paura.

Claudio Gattuso

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