L’Italia degli anni Sessanta del Novecento è, probabilmente, il momento più alto del secolo, per quanto ci riguarda, almeno per immaginazione e produzione, per politica e dibattito, per cinema e scrittura, per possibilità e libertà, tanto che è irriproducibile. Ma quello che possiamo ancora recuperare e che ci arriva improvviso da diario di quel tempo, un reportage del contesto e delle figure che si muovevano all’interno, è una fotografia di quel decennio, fornita da uno scrittore di confine con tanto vento dentro le pagine. Giovanni Arpino, con le sue “Lettere scontrose” (minimum fax) una raccolta in volume della rubrica che tenne per il settimanale “Tempo”. Fischiano ancora le sue parole, come – nonostante qualche tempo fa Michele Mari lo ritenesse morto davvero – vive la sua forza, il suo andare contro con ironia, il divertirsi prima della morte. Arpino, come il nuotatore di Cheever, decide di tornare a casa e passa per delle lettere perdute nell’inutilità del caos presente di giallisti futili e di reportagisti dell’orlo ombelicale: al posto delle piscine ha le vite degli esposti, dei famosi, e per 52 lunghe lettere, rispiega loro il mondo, partendo dall’Italia. Scrittori, giornalisti, attori, attrici, registi, artisti, volti noti, figli e figlie note, un lungo elenco di vip messi in riga, come in una grande arrampicata sul K2 della notorietà. Nessuno viene risparmiato, Arpino non fa calcoli, e per questo crea un genere perduto. Come l’Herzog di Saul Bellow scrive a tutti i degni di nota, e, scrivendo, disegna un paese che nella sua bellezza è comunque mancante agli occhi di un vero grande scrittore, che è sempre un uomo in rivolta, uno scontento cronico, un esigente tiranno, ma senza la moralità dei tiranni, piuttosto una etica che è cronicamente mancata al nostro paese, come poi se ne lamenterà Alberto Arbasino.
Nella lettera a Paolo Monelli – un grandissimo esploratore del mondo e degli uomini – scrive un vero e proprio manifesto dello scrittore di minoranza o fantasma che attraversa la comunità culturale: “Ritengo che uno scrittore quanto più è uomo d’arte tanto più debba spendersi, tanto più debba rischiare, sbagliare, riprovarsi, anche se mentendo esagerando ingannando mulinando nel vuoto. Ritengo che uno scrittore debba rifiutare di serbar memoria
È un picaro, delle lettere, e tale rimarrà. Solo un picaro poteva capire la Callas – consacrandola dea del grigio – e scrivere ad Aldo Moro che era una vittima di se stesso come il fragile Stepan Trofimovič dei “Demoni” di Fëdor Dostoevskij (anticipando “Todo modo”). Solo un picaro passando per la vita degli “esposti” poteva dire loro la verità senza sconti, perché a dispetto del suo nomadismo, pensava che «lo scrivere inutile è la peggior forma di tradimento che un uomo può inventare a danno di sé e degli altri», per questo non sprecava le pagine [uscito su IL MESSAGGERO]
*“Lettere scontrose” di Giovanni Arpino (minimum fax)