Giornale di Bordo. Multe per gli italiani desiderosi di normalità, comprensione per i balordi

A spasso col cane per Firenze si scoprono le linee di frattura della nostra società

Cane a spasso con il padrone nelle città italiane

Portare il cane a fare i bisogni, persino quando non costituisce più un alibi per sfuggire al confino di pandemia, è un’attività che, a parte la gioia recata al quadrupede, presenta molti vantaggi. C’è il piacere di fare qualche amicizia (e anche qualche inimicizia, vista l’abitudine di molti padroni di cani aggressivi di lasciarli sciolti nei giardinetti pubblici), ma anche l’opportunità di osservare con un’attenzione che altrimenti non riporrei tanti dettagli solo all’apparenza insignificanti della città. I cani, infatti, hanno molta più fantasia di noi umani, che per fare i bisogni utilizziamo sempre il solito vaso di ceramica che chiamiamo W.C. (e nel suo dizionario dei neologismi Alfredo Panzini chiosava: “sono anche le iniziali di Wiston Churchill”). Difficilmente tornano nello stesso posto, cercano a lungo il luogo che gli pare più confacente per onorare il marciapiede delle loro deiezioni, e di solito rimandano all’ultimo il momento di fare i bisogni “grossi”, in modo di costringere il padrone a tenerli fuori più a lungo. Insomma ti costringono a camminare, ad aspettare, a guardarti intorno.

Di solito la maggior parte degli accompagnatori approfitta solo in parte di questa opportunità. Ossessionati dalla mania di fare due o più cose insieme i padroni e soprattutto le padrone ascoltano musica con gli auricolari, parlano al telefonino, chattano, tanto che sono a volte tentato di suggerire a qualcuno/a di loro di regalare un cellulare anche al loro cane (in realtà, i quadrupedi, più intelligenti degli umani, non ne hanno bisogno: alberi, lampioni, e a volte ruote delle auto in sosta sono il loro facebook, su cui lasciano alzando la zampa le loro richieste d’amicizia e i loro “mi piace”).

Per me invece passeggiare per le strade portando a spasso, o meglio facendosi portare a spasso dal mio bassotto, che ormai ha undici anni e non si sposta più di tanto, è una straordinaria fonte d’ispirazione. Osservando i palazzi, i marciapiedi, i giardinetti, e ovviamente le persone capisco le trasformazioni della società molto più che leggendo un manuale di sociologia. Quando vedo per esempio che a fare le pulizie delle scale nei condomìni non sono in maggioranza stranieri, ma italiani, capisco come non sia affatto vero che i nostri connazionali rifiutino i lavori più umili. Quando vedo le erbacce che crescono su marciapiedi dissestati e l’intonaco scrostato delle facciate di ville che pure sarebbero signorili, capisco che la crisi c’è, nelle finanze pubbliche come in quelle private.

Ci sono poi alcuni segnali che si colgono soprattutto di prima mattina, ma che sono ancora più inquietanti. Il quartiere in cui abito a Firenze si trova subito dopo la cerchia dei viali di circonvallazione realizzati dall’architetto e urbanista Poggi al tempo della capitale. Una volta vi si trovavano solo ville o palazzi edificati in prevalenza in stile neorinascimentale, insieme a qualche dignitoso blocco di case popolari, ma la speculazione edilizia degli anni ’50 e ’60 ha fatto sorgere alcuni condomìni, di diversa qualità architettonica. Alcuni di essi, come quello in cui abito, hanno una facciata decorosa ma modesta; altri hanno maggiori pretese d’eleganza, specie quelli costruiti più di recente, quando era più difficile eludere i vincoli urbanistici. Uno, all’angolo con una piazzetta, poco più di uno slargo con uno di quei giardinetti che a Parigi si chiamano square, è forse il più bello di tutti, ma anche il più indifeso. Dev’essere stato costruito a metà anni ’60, l’epoca felice in cui la Polizia incuteva ancora paura a ladri e devianti e pareva che la diffusione del benessere assicurata dal miracolo economico dovesse far sparire la criminalità. Lo circonda un giardinetto, davanti all’ingresso ha un’ampia scalinata, lo difende dall’esterno solo una grande porta di cristallo, facile oggetto di atti vandalici. Da diverso tempo il giardinetto è divenuto bersaglio dei vagabondi che bivaccano nei giardinetti, che si divertono a tirare gli avanzi dei loro pasti e delle loro bevute oltre il cancello, e quando pasti e bevute hanno superato una certa soglia a vomitare sulla scalinata. Il risultato è la presenza di topi nel giardino e fra le siepi dello square, che costituiscono per un piccolo predatore come il mio bassotto un motivo di eccitazione indescrivibile.

Stamattina, intorno alle otto e un quarto, passando accanto al palazzo, mi si è presentata una nuova variante. Sulla scalinata, in parte coperta, dormiva involtolato nei suoi cenci come una mummia uno di questi balordi. Proprio in quel momento arrivava una gazzella dei Carabinieri. Non l’avevano chiamata i proprietari, ma, come ho scoperto, le due donne delle pulizie che per la sua presenza non potevano fare il loro dovere. Una di loro forse era straniera, l’altra era un’italiana con i capelli bianchi, dell’età in cui un tempo si era già in pensione.

I due Carabinieri hanno trattato in guanti bianchi il vagabondo, che doveva essere un immigrato. Hanno aspettato con calma che si svegliasse, gli hanno chiesto se aveva i soldi per prendersi un caffè, non hanno preteso i documenti, anche perché non li aveva, alla fine lo hanno convinto ad alzarsi e ad andare via. Non so se il caffè gliel’hanno offerto davvero, magari di tasca loro, però non me ne stupirei.

Non oso criticarli. Per certi aspetti invidio la loro calma. Credo che la “sindrome di Cucchi”, il terrore di essere filmati dal solito ficcanaso, la paura magari di una reazione inconsulta impedisca ormai alla forze dell’ordine di andare per le spicce. Ma non posso fare a meno di pensare alle tante multe fatte a persone per bene che si erano scordate di mettersi la mascherina o che avevano sconfinato da comune all’altro per fare la spesa più comodamente, e magari con prezzi migliori. E soprattutto capisco perché l’Italia da ormai trent’anni attira dal terzo mondo, insieme a gente onesta, che ha voglia di lavorare, disadattati di ogni specie, convinti di poterla sempre e comunque fare franca. Tanto, male che vada, ci sarà sempre qualcuno pronto a offrire un caffè, e a pagare per loro saranno anche le tasse delle donne con i capelli bianchi che puliscono dove loro hanno sporcato.

Enrico Nistri

Enrico Nistri su Barbadillo.it

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