Giornale di Bordo. La (s)ventura delle riviste. E l’età del piombo fu per noi l’età dell’oro

Il racconto di Enrico Nistri, tra gli animatori delle tante riviste non conformiste italiane

L’Universale di Berto Ricci

“Barbadillo” è uscito con una nuova veste grafica e Michele De Feudis mi chiede di scrivere qualcosa sul significato delle riviste per la mia generazione, e anche per quelle che l’hanno preceduta. In fondo anche un sito internet è una rivista, anche se ci ho messo molto tempo a convincermene.

Io di solito rifuggo da un certo genere di “compitini”, per paura della banalità, e, quanto ai restyling editoriali, sono convinto che il declino dell’Inghilterra abbia conosciuto una notevole accelerazione da quando il “Times” smise di pubblicare gli annunci economici in prima pagina. Però sarei un ingrato se non scrivessi nulla, sia con “Barbadillo”, sia con quanti mi hanno preceduto e con la loro opera hanno fatto sì che divenissi nel bene e nel male quello che sono.

Il mito di Prezzolini e Papini

La mia generazione è nata nel mito di Giuliano il Sofista e di Gianfalco, ovvero di Giuseppe Prezzolini e di Giovanni Papini (perché quest’ultimo scelse tale pseudonimo confesso di non ricordarlo, ma debbo ammettere che è bello; Prezzolini invece scelse di firmarsi così perché aveva simpatia per l’imperatore apostata, mentre non amava San Giuseppe, che considerava “il becco dello Spirito Santo”). A loro naturalmente aggiungo Ardengo Soffici, forse il più grande dei tre, al cui Giornale di Bordo debbo anche il titolo della mia rubrica. Uno dei miei pochi motivi d’orgoglio della mia lunga e tormentata carriera pubblicistica è di avere scritto sulla terza pagina della “Gazzetta Ticinese”, su cui Prezzolini, esule volontario a Lugano, pubblicava una rubrica toscanamente battezzata “La Bruschetta”. I miei primi articoli retribuiti, su “Intervento”, furono saggi sulla “Conquista dello Stato” di Malaparte, “L’Italiano” e “Omnibus” di Longanesi.

Italia civiltà

Ho conosciuto, sia pure troppo tardi, Barna Occhini, che fu redattore capo dell’ultimo “Frontespizio”, direttore di “Italia e Civiltà” e infine di “Totalità”. Ho goduto della stima del professor Adolfo Oxilia, che in questo dopoguerra fondò e diresse “L’Ultima”, la rivista su cui incrociarono le penne, insieme all’ultimo (appunto) Papini ex “repubblichini” assetati di assoluto come Attilio Mordini, che è stato il mentore spirituale di Franco Cardini, e futuri maîtres à penser della sinistra cattolica come Mario Gozzini e padre Balducci.

Ho avuto il privilegio di frequentare Paolo Ricci, figlio di Berto, timido come un ginnasiale d’altri tempi e orgoglioso come un hidalgo del ricordo del padre che non aveva mai conosciuto, e sono stato sul punto di scrivere la prefazione allo Scrittore italiano, il più importante libro del fondatore e direttore dell’“Universale”; dico che sono stato sul punto perché Marcello Veneziani, all’epoca direttore delle edizioni Ciarrapico, riuscì a ottenere la prefazione da Indro Montanelli (era il 1984 e la cosa fece scalpore), per cui io fui “dirottato” a introdurre la riedizione del Ritratto d’Europa di Salvador de Madariaga.

E poi ho partecipato anch’io a quello Sturm un Drang in corpo 8 con cui ogni generazione marca le distanze da quella che l’ha preceduta. E questo in parte mi accomuna al mondo di Barbadillo, in parte me ne allontana. Perché fra un sito internet e una rivista di carta, anche la più sbrindellata ed effimera, la più povera di mezzi e la più ricca di refusi, c’è una piccola differenza: la differenza fra il virtuale e il reale.

Genesi delle riviste di carta

So che i lettori più giovani non mi capiranno, ma non posso farci nulla. Appartengo, me ne rendo conto, a un mondo che è ormai trascorso. Pubblicare una rivista per i ragazzi della mia generazione era qualcosa di materiale, di fisico, di tattile. Significava cercare una stamperia, contrattare il prezzo, leticare con il proto di corpi e giustezze, sporcarsi le dita con il piombo sul balcone del tipografo che componeva a mano i titoli prelevando i caratteri disposti sulla cassa del compositoio con un ordine che era pressappoco lo stesso del tempo dei Manuzio e dei Giunti e ordinare i cliché “a tratto” o “a retino”. E poi correggere le bozze, grondanti di refusi, stando attenti a non costringere per una parola cambiata il linotipista a ricomporre un intero capoverso. Prima ancora, voleva dire picchiettare caratteri “pica” sui tasti di una macchina da scrivere, stando attenti a non pigiare troppo per non forare la matrice, e poi vedere uscire da un ciclostile che s’inceppava sempre i nostri articoli grondanti d’inchiostro male asciugato e di apocalittiche profezie.

La rivista Leonardo

Ci sentivamo emuli di Papini e Prezzolini, quando iniziavano a Firenze l’avventura del “Leonardo” in una stanza d’affitto di un Palazzo Davanzati non ancora divenuto un museo, o del Maccari del primo “Selvaggio”, “battagliero fascista”, sovvenzionato da un vinaio di Colle Val d’Elsa, o dell’“Universale”. La “ventura delle riviste”, prima che il titolo di un libro di Augusto Hermet e un capitolo di storia della letteratura, fu per noi un’esperienza esistenziale. Ci sentivamo emuli di Ricci e di Rosai, ma anche di Lucien de Rubempré e in fondo le tipografie dove erano stampate le nostre prime riviste non erano molto diverse da quelle che Balzac descrive nei primi capitoli delle Illusioni perdute. Se non fosse stato per il debellamento delle malattie veneree da parte degli antibiotici, si sarebbe potuta adattare ai nostri esordi la frase di Baudelaire secondo cui “il giorno in cui il giovane autore corregge le sue prime bozze è fiero come lo studente che si è preso il suo primo scolo.”

“La Terra degli Avi”, “Diorama”, “Elementi”, per tacere della “Voce della Fogna”, e poi le prime riviste che pagavano, i compensi piatiti da editori che ci parevano esosi e che, visti con i parametri di oggi, ci sembrano generosi mecenati. E poi il sogno e al tempo stesso il rimorso di lasciare il nido, il pudore degli pseudonimi, le terze pagine del “Tempo” e del “Giornale” mete sognate e inarrivabili, il “Borghese” di Tedeschi avvicinabile ma da evitare, in quanto organo dei “badogliani” di Democrazia nazionale. E le diaspore, le scomuniche, i nicodemismi, e il ritrovarsi vent’anni dopo, come in un romanzo di Dumas, sulle pagine dell’“Italia Settimanale” e di “Percorsi”, dello “Stato” o di “Imperi”.

Indimenticabili interurbane

Una copertina della Voce della Fogna

Questa, amici di Barbadillo, fu la nostra ventura delle riviste, e un po’ la nostra sventura. Una (s)ventura fatta anche di interurbane centellinate, perché i genitori “bubavano” per le bollette della Sip troppo alte e per i telefoni pubblici era difficile persino procurarsi i gettoni, usati come spiccioli perché il Poligrafico negli anni ’70 non riusciva nemmeno a coniare le monetine; di riunioni di redazione “in campo neutro”, in un bar sotto i portici di Pisa; di diaspore e scomuniche, di vocazioni e provocazioni. Di lettere che non arrivavano mai, perché le poste funzionavano malissimo, di viaggi in treno a biglietti scontati grazie ai primi tesserini verdi da pubblicista, con i sogni e i pacchi di copie fresche di stampa deposti sulla retina del bagagliaio.

Oggi tutto, almeno all’apparenza, è più semplice. Per fondare una rivista basta aprire un sito, per commentare un articolo basta un clic, non ci sono più le copie “di diritto regio” da consegnare in Questura, anche se sulla libertà della Rete incombe la spada di Damocle della psicopolizia. Si comunica a costo zero, per rivedere le bozze c’è l’autocorrettore di Word, per capire se un articolo è piaciuto o no si fa la conta dei “mi piace” o la vendemmia dei contatti. Ma per chi come me ha consegnato i suoi primi pensieri alla carta rugosa dei ciclostilati, ha inviato i suoi articoli col fuori sacco consegnato al binario 1 di Firenze Santa Maria Novella, ha considerato il fax un lusso sibaritico, ha dettato gli ultimi articoli al dimafonista, l’età del piombo – non me ne vogliate – rimane nonostante tutto l’età dell’oro.

@barbadilloit

Enrico Nistri

Enrico Nistri su Barbadillo.it

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