Cultura. Paolo Isotta restituisce a Verdi la sua autentica grandezza

Oltre il melodramma, nella tempesta della storia e della grande musica, dove per apprezzare quel che c’è da apprezzare non basta avere orecchio o saper batter il ritmo con il piede, conviene entrare accompagnati, come nella giungla di Tarzan o di Tremal-Naik. Esempio: per capire la musica, diciamo Giuseppe Verdi, questa immensa macchina melodica e narrativa, il fai-da-te non porta lontano, ma serve il giusto Baedeker, e da oggi ce n’è uno giustissimo, questo Verdi a Parigi di Paolo Isotta.

Non si tratta qui d’una semplice introduzione a Verdi, grande musicista e grand’uomo del suo tempo. Isotta, che illustra e vivacizza nel dettaglio le sue opere parigine, quando Verdi diventa la star del melodramma francese, un genere che a Parigi era stato messo al mondo dai musicisti italiani, qui non parla tanto «della prassi artistica» verdiana, e nemmeno «del valore della sua arte, ché sarebbe pleonastico». Attraverso il racconto delle sue trame melodrammatiche, che sono al contempo storie e Storia, cronache sopra le righe degli accadimenti e squillanti note a margine della condizione umana, Isotta spiega dove Giuseppe Verdi va situato, quale sia stata la sua statura artistica e umana, di quale Italia sia tuttora uno dei rari campioni, e che cosa s’intravede nella filigrana delle sue opere.

C’è il Verdi «risorgimentale», di maniera, che nei peggiori libri di storia e negli sceneggiati televisivi entra nella storia patria a petto nudo e rifiutando di farsi bendare gli occhi, come un Martire di Belfiore. E c’è il Verdi «politico», come spiega Isotta, che dei libretti verdiani, e delle melodie che li raccontano, esplora le profondità, come una sorta di Capitano Nemo in viaggio sotto i mari.: «A tentar di cernere più in profondo, quasi tutte le Opere di Verdi hanno un carattere politico: in questo libro lo si mette in rilievo, per esempio, a proposito de La Traviata. Ma sin dall’inizio: e ciò non sempre è stato osservato. Il primo successo di Verdi è il Nabucodonosor. Grandioso dramma corale modellato sul Mosè in Egitto e sul Moïse et Pharaon di Rossini. Ma anche dramma politico sulla volontà di potenza e sulla ὕβρις, la hýbris, l’eccesso di ambizione, anzi l’eccesso in se stesso, condannato dagli dei: tema tra i fondamentali della Tragedia classica. E da questo sentimento, proprio in chiave politica, sono affetti i protagonisti, Nabucodonosor e Abigaille».

Critico musicale, ma anche memorialista e storico della musica, nonché critico del costume in un paese ogni giorno più scostumato, ciò a dimostrazione che ci sono imprese disperate ma che qualcuno se ne deve pur fare carico, Paolo Isotta è uno dei rari intellò italiani senza debiti con la peggior retorica, quella dell’effimero. Anche se nelle pagine culturali dei giornali, e nelle comparsate chic dei talk show non c’è praticamente mai altro che sdolcinatezze, romanzetteria da due soldi e mode intellettuali (a dir poco) imbarazzanti, penso che Isotta non sappia neppure che cos’è il frou frou culturale.

Musica, nel paese che fu del grande melodramma, sono le canzonette di Sanremo; politica, le battute fiacche dei comici ideologicamente infoiati; filosofia, le riflessioni gravi e stolte di gazzettieri, soubrettes e psicoanalisti semicolti. Come Giuseppe Verdi, anche Paolino Isotta «non è il modello dell’italiano. Ne è l’antimodello. È l’italiano che avrebbe dovuto e potuto essere e non è stato», mentre «l’italiano vero ed eterno sono Don Abbondio e Don Rodrigo, due risvolti della stessa persona».

«A chi va accostato Verdi?» si chiede Isotta, e non c’è che una risposta adeguata: Verdi va accostato «a Virgilio per il culto della rifinitura inteso come valore etico, oltre che artistico; per il pessimismo e l’ampiezza universale di vedute; per il senso religioso precristiano della divinità della Natura. A Orazio, per il culto della rifinitura, il pessimismo e la serenità, nonostante tutto: il Falstaff  ha un ēthos oraziano, ma è più pessimista. A Giotto, per tale rifinitura e per il tempo d’incredibile velocità col quale realizzò la Cappella degli Scrovegni, il modello della quale era già tutto nella sua immaginativa. A Machiavelli e Guicciardini per lo spietato pessimismo, la chiarezza di visione del cuore umano, e tuttavia la volontà di non arrendersi di fronte alla sconfitta certa. A Michelangelo, ancora, per il pessimismo, il culto della rifinitura e il senso della grandezza. Non dirò a Raffaello giacché in ciò, nella rifinitura, nessuno l’ha raggiunto né prima né dopo. A Galileo per la scienza e il coraggio. A Cherubini, per la geniale severità della composizione, che lo faceva ritenere da Beethoven il più grande compositore vivente. A Leopardi: per il pessimismo, la rifinitura, la cultura e il disprezzo verso la populace: leggi il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani. A Manzoni per la conoscenza del “guazzabuglio del cuore umano”».

Anche Giovannino Guareschi, però, lo aveva perfettamente «contestualizzato», come si dice oggi in lingua di gesso, e Paolo Isotta mi darà licenza di chiudere con una parentesi guareschiana: «”Naturalmente” disse don Camillo. “Bisogna sempre inquadrare gli artisti nel loro tempo…” “Però Verdi…” tentò di obiettare lo Smilzo. Ma Peppone gli saltò sulla voce: “Cosa c’entra Verdi? Verdi non è mica un artista, Verdi è un uomo con un cuore grande così”. Allargando le braccia fece il vuoto attorno a sé. Don Camillo non fu svelto a scansarsi e si prese una tremenda pacca sullo stomaco. Ma non disse niente per rispetto a Verdi».

Paolo Isotta, Verdi a Parigi, Marsilio 2020, pp. 668, 28,00 euro, eBook 3,99.

*Da Italia Oggi del 11.4.2020

Diego Gabutti*

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