Il racconto. L’ultimo autogrill e l’incontro di una giovane ultrà con un uomo del destino

Roberto Perrone, scrittore e firma del giornalismo, sublima - in un racconto raffinato - un istante fatale tra un uomo e una donna dagli orizzonti apparentemente inconciliabili

Dalla pagina Fb ultras pride

L’ULTIMO AUTOGRILL *

Silvia scese dal bus e il calore dell’asfalto, mischiato alla puzza della benzina e della birra (evidente residuo di sbarchi precedenti) che chiazzavano il piazzale,  la aggredì con violenza, provocandole un attacco di nausea. Lo represse. Non le andava di apparire debole o peggio femminile. I suoi compagni di viaggio, attorno a lei, comunque, non si accorsero di nulla, mentre sciamavano verso l’autogrill oltrepassandola, urtandola, urlando, gesticolando, dandosi manate e dicendo parolacce. Erano due masse indistinte, ben divise, metà diretti al bar/ristorante, metà che puntava ai bagni. Senza un filo di educazione, senza nessun rispetto. I loro volti, le loro espressioni, il loro modo di esprimersi, di essere, raccontavano la storia di un mondo a parte, di una realtà inafferrabile per i “normali” che ne raschiavano, con la comprensione, solo la crosta.

Un mondo a parte, con regole antiche, diverse, sconosciute a coloro che si scansavano, inorriditi, impauriti, terrorizzati, al loro passaggio.

Eppure, presi uno per uno, pensò Silvia, non erano neanche così male. La stragrande maggioranza di quella marmaglia aveva mestieri normali, esistenze banali. A lei, una volta, era capitato di trovarne uno dietro il bancone di un bar, in centro. Si era fermata sulla porta, senza entrare e l’aveva osservato, con la camicia bianca e il papillon nero mentre preparava espressi e cappuccini  senza parlare, ringraziando con timidezza, quando qualcuno dei clienti gettava una monetina nel portacenere, ricordo d un’età meravigliosa in cui si poteva fumare al chiuso, e ora utilizzato per le mance.

Una pezza sulle donne ultrà

I compagni di viaggio di Silvia si diressero verso l’autogrill, osservati distrattamente da una pattuglia della polizia. Ne sarebbero usciti, tra dieci minuti, un quarto d’ora, con le mani piene di merce. Chi una confezione da sei bottiglie di birra, chi con una latta d’olio, chi con un paio di bottiglie di vino, chi con un pezzo di parmigiano; i meno pretenziosi, che non volevano riempirsi, con un gelato, un pacchetto di caramelle. Si erano fatti furbi, rispetto a qualche anno prima. La volante che li scortava da sola non poteva impedire certo il saccheggio, ma tutti sapevano che avrebbe preso la targa, avvisato i rinforzi, se l’autogrill fosse stato messo a ferro e fuoco. Una volta lo facevano, una volta scendevano dai bus come gli Unni dalle Alpi e travolgevano ogni cosa. E molti finivano manganellati, fermati, condannati. Qualcuno si era fatto mesi di carcere. Per un autogrill? Meglio se capitava in battaglia, con i “nemici”. Quindi avevano cambiato sistema. Quella specie di esproprio proletario, eseguito senza urlare, senza dire nulla, un’operazione silenziosa, pulita, semplicemente afferrando ognuno un articolo e uscendo a scaglioni, poteva passare inosservato o osservato con un calcolo soddisfacente del rapporto costi/benefici. Era una sorta di pizzo non richiesto, non trattato, preso da una parte e accettato dall’altra, da chi lo subiva, per evitare guai peggiori.

Silvia non partecipava a questo rito barbaro. Perché no e perché non aveva voglia di niente, neanche del bagno. Aveva, ormai, adattato il suo corpo a quelle lunghe trasferte, in modo da resistere a sete e fame e soprattutto in modo da evitare i gabinetti degli autogrill italiani, in media, a parte qualche eccezione, tra i più schifosi del mondo.

Per cui si avviò sotto uno dei rachitici alberelli che decoravano il parcheggio, le mani in tasca, decisa a fumarsi una sigaretta.

Fu allora che lo vide.

Stava appoggiato a una Jaguar. A Silvia piacevano le auto, soprattutto le Jaguar. Si avvicinò per studiarla, ma più dell’auto si mise a studiare lui. Magari suo padre no, però aveva almeno 15, 18 anni più di lei. Di altezza media, aveva i capelli brizzolati, corti, anche se non cortissimi. Pantaloni, blu,camicia bianca, senza giacca. Il suo sguardo vagava verso lo svincolo da dove, poco prima, erano entrato il loro bus. Come se stesse di vedetta. Era bello, ma l’espressione del suo viso era quella di un uomo che stava soffrendo.

Anche Silvia era bella, sebbene fosse vestita con informi pantaloni di colore mimetico e una canotta nera da camionista anni ‘50. Era la sua divisa da ultrà, la sua corazza.

Nella vita “normale”, Silvia Annibene era una studentessa di fisica quasi laureata. Nella sua vita “segreta” era un’ultrà. Faceva parte del branco. Così vestita non l’avrebbe sgamata nessuno, così vestita campava in mezzo agli altri ultrà che la trattavano con rispetto, perché lei sapeva farsi rispettare.

“E’ bella” disse all’uomo.

Lui non si mosse, continuava a guardare il punto in cui le auto spuntavano sul piazzale dell’autogrill. Silvia gli andò davanti e gli agitò la mano davanti agli occhi.

“Ehi, è collegato?”.

Lui si riscosse.

“Mi scusi?” le domandò lui, finalmente accorgendosi di lei.

“Dicevo che quest’auto è bella”.

“Molto, sì. Grazie”. Aveva la voce stanca. Lei si appoggiò all’auto posteggiata accanto alla Jaguar e lo fissò meglio. Aveva un orologio della loro squadra al polso.

“Orca” pensò Silvia “E’ dei nostri”.

“Viene alla partita?”.

Lui le sorrise, stancamente.

“Ho due biglietti, ma non ho più voglia di venire, sto aspettando una persona che non arriva”.

“Ha un appuntamento qui?” Chiese lei stupita.

“Sì, è l’ultimo autogrill”.

“Vabbè, io invece di biglietti non ne ho, ma forse ci fanno entrare lo stesso. Mi scusi, non mi sono presentata: Silvia”.

Lui le sorrise porgendole una mano forte, ma delicata nello stringere.

“Carlo”.

Restarono in silenzio per un po’. Poi lui, improvvisamente la guardò. I suoi occhi la trapassarono. Non era uno sguardo “sporco”, ma Silvia si sentì nuda, come e di più di come spesso si sentiva sul bus, in mezzo agli sguardi dei suoi compagni.

“Ma lei è con quelli?” chiese l’uomo indicando il gruppo degli ultrà. Lei alzò le spalle. Glielo chiedevano tutti, si stupivano in coro. Ma come, una così bella ragazza, intelligente, brillante, con una mente scientifica, tra quelle bestie? La risposta vera, non era una di quelle che dava normalmente. “Sono fatti miei”. “Tra gli ultrà c’è più verità che nelle vostre esistenze ipocrite”. “Là trovo la vera solidarietà che nella società non esiste più”. “Non sono le bestie che voi pensate”.

C’era, in queste risposte, qualcosa di vero.  Ma la realtà era che Silvia si nascondeva. Da suo padre, da sua madre, dalle loro aspettative. Dagli uomini della “classe sociale” a cui apparteneva e che non avevano mai saputo darle nulla, che l’avevano delusa, disgustata più di quello che avessero mai fatto i suoi compagni ultrà, con i loro rutti, i loro cori, il loro linguaggio scurrile, talvolta con la loro violenza. Silvia fuggiva dai rapporti a intermittenza con gli altri esseri umani, dall’inaffidabilità del prossimo incapace di trasmetterle le sicurezze di cui avrebbe avuto necessità.

Tra gli ultrà valeva la legge del branco. Erano tutti uguali, donne comprese. Tra gli ultrà contava essere affidabili, proteggersi l’un l’altro. Non erano “amici” in senso stretto, ma compagni sì, come soldati al fronte, per la sopravvivenza dipendevano l’uno dall’altro.

Ma questo non lo diceva. Se la cavava con le risposte standard. Ma prima che potesse gettarne in faccia una all’uomo, lui aveva preso una busta dalla sua giacca sul sedile posteriore della Jaguar e ne aveva tirato fuori un biglietto.

“Prenda questo, è un biglietto per la tribuna centrale”.

Silvia restò con la bocca aperta. “Ma come…ma non posso accettare. E poi, i miei amici…”.

“Li molli e si veda la partita da un posto tranquillo, anche se sono suoi amici. Guardi, sono stato anch’io così, non giudico nessuno, ci mancherebbe. Ognuno fa la sua vita. Ma questa è una vita che non porta da nessuna parte. Prima o poi bisogna smetterla. Mi sembra il momento giusto. E’ la finale, c’è tensione, ci sono già stati incidenti, scontri. L’ho sentito alla radio. La polizia è nervosa”.

“Ma lei non viene alla partita?”.

“Io resto qui”.

Silvia rimase col biglietto in mano, lo agitava su e giù, quasi facendosi aria. Ma di aria, in quel sabato di inizio giugno, non ce n’era.

Tutto era fermo. Immoto. Guardò l’uomo davanti a lei e guardò i suoi “amici” che uscivano, uno alla volta, con il loro carico, dall’autogrill.

Prese una decisione.

“Lo prendo, però voglio sapere chi aspetta”.

Era sempre stata curiosa, fin da ragazzina, era sempre stata così, diretta. A volte le persone si offendevano, non capivano.

L’uomo, però, non fece una piega. Anzi, le rispose con un sorriso.

“Aspetto, anzi aspettavo una donna. Ma non verrà. Lo sapevo anche prima di venire qui. Ma sono venuto lo stesso, proprio come quando fai una lunga trasferta verso uno stadio dove sai che perderai. Era l’ultimo tentativo di cominciare una vita insieme, ma sapevo che non sarebbe venuta, che  non avrebbe avuto il coraggio di lasciare suo marito, come mi ha promesso decine di volte”.

“Perché è venuto, allora?”

“Perché ci sono esperienze da concludere, esistenze che bisogna finire, se non le avessi dato un ultimatum saremmo andati avanti ancora con questa situazione priva di sbocchi. Sono venuto per non voltarmi più indietro. Anche per me è l’ultimo autogrill”.

“Ma se sa che non verrà che ci fa qua?”

“Aspetto”.

“E chi?”.

Le sorrise. “Si aspetta sempre qualcuno”.

“Fino a quando?”

“Fino a quando non succede qualcosa”.

“Che cosa?”.

“Qualunque cosa”.

“E se non succede?”. 

“Qualcosa succederà. Qualcosa succede sempre”.

Silvia scese dal bus all’una e quarantacinque, dopo quasi 13 ore dalla prima volta che c’era stata. Non era proprio lo stesso autogrill, ma quello gemello, dall’altra parte della carreggiata. L’autogrill era illuminato a festa e decine e decine di tifosi si muovevano a gruppi cantando con una birra in mano. Forse, ora, l’avevano comprata, vista la felicità che esprimevano. Silvia non era tornata con i suoi compagni ultrà, ma con un club “normale”. Famiglie, bambini. Aveva chiesto un passaggio appena fuori dallo stadio. L’avevano guardata un po’ così, poi l’avevano fatta salire.  Avevano vinto e la vittoria annulla sospetti e distinzioni.

Corse al sottopassaggio e lo attraversò pestando i camperos su tutte le schifezze che erano depositate sul fondo. Sbucò dall’altra parte e si fermò. Le mani sui fianchi, solo lievemente ansimante.  L’ultimo autogrill era così diverso, così vuoto. Il flusso era al contrario, ora.

La Jaguar non c’era più e neanche l’uomo.

Provò una fitta di dispiacere. Silvia era andata in tribuna, come gli aveva promesso. All’ingresso l’avevano squadrata con raccapriccio e  avevano studiato il biglietto come finanzieri che controllano una banconota da 50 euro che dà l’impressione di essere falsa. Non era un posto di tribuna qualsiasi, ma uno di quelli con le hostess, il buffet, il braccialettino. Lei aveva mangiato, era stata al bagno, aveva visto la partita. Le era parsa un’esperienza strana, così, seduta (non aveva mai visto una partita seduta), senza urlare, anche se si era divertita nello scoprire che i “normali”, donne comprese, dicevano cose terribili, oscenità anche peggiori di quelle che si urlavano in curva.

Aveva deciso che quello sarebbe stato il suo ultimo viaggio da ultrà e forse anche da tifosa. Quell’uomo aveva ragione. Prima o poi ci sono strade che finiscono. Ma ce n’è sempre una che comincia.

Aveva preso alcuni decisioni. E tra le sue decisioni c’era quella di voler rivedere l’uomo.

E invece lui non c’era. Un’ombra di delusione le passò tra gli occhi. Poi, però, rifletté.

Quello, pensò Silvia, è un uomo affidabile. Uno che aspetta. Si portò i capelli biondi all’indietro con un gesto che faceva sempre. Quando rialzò lo sguardo vide l’uomo che la fissava e aveva una specie di sorriso, avrebbe cantato De André. Aveva solo cambiato posto, ora stava dall’altra parte del piazzale e fumava un sigaro. Un toscano.

L’auto non era rivolta verso lo svincolo che immetteva all’autogrill, ma era puntata dall’altra parte, come se fosse pronta a mettersi in viaggio .

Carlo guardava lei.

“Forse non aspetta più“ pensò Silvia con una specie di sommovimento nel cuore“ O forse aspetta una donna diversa”.

Ricambiò il sorriso, si infilò le mani nelle tasche dei pantaloni mimetici e si diresse verso l’uomo.

“Chi ha vinto?” Le chiese lui, abbracciandola con lo sguardo.

“Noi” rispose Silvia. 

E in quel momento non pensava alla partita. (dal sito personale dell’autore, Roberto Perrone)

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