Il punto. Coronavirus, lo stato d’eccezione necessita della legittimazione delle Camere

Giuseppe Conte

“Rigore è quando arbitro fischia” diceva l’allenatore serbo Vujadin Bostov, per prevenire inutili polemiche. Quello che vale per una partita di pallone vale, a maggior ragione, per la partita che l’Italia sta disputando contro la più grave emergenza affrontata dalla seconda guerra mondiale in poi. Dinanzi ai decreti Conte, quelli che sono stati già varati e quelli che fatalmente seguiranno, è doveroso accantonare recriminazioni di ordine politico e obiezioni di indole giuridica, sfuggendo alla tentazione del “noi l’avevamo detto prima”. È pur vero che anche un giudice emerito della Corte Costituzionale come Sabino Cassese ha formulato in un’intervista concessa al “Foglio” il 17 marzo scorso le sue riserve, facendo notare che “il decreto legge numero 6 (…) non risponde ai criteri fissati dalla giurisprudenza costituzionale in più sentenze” e constatando che “quasi tutti i diritti garantiti dalla Carta costituzionale sono stati limitati, in un momento in cui il garante di essi, il Parlamento, non può funzionare a dovere.”

Resta il fatto che sulla correttezza giuridico-formale della norma prevale l’esigenza di contenere la diffusione del contagio con provvedimenti draconiani per altro reclamati in primo luogo dagli esponenti del centro-destra che governano le Regioni del centro-nord. Certo, è lecito dubitare che il contagio si contrasti aprendo le porte delle carceri a delinquenti comuni, spesso tossicodipendenti, che una volta a piede libero non si farebbero intimorire dal rischio d’incappare in un nuovo procedimento penale e appesantirebbero il lavoro delle Forze dell’Ordine, o domandarsi se una riduzione degli orari di apertura dei negozi di alimentari non finirà per generare un effetto panico dagli effetti imprevedibili.  

Resta lecito, però, un interrogativo. Dieci giorni fa, al momento di varare i primi provvedimenti straordinari,  Giuseppe Conte si paragonava a Winston Churchill, intento a chiedere “lacrime e sangue” agli inglesi, nell’“ora più buia” del secondo conflitto mondiale. È una similitudine che però trascura un non irrisorio dettaglio: Churchill affrontò la guerra alla guida di un governo di unità nazionale, in cui erano entrati anche i laburisti, Conte intende rimanere alla testa di un gabinetto che non rispecchia gli orientamenti politici del Paese  e convive con un Parlamento restio a riunirsi per motivi igienico-sanitari. Ma forse questo il presidente del Consiglio lo sa fin troppo bene, così come sa che Churchill pagò questo allargamento della maggioranza con la sconfitta alle elezioni del luglio 1945, quando pure usciva trionfatore dal conflitto. Non è un buon motivo, però, per non cercare la più ampia legittimazione parlamentare quando si chiedono a tutti gli effetti pieni poteri.

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Enrico Nistri

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