Taccuino-Coronavirus/14. La Rsi, mio padre e i legami indissolubili che nascono in guerra

Guglielmo Marconi, padre dello scrittore Gabriele

Quando è morto mio padre, la basilica di San Lorenzo Fuori le Mura, accanto al cimitero del Verano, era strapiena, letteralmente traboccava di gente. I miei amici mi chiesero perché ci fossero tutte quelle persone, visto che mio padre non era un politico o comunque una persona pubblica. Io non seppi rispondere altro che la semplice verità: era molto amato. Da molti. Perché aveva attraversato la vita con un certo stile. Senza darlo mai a vedere, silenziosamente coerente. Fascista per sempre, ma allergico a qualsiasi nostalgismo. Curioso e vitale. Onesto, come si diceva una volta, “a tutta prova”. E di prove ne ebbe un’infinità. Era stato funzionario all’Inam, l’istituto dal quale partivano i finanziamenti per tutto l’ambiente medico, e dalle sue mani passavano un’infinità di soldi. Gli avrebbero fatto ponti d’oro perché decidesse in un modo piuttosto che in un altro… Ma non si può dire che “preferì” non arricchirsi, perché l’opzione alternativa, che gli proponevano in continuazione, per lui non esisteva proprio. Eppure in quella chiesa c’era moltissima gente che da lui aveva ricevuto solo cortesi “no” a qualsiasi richiesta “fuori concorso”.
Ma quello che ricordo di più, oltre a tutta quella folla, è stato il momento in cui i suoi vecchi amici hanno steso il Tricolore sulla bara. Erano quattro o cinque, non di più. Gli stessi di sempre… Giuliano, Tonino, Benito, Alfredo, Aldo… quelli che avevano diviso con lui il rancio nella Repubblica sociale italiana. I suoi camerati. Quelli veri, che non lo avevano mai abbandonato e che lui non avrebbe abbandonato mai. Quelli che, anche dopo mezzo secolo, con gli acciacchi e le pene della vecchiaia, a una sua telefonata avrebbero risposto anche a notte fonda, mollando tutto. Quelli che con lui, al ritorno dalla guerra e dalla prigionia, avevano dovuto rimboccarsi le maniche e ricominciare tutto da capo in un mondo ostile.
Io avevo davanti il suo esempio… E le parole di “Ritorno”, degli Amici del Vento, raccontavano la sua vita…
«E gli occhi di una donna che fissano pietosi/ i vent’anni di chi ha perso, nei tuoi gesti un po’ scontrosi»
… con una delicatezza che mi commuove ancora. Era un esempio d’onore, di povertà e di servizio che mi ha accompagnato fin da bambino… fin da quando mia madre mi raccontava le storie degli eroi romani… Muzio Scevola, Orazio Coclite… grandi non di potere ma dell’essenza stessa che fece grande Roma: il carattere e il senso dell’onore. Mio padre, con le sue storie di guerra, portava nella quotidianità (seppure la sua di vent’anni prima) le storie sulle quali avevo cominciato a fantasticare impugnando una spada di plastica. Lui era stato volontario nella Repubblica sociale, e quegli anni, vissuti con la mimetica della Folgore, a noi fratelli li faceva rivivere filtrando la tragedia attraverso la rievocazione mitica dell’amicizia. Da quei racconti ho imparato l’importanza, e la bellezza, del “noi”… Dalle sue parole ho bevuto a piene mani alla fonte sublime dell’amicizia.
«Domani, domani potrai ricominciare/ e dimostrare al mondo cos’è una fede vera»…
Mio padre, appena tornato, dovette ripartire per fare il militare, perché la guerra fatta come paracadutista dalla parte della Rsi non contava. Ironia della sorte, era capitato nella leva di mare, quindi due anni ancora. Suo padre si era ammalato durante la Guerra d’Africa e per curarsi aveva bisogno di alcune fiale costosissime, che in quel periodo la famiglia non si poteva permettere. Allora papà decise che, siccome doveva farsi altri due anni sotto le armi, tanto valeva usarli bene… Così diventò sommozzatore e andò a sminare i porti di tutt’Italia, attività pericolosissima ma con un indennizzo in denaro sonante: in pratica, ogni mina valeva una scatola di medicine per mio nonno.
Alla fine della fiera, mio padre non ci lasciò le penne e mio nonno nemmeno. Il fratello di papà, invece, sì.
Zio Carlo era stato ammazzato da partigiani festanti il 25 aprile del 1945, in quel di Verona. E il corpo, come quello di migliaia d’altri, non è mai stato ritrovato.
«Sentirsi come un cane, di tuo una divisa/ due gladi ed il tuo onore, un cuore una ferita»…
Poco tempo fa sono stato a trovare Giuliano, uno degli amici di mio padre, forse quello che gli era più vicino, per chiacchierare un po’ di lui… Finimmo a parlare di zio Carlo…
«Carlo c’era venuto a trovare a Ciriè… sarà stato metà febbraio del ’45… Ormai stavamo alla fine, quindi gli avevamo detto di restare con noi… Sai, alla Folgore eravamo bene armati e compatti… tant’è che nessuno ci ha tolto le armi… quindi con noi sarebbe stato più sicuro. Con noi si sarebbe salvato».
«E perché non è rimasto con voi?».
«Perché non se l’è sentita di lasciare i suoi camerati… tuo padre aveva insistito, ma lui aveva sorriso, sapendo perfettamente come zittirlo: “A Guglie’, tu li abbandoneresti Giuliano e gli altri?”… E infatti tuo padre non aveva potuto fare altro che abbracciarlo, pregando Iddio di rivederlo un giorno».
Ma Dio aveva deciso diversamente… E mio padre ogni tanto partiva per cercarlo.
Io ero un bambino e credevo andasse fuori per lavoro: così mi dicevano a casa. Ma ogni volta che tornava aveva la stessa faccia dura, svuotata. Finché un giorno, preoccupato da quei viaggi di lavoro che finivano così tristemente, con grande sforzo chiesi a mia madre se stavamo per diventare poveri… Solo allora mi dissero la ragione per cui papà ogni tanto partiva per il Nord…
C’era stata la guerra, una guerra fratricida… Suo fratello e tanti suoi amici erano morti, l’orrore aveva sommerso le loro vite. Eppure, un mese prima di morire, al ritorno da un grande raduno dove aveva rivisto tanti suoi vecchi camerati… anche quelli espatriati in Sud America una vita prima… raccontando la giornata si mise a piangere: era la prima volta che lo vedevo così. Ebbene, davanti a mia madre che adorava, e a noi figli che amava allo stesso modo… davanti alla famiglia che gli aveva restituito gioie immense, non esitò a dire che quelli erano stati gli anni più belli della sua vita.
Era dicembre 1986, ed erano passati solo sei anni dal cataclisma che si era abbattuto sui “miei” anni.
Non ebbi difficoltà a capire mio padre, quella sera. E lo capisco ancora adesso, che di anni ne son passati quasi quaranta.
(Da “Noi – canzoni d’amore per la lotta e di lotta per l’amore)

@barbadilloit

Gabriele Marconi

Gabriele Marconi su Barbadillo.it

Exit mobile version