Cultura. “Il tramonto dell’Occidente”: dalla traduzione di Evola a quella di Raciti fino alla riscoperta del socialismo prussiano

Un affresco di un possibile tramonto dell'Occidente

L’ultima traduzione de Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler, edita da Aragno

Si potrebbe scrivere una piccola storia della germanistica italiana ricostruendo la recezione dell’opera di Oswald Spengler nel nostro Paese, e in particolare il succedersi delle traduzioni del suo capolavoro, dal 1957 ai nostri giorni. La prima edizione del Tramonto dell’Occidente uscì proprio quell’anno, per i tipi di una casa editrice Longanesi che non era più di Leo Longanesi, costretto a cedere la proprietà dell’azienda per la sua ostilità al sistema di potere democristiano, ma che longanesiana rimaneva nelle grandi scelte editoriali. Traduttore dell’opera fu Julius Evola, e si trattò senz’altro di una scelta non casuale. Evola non era un traduttore di professione, anche se svolgeva tale attività abitualmente, per integrare il modesto introito di una pensione d’invalidità, i diritti d’autore delle sue opere che non superavano quasi mai il migliaio di copie di tiratura e il magro borderò dei periodici cui collaborava. Però conosceva bene il tedesco, che gli era stato utile nei suoi molti, in certi casi troppi, contatti col mondo politico e culturale germanico fra le due guerre e, come risulta dalle confidenze del Duce a Yvon de Begnac, raccolte nei Taccuini mussoliniani, era stato con il professor Vittorio Beonio-Brocchieri e il maggiore Emilio Canevari, fra gli artefici della versione italiana di alcune opere minori di Spengler. In più, era un personaggio senz’altro inscrivibile, soprattutto per la sua opera principale, la Rivolta contro il mondo moderno, in quella cultura della crisi cui il Tramonto aveva dato il la, senza essere per questo un acritico divulgatore delle teorie di Spengler.

Julius Evola

Nella sua prefazione al volume non si limitava a rendere conto al lettore delle scelte compiute nel volgerne in italiano lo stile “tutt’altro che piano” e alcuni vocaboli chiave da lui utilizzati, ma esprimeva le sue riserve sull’opera, non molto diverse da quelle che, ventun anni prima, aveva espresso nel necrologio dello scrittore e nella recensione su “Vita Italiana” della edizione italiana di Anni decisivi. Insofferente dell’etichetta di “Spengler italiano” che gli era stata affibbiata negli anni Trenta, Evola prendeva le distanze dalla maggior parte delle categorie storiografiche elaborate nel Tramonto, lasciando al lettore il compito di “separare, nel complesso abbastanza confuso dell’opera spengleriana, quel che malgrado tutto ha un valore positivo e si presta a una adeguata utilizzazione in sede di storiografia morfologica da quel che deve esser lasciato senz’altro cadere”.

Tradotto e pubblicato in Italia solo nel 1956

Un interrogativo che sarebbe interessante porsi è come mai il Tramonto sia uscito in Italia solo nel 1956, in epoca di democrazia restaurata, e non negli anni Venti o Trenta,  nonostante il successo internazionale dell’opera e l’apprezzamento per Spengler di Mussolini, che aveva promosso la traduzione di Anni decisivi, dedicandogli una lusinghiera recensione, uscita per altro anonima, sul “Popolo d’Italia”. L’ostilità della cultura crociana e in genere idealistica nei confronti dell’opera costituisce solo una mezza spiegazione, anche perché Spengler aveva comunque trovato estimatori in studiosi di alto livello come Adriano Tilgher e Lorenzo Giusso, o in eclettici outsider come Aniceto Del Massa, all’epoca critico d’arte della “Nazione”, per poi divenire negli anni Cinquanta responsabile delle pagine culturali del “Secolo d’Italia”. Un panorama intellettuale ricostruito con molta lucidità dalla tesi di laurea di Andrea Scarabelli su Julius Evola e la ricezione italiana di Oswald Spengler, ora disponibile sul sito della Fondazione Evola. È più probabile che a sconsigliare la traduzione del Tramonto, a parte l’onerosità della pubblicazione di un volume di oltre 1500 pagine, sia stato il pessimismo storico, almeno apparente, dell’opera. Spengler poteva risultare funzionale alla cultura fascista come esaltatore del cesarismo, come critico del regresso demografico, come interprete di una filosofia vitalistica, nonché come ammiratore di Mussolini, ma non come profeta del declino del Vecchio Continente. Paradossalmente, l’avvento dell’Asse non ne favorì la fortuna in Italia. L’autore del Tramonto era stato uno dei più severi critici della repubblica di Weimar e nel 1932 aveva votato per Hitler, cui però non aveva lesinato le critiche. La sua ostilità al razzismo biologico e darwiniano, che gli avevano fatto scrivere in Anni decisivi “chi parla troppo di razza non ne ha alcuna”, il suo disprezzo per Alfred Rosenberg e il suo sarcasmo per il Il mito del XX secolo, da lui definito il libro più venduto e meno letto al mondo dopo la Bibbia, fecero sì che quando morì, nel 1936, fosse appena tollerato dal regime nazionalsocialista.

Il tramonto dell’Occidente nella traduzione del 1970

Nel dopoguerra, invece, la versione italiana del Tramonto dell’Occidente assumeva un ben diverso significato, in un clima nel quale molte profezie spengleriane cominciavano ad avverarsi con l’avvento della decolonizzazione e, nell’ambiente neofascista, il pessimismo storico seguito al crollo del regime e alla disfatta militare induceva a riconoscersi nel Kulturpessimismus del pensatore prussiano, e dello stesso Evola. 

Una riedizione del Tramonto dell’Occidente uscì, invariata, nel 1970, in un clima nel quale non era ancora cominciata la demonizzazione di Evola a causa delle intemperanze di alcuni suoi imprudenti discepoli. E l’interesse del mondo della destra, soprattutto giovanile, nei confronti di Spengler tornò a essere sollecitato, tre anni dopo, dalla pubblicazione per i tipi dell’editore Volpe, nella collana “L’Architrave”, diretta da Gianfranco De Turris, di Ombre sull’Occidente, un’antologia dei suoi scritti preceduta da un’ampia e non corriva introduzione di Adriano Romualdi.

Ombre sull’Occidente, curato da Gianfranco De Turris per la collana Architrave delle edizioni Volpe

Enfant prodige (e terrible) della cultura di destra, destinato a una precoce scomparsa in un incidente stradale, figlio del deputato e storico esponente del Msi Pino, Romualdi prendeva anche lui le distanze da Spengler, ma per motivi diversi da Evola. Se questi non condivideva essenzialmente il biologismo evoluzionistico dell’autore del Tramonto dell’Occidente, mentre ne apprezzava il prussianesimo conservatore, il giovane studioso ne criticava la presa di distanze nei confronti del nazionalsocialismo e, con una delle sue icastiche invettive, l’accusava di essere rimasto fino all’ultimo un professore di liceo della Germania guglielmina, amante delle buone letture e delle belle maniere.

I controversi interventi di Jesi nel 1978 sulla traduzione di Evola

Un ritorno d’interesse nei confronti del Tramonto arrivò alla fine degli anni Settanta, in un clima politico-culturale profondamente mutato. Da un lato una sinistra che cominciava ad avvertire la crisi del marxismo iniziava un’attività di recupero di autori appartenenti al repertorio intellettuale della destra; dall’altro, paradossalmente, era giunta al culmine l’opera di demonizzazione del pensiero di Evola, a cinque anni dalla sua scomparsa, e “l’eschimo in redazione” spadroneggiava non solo nei quotidiani, ma nelle case editrici. Prodotto di questo clima fu, nel 1978, la nuova edizione del Tramonto dell’Occidente, sempre per i tipi della Longanesi, che ebbe come ideatore e dominus Furio Jesi, germanista, filologo, studioso del mito, redattore editoriale e militante della nuova sinistra, giunto alla cattedra universitaria prima a Palermo poi a Genova senza avere mai dato nemmeno l’esame di maturità. Preoccupazione di Jesi fu “de-evolizzare” il Tramonto. Poté farlo senza difficoltà, in una Longanesi ormai “delonganesizzata”. Sostituì la prefazione di Evola, scomparso quattro anni prima, con un saggio suo e i contributi di due giovani ricercatrici, Rita Calabrese Conte e Margherita Cottone. Non contento di questo, intervenne sulla traduzione. Non la sostituì con un’altra, come sarebbe stato legittimo, ma la ritoccò ad libitum, con una scelta di dubbia correttezza editoriale. Chi scrive pubblicò una garbata stroncatura di questa operazione nel numero di febbraio-aprile 1979 di “Elementi” dal titolo “Il caso Spengler. Il linguaggio delle parole senza idee”. Se Spengler fu, secondo l’ingenerosa definizione di Thomas Mann, che pure ne subì in un primo momento l’influenza, “la scimmia astuta di Nietzsche”, Jesi si comportò in questa circostanza come il pappagallo saputo di György Lukács, grande inquisitore del pensiero irrazionalista; e tutto questo sia detto col massimo rispetto per la sua statura intellettuale e per la sua fine precoce, curiosamente simile nella sua casualità assurda a quella di Adriano Romualdi. Interessante, in quella operazione editoriale, resta il tentativo di sottrarre all’area culturale della destra un autore che esercitò una straordinaria influenza sulla cultura mondiale. Basti pensare che un Toynbee e un Adorno, un André Gide e lo stesso Thomas Mann subirono profondamente l’influenza del suo capolavoro, sia pure, nel caso di quest’ultimo, derubricandolo a un semplice “romanzo intellettuale”.

Nel 1991 ritorna la traduzione di Evola per Guanda

Indice di un nuovo e più civile clima culturale maturato negli anni Ottanta è la nuova edizione del Tramonto uscita nel 1991 per i tipi di Guanda. Rimasero i saggi della Calabrese Conte e della Cottone, scomparve l’introduzione di Jesi, nel frattempo deceduto: sinistro caso di nemesi editoriale. Venne ripristinata la traduzione di Evola, per altro a suo tempo apprezzata da germanisti del rango di Cesare Cases. L’introduzione fu curata da Stefano Zecchi, studioso non certo sospettabile di sintonia con la destra radicale (sua nonna era un’ebrea triestina), ma attento senza faziosità ad autori non conformisti, come dimostra, fra l’altro, il suo saggio  Paradiso Occidente. La nostra decadenza e la seduzione della notte, con l’attenzione riservata ad autori come Guénon, Heidegger, Evola e lo stesso Spengler.

La nuova versione del Tramonto pareva aver posto la parola fine alle controversie sull’opera di Spengler. E invece Giuseppe Raciti, docente di filosofia teoretica all’università di Catania, già autore di un saggio sul pensatore prussiano, si è cimentato di nuovo nel magnum opus. Rispetto allo Jesi, occorre riconoscergli quanto meno una maggiore onestà: non ha preteso di correggere con la matita rossa e blu i veri o presunti errori del “barone Evola” (così lo chiamava Mussolini nei colloqui con de Begnac), ma si è accollato l’onere non indifferente di ritradurre le oltre 1.500 pagine del Tramonto. Pur non essendo un germanista in senso stretto (ma al suo attivo ha pure la versione italiana di parte dell’epistolario di Goethe), pur essendosi dovuto aiutare, come ha ammesso in un’intervista, con un dizionario on-line, ha compiuto un’opera di tutto rispetto, anche se forse pleonastica, cominciata nel 2017 con la pubblicazione per i tipi di Aragno del primo volume del Tramonto e terminata pochi mesi fa, con l’uscita del secondo (nella versione longanesiana, invece, l’intera opera era proposta in un unico volume, raccolto in un elegante cofanetto). 

Se traduire c’est toujours trahir, come avvertono i francesi, ritradurre potrebbe implicare un doppio tradimento. Nel caso di Raciti non è proprio così. C’è, semmai, un tentativo di valorizzare nell’enorme e a volte (perché non dirlo?) farraginoso lascito di Spengler una componente – la teorizzazione di un “socialismo prussiano” incompatibile col marxismo – che costituisce solo una componente di una sterminata produzione culturale. Il tentativo merita rispetto; un po’ meno ne meritano alcune recensioni dell’opera apparse nelle terze pagine dei grandi quotidiani, che ne esaltano il merito di avere “liberato” Il tramonto da Evola. La discussione, naturalmente resta aperta: l’importante è che, dopo avere de-evolizzato Spengler, non si finisca per de-spenglerizzarlo.

@barbadilloit

Enrico Nistri

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