Taccuino-Coronavirus/23. La clausura e l’elogio della lentezza quando evapora l’utopia “smart”

Il lungomare di Bari

Il lungomare di Bari

Altro che Italia smart o smart city. La modernità italiana è rarefatta, e allora viva la lentezza. Il Coronovirus ha bloccato il commercio, ridotto la produzione industriale, costretto alla reclusione volontaria in casa milioni di italiani.

Il popolo prova a riscoprire il senso del dovere e nel frattempo riscopre la lentezza. Nulla è più veloce come un clic. Tutta ha tempi lunghi. Una spedizione alla posta? Coda all’ingresso per il numero, coda per lo sportello. L’acquisto di un chilo di pane? Numeretto e coda all’ingresso del panificio,  distanza di un metro e mezzo dagli altri clienti.

L’essere intruppati in coda ricorda le narrazioni della vita negli stati totalitari, i serpentoni davanti agli alimentari in Unione sovietica o in Cina. Adesso è la realtà nelle città d’Italia, a Milano come a Bari, a Roma come a Palermo…

Non posso dire che mi piacciono le code, ma apprezzo la riscoperta della lentezza, come un ritmo musicale antico che avevamo dimenticato. Codificato meravigliosamente in un brano dello scrittore e sociologo Franco Cassano che qui vi riproponiamo. (michele de feudis)

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“Bisogna essere lenti come un vecchio treno di campagna e di contadine vestite di nero, come chi va a piedi e vede aprirsi magicamente il mondo, perché andare a piedi è sfogliare il libro, e invece correre è guardarne solo la copertina. Bisogna essere lenti, amare le soste per guardare il cammino fatto, sentire la stanchezza conquistare come una malinconia le membra, invidiare l’anarchia dolce di chi inventa di momento in momento la strada. Bisogna imparare a star da sé e aspettare in silenzio, ogni tanto essere felici di avere in tasca soltanto le mani. Andare lenti è incontrare cani senza travolgerli, è dare i nomi agli alberi, agli angoli, ai pali della luce, è trovare una panchina, è portarsi dentro i propri pensieri lasciandoli affiorare a seconda della strada, bolle che salgono a galla e che quando son forti scoppiano e vanno a confondersi al cielo. È suscitare un pensiero involontario e non progettante, non il risultato dello scopo e della volontà, ma il pensiero necessario, quello che viene su da solo, da un accordo tra mente e mondo.

Franco Cassano

Andare lenti è fermarsi su un lungomare, su una spiaggia, su una scogliera inquinata, su una collina bruciata dall’estate, andare col vento di una barca e zigzagare per andar dritti. Andare lenti è conoscere le mille differenze della propria forma di vita, i nomi degli amici, i colori e le piogge, i giochi e le veglie, le confidenze e le maldicenze. Andare lenti sono le stazioni intermedie, i capistazione, i bagagli antichi e i gabinetti, la ghiaia e i piccoli giardini, i passaggi a livello con gente che aspetta, un vecchio carro con un giovane cavallo, una scarsità che non si vergogna, una fontana pubblica, una persiana con occhi nascosti all’ombra. Andare lenti è rispettare il tempo, abitarlo con poche cose di grande valore, con noia e nostalgia, con desideri immensi sigillati nel cuore e pronti ad esplodere oppure puntati sul cielo perché stretti da mille interdetti. Andare lenti vuol dire avere un grande armadio per tutti i sogni, con grandi racconti per piccoli viaggiatori, teatri plaudenti per attori mediocri, vuol dire una corriera stroncata da una salita, il desiderio attraverso gli sguardi, poche parole capaci di vivere nel deserto, la scomparsa della folla variopinta delle merci e il tornar grandi delle cose necessarie. Andare lenti è essere provincia senza disperare, al riparo dalla storia vanitosa, dentro alla meschinità e ai sogni, fuori della scena principale e più vicini a tutti i segreti. Il pensiero lento offrirà ripari ai profughi del pensiero veloce, quando la macchina inizierà a tremare sempre di più e nessun sapere riuscirà a soffocare il tremito. Il pensiero lento è la più antica costruzione antisismica”.

@barbadilloit

Michele De Feudis

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