Cultura. “La voce della fogna”: itinerari e contaminazioni di una rivista senza tempo

La testata de La Voce della Fogna, diretta da Marco Tarchi (nella foto piccola)
La testata de La Voce della Fogna, diretta da Marco Tarchi (nella foto piccola)

Le ristampe celano talvolta, spesso in modo più o meno velato, propositi nostalgici; a maggior ragione potrebbe essere indotto a pensarlo l’osservatore che, conoscendo poco o per niente l’ambiente neofascista, intraprendesse la lettura della “Voce della fogna” (1974-83), seconda riedizione dopo quella proposta nel 1991. 

E’, invece, l’ex direttore della rivista fiorentina, Marco Tarchi, a sgomberare il campo da un probabile equivoco: nella Premessa ricorda, infatti, che quell’esperienza, condivisa da giovani che  rifiutarono sia l’estremismo sia il fascismo “in doppiopetto” e che erano in gran parte destinati a percorrere strade diverse da quella della militanza di partito, appartiene non solo ad un passato remoto ed archiviato, ma si concluse con un fallimento. 

“Tutto, fuori, puzza!”, a cominciare dal sistema dei partiti a guida democristiana, clientelare e corrotto, fino a quello radio-televisivo. E’ questo uno degli incipit del primo numero della rivista, che esprimeva già nel nome una reazione psicologica allo slogan “Fascisti carogne tornate nelle fogne!”, cioè all’odio e all’intolleranza riservati a coloro i quali, nel contesto avvelenato degli anni piombo (a volte oggi rivisitato da più parti con narrazioni benevole, se non entusiastiche), ostacolavano l’”imminente” rivoluzione comunista e perdevano, quindi, il diritto alla parola nelle piazze e nelle Università.

Satirica, ironica, irriverente, talvolta sfuggente nei propri bersagli polemici, più propensa all’esercizio della critica che costruttiva, contraddittoria, ma profonda e ricercata, la “Voce della fogna” si caratterizzò per la ricerca di una “terza via” che si contrapponesse all’atlantismo (“gli americani ci hanno colonizzato il subconscio”, per citare Wenders), alla civiltà occidentale mercantile e individualista, ancor prima che al neo-colonialismo sovietico e alle utopie egualitarie e materialiste di stampo marxista. 

Aperta a tematiche inedite per un partito che – tranne per rarissime ed isolate eccezioni – diffidava di chi “perdeva tempo” con la cultura e con gli intellettuali, mentre consolidava al proprio interno lo stereotipo del militante “tutto muscoli e niente cervello”, la rivista si poneva due obiettivi principali: svecchiare il Movimento Sociale Italiano, immobile ed “auto-commiserantesi” nella posizione di nicchia prodotta da un isolamento che i partiti dell’arco costituzionale perpetuavano da trent’anni; attribuire un’identità ad una comunità che, altrimenti, correva il rischio di dissolversi.

Le catacombe diventarono, quindi, espressione di un ambiente eterogeneo che non si focalizzava solo su editoriali e approfondimenti di attualità politica. La fanzine, infatti, recensiva le novità cinematografiche, letterarie e musicali, spaziava dalla storia al genere fantasy, dal sostegno alle esperienze delle radio libere e dei gruppi rock alternativi di destra (il disegnatore dei topi e critico musicale, Jack Marchal, proveniva da Ordre Nouveau) alla questione ecologica, dallo sforzo di coordinamento di centri librari “irradiatori” di cultura allo “sdoganamento” del dibattito relativo alla condizione femminile, dal turismo all’alimentazione alternativi. 

La volontà di evolvere e di respirare un’aria nuova, la ricerca delle radici della propria comunità nelle affinità con il movimento Jeune Europe e con il GRECE, negli elfi del mondo di mezzo di Tolkien, negli “scandalosi” scritti di Celine e di Brasillach, nel socialismo fascista di Drieu La Rochelle, nell’interpretazione autonoma e nel recupero di parte del filone di pensiero irrazionale e di quello tradizionalista (senza piegarsi ai condizionamenti e ai luoghi comuni tramandati dai “padri”), si accompagnarono alla negazione del fatto che la vita di partito si esaurisse – svilendosi – nel nostalgismo anacronistico, nel culto del capo, nei dogmi del binomio legge/ordine, nelle attività delle sezioni, nell’organizzazione di comizi e nell’affissione di manifesti.

Eventi come il primo campo Hobbit, molto più dei due successivi che furono sostanzialmente “vittime” della normalizzazione almirantiana, pur non immuni da incomprensioni e confusione, furono caratterizzati dalla volontà di rompere gli schemi, di scrollarsi di dosso un nazionalismo gretto e chiuso a favore dell’affermazione della civiltà europea, intesa come comunità finalmente libera dalle logiche della guerra fredda e cementata da vincoli di solidarietà reale e non contingente. 

Alain de Benoist

Le “contaminazioni” con la Nouvelle Droite di Alain De Benoist, i seminari, i dibattiti e i convegni con gli intellettuali più illuminati della sinistra e il significativo fermento culturale che si tradusse nella proliferazione di altre riviste molto sofisticate (Linea, Elementi, Trasgressioni, Diorama Letterario, con le ultime due ancora nelle librerie) fecero da “brodo di coltura” della nuova destra italiana. 

Negli anni del “riflusso”, della ricerca attiva e talvolta disperata di una nuova concezione della modernità che non risentisse dei falsi miti del progresso di derivazione illuministica, del disincanto di chi intuì come i movimenti di contestazione (a partire da quello del ’68) avessero rivoluzionato i costumi ed ottenuto alcune conquiste sociali, ma senza incidere affatto nella sfera politica ed economica perché “figli” dell’omologazione occidentale e capitalista, l’elaborazione di nuovi progetti, ipotesi e strategie enfatizzò i tratti di discontinuità di un “luogo” – desertificato da chi si proclamava di destra – aperto innanzitutto al dialogo e al riconoscimento dell’altro.

Esso si caratterizzava per una concezione del mondo: spirituale, cioè tesa al recupero del senso del sacro e della dimensione mitica del mondo; comunitaria, per cui attribuiva massima importanza alle etnie, alle culture popolari e alle loro componenti del gioco e della festa; organica, secondo la quale entità come i popoli, le culture e le nazioni “vivessero di vita propria”, trascendendo da quella delle loro singole parti; differenziata, vale a dire sostenitrice del diritto di ciascun popolo all’affermazione della propria specificità, risultante da un processo di selezione e conservazione dei tratti innovativi di usi, costumi e tradizioni.

Influenzata dalla idee diffuse dalla rivista francese Europe Action (1963-66), la nuova destra non volle strutturarsi in partito, ma si adoperò per l’elaborazione di nuove sintesi che non risentissero del fardello di categorie ormai anacronistiche per le società post-industriali, a cominciare dalla frattura destra/sinistra (di cui preconizzò il superamento): aldilà delle etichette, per fronteggiare le crisi del sistema capitalistico il rinnovamento passava attraverso la creazione di nuovi poli di dibattito, un’attiva mobilitazione delle coscienze ed un cambio di mentalità frutto del radicamento di una nuova antropologia che ridefinisse le forme del politico.

Non privi di importanti contenuti sociali, i progetti della nuova destra trovarono parzialmente cittadinanza nelle minoritarie correnti rautiane di “Spazio Nuovo” e “Linea Futura”, attirando l’attenzione e la curiosità dei mass-media, in un contesto reso ostico da avversari – più di destra che di sinistra – che spesso osteggiarono pregiudizialmente aperture e dibattiti considerati “scandalosi”, incorrendo non di rado in fraintendimenti.

All’inizio del 1981 Tarchi fu allontanato dal Movimento Sociale Italiano. I contrasti con Almirante, divenuti più aspri nel momento in cui il segretario inaugurò la campagna di firme a favore del referendumpro pena di morte, ebbero l’epilogo proprio a seguito di un articolo apparso sulla “Voce della Fogna”, che pubblicò una falsa prima pagina del Secolo d’Italia in cui si annunciava l’epurazione di un gruppo di “traditori badogliani”, l’annullamento del Congresso nazionale del partito e le dimissioni dello stesso leader. 

Era l’ennesima caricatura di un linguaggio retorico, vuoto e fuori dal tempo di quadri dirigenti del tutto privi di strategia, dediti alla demagogia e al trasformismo, compresi quelli scissionisti che avevano dato vita all’effimera esperienza di Democrazia Nazionale, prigionieri dei propri tic e dei propri rituali, omologati a direttive di vertici che soffocavano sul nascere l’idea di spazi alternativi di discussione.

Confluirono, in buona parte, nella nuova destra i redattori della “Voce della Fogna” che aveva chiuso i battenti per autonoma scelta nel 1983; altre riviste già citate, più mature e meno “viscerali”, raccolsero idealmente il testimone di chi contribuì in modo significativo ad interpretare le aspirazioni e le inquietudini esistenziali che attraversavano, in realtà, un mondo molto più ampio e variegato di quello dell’underground missino.

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Andrea Scarano

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