I seguaci del Principe di Montenevoso sono infatti sparpagliati sui due fronti. Nel marzo del 1937 Giulio Jentile e Marco Paganoni sono tra le file dei volontari fascisti italiani del C.T.V. che vengono battute dai repubblicani a Guadalajara. Invece il loro vecchio amico Alessandro «Dado» Lazzaroni che ha scelto l’anarchia è finito dall’altro lato. E non è il solo: ci sono anche socialisti come David che ai tempi di Fiume D’Annunzio aveva soprannominato Ferro Battente per la sua bravura nel sedare le risse usando una sedia metallica. Ma in questa guerra dove l’amico rischia di sparare all’amico, all’improvviso le cose si complicano. Sul versante dei Repubblicani i comunisti che hanno l’appoggio dei russi non ne vogliono più sapere di “deviazionisti”: ovvero di chi non prende ordini da Mosca.
Ed ecco che «Dado» Lazzaroni finisce in galera. E con la Ceka di Madrid ben decisa a sistemarlo per le feste. Abbastanza perché David passi il confine e chieda aiuto ai vecchi amici, benché fascisti. Nasce così una rocambolesca spedizione per salvarlo. Una spedizione riassumibile in un motto: «Abbiamo preso strade diverse, amico mio, è vero. Ma siamo “compadres”, e tali rimarremo fino alla morte». Ma questa è solo la vicenda che dà il via a un lungo percorso, pieno di battaglie e fughe che riporterà Giulio in Africa Orientale sulle tracce di un giovanile amore, dove farà una scoperta sconcertante.
La ricerca storica che sta dietro la narrazione è ben fatta. Soprattutto dal punto di vista culturale. Giulio, che è maestro elementare, ha la passione del giornalismo e Marconi ne approfitta, senza mai diventare pedissequo, per fagli raccontare un bel pezzo della vita culturale del Ventennio. Ma l’aspetto più valido del testo è il senso dell’epos, per certi versi simile a quello di scrittori come Wu Ming. I personaggi sono “veri”, ma anche alti e quasi tolkieniani. Non è poco per un romanzo italiano. Purtroppo in una letteratura dai gusti sempre più ombelicali rischia di essere derubricato a un oggetto di genere. A cui magari applicare un’etichetta politica. Giusto per essere sicuri di sbagliare alla grande.
* da Il Giornale