Cinema. “Il Primo Natale” di San Francesco: la nascita di Cristo nella favola di Ficarra e Picone

Ficarra e Picone nel nuovo film

Me l’immagino il giullare di Dio che se la spassa a guardare il film “Il primo Natale” di Ficarra e Picone. Francesco, il santo dei poveri, poteva essere un po’ piccato dall’ingerenza dei due comici siciliani. Francesco d’Assisi il presepe l’ha inventato, perché aveva un gran senso del popolo. Il popolo che non urla tirato per la giacchetta da una parte o da un’altra ma il popolo affamato, umile, portatore di una bontà naturale derivata dagli stenti e dalle disuguaglianze, che se anche tira fuori il male del Caino che è in ognuno di noi, poi di fronte al miracolo della Bellezza, sa anche commuoversi. A modo suo, offrendo a chi di quel miracolo è principio ed espressione pecore, pane, frutta, un accordo di cornamusa e un inchino. Il punto è sempre la Bellezza. Francesco la cercava nel Creato, ne dava lode a Dio e quel gesto di festeggiare la memoria del dies natalis, dell’epifania di luce dell’infinito nel finito, del bambino nato fuori dalle regole per dare regole, della mangiatoia eucaristica non è altro che evocare e rievocare la Bellezza come mistica simbolica nella gioia di ogni avvento. Francesco fa il primo Natale a Greccio nel 1223 e da quelle pietre con tutto il corredo etimologico e popolare deriva la prima raffigurazione della spiritualità del calendario cristiano. Dopo le tante rappresentazioni del Natale doveva arrivare proprio il cinema di Ficarra e Picone a restituire a quella prima delicata simbolizzazione della natività il senso tutto umano della curiosità di vedere con gli occhi il corpo di Cristo.

La curiosità di Valentino (Picone), il parroco pregaiolo, e lo scetticismo furfante di Salvo (Ficarra), uno 007 pasticcione e ladro di sacre reliquie -catapultati nell’anno zero nei pressi di Betlemme- finiranno dentro il presepe a fare da bue e asinello, a dirci che se lo sai cercare quel bambinello esiste, quel miracolo c’è, quel primo Natale è lo stesso Natale da duemiladiciannove anni. Lo stesso o quasi. Perché a Greccio non si rideva. Invece, nel Natale per la regia di Ficarra e Picone si ride e tanto. Si ride per quelle battute cui lo straordinario duo comico ci ha abituato: intelligenti, garbate, mai volgari, acute e allusive. Si ride perché anche la storia delle storie nelle sceneggiature di Ficarra e Picone (qui con Nicola Guaglianone e Fabrizio Testini) è narrazione da svuotare di luoghi comuni (un bastone ricurvo non fa Giuseppe, un incarnato roseo non fa Maria ma un barcone di richiedenti asilo fa presepe).

Si ride perché tra la faccia da eterno imbambolato di Valentino e l’occhio birbante di Salvo ci sono fulminanti gag (la tombola con gli anni di Cristo, il censimento davanti al soldato digiuno di catechismo, la distrazione della tigre). Si ride perché è un film di Ficarra e Picone. E sebbene qualche trovata sia debole (per esempio, la scena dei cannoli: a proposito, fossi Siracusa penserei bene di ringraziare i due comici per il cameo tutto ortigiano) e vi sia un po’ di retorica nella parte finale, Ficarra e Picone hanno fatto un film importante. Hanno cambiato il palinsesto natalizio tutto panettoni e babbi natale sbracati e battute grossolane. Hanno mostrato che se proprio di identità dobbiamo twittare, facciamolo dentro quella tradizione mediterranea che cancella lo spazio di mare tra terra e terra e annulla il tempo nel tempo dell’uomo. Un film sul presepe non era pure “Non c’è più religione” di Luca Miniero? Assimilarli a Benigni e Troisi di “Non ci resta che piangere”? Il cinema si fa con il cinema, la citazione semmai è pure arte. Soprattutto quando l’arte surclassa le citazioni o fa loro mirabile verso. Ma il gioco comico di Salvatore Ficarra e Valentino Picone anche in questa prova cinematografica deve molto a Franco Franchi e Ciccio Ingrassia soprattutto nelle movenze dal gatto e la volpe (sarebbe bello vederli in un Pinocchio!). Perduti nel deserto o in mezzo al suq, avanzano l’uno goffo l’altro spavaldo, mentre l’azione drammatica esige lo scambio. Poi, senza perdere l’uno il ceffo brutto e l’altro il viso angelico, imparano a fare carne della spiritualità. E Francesco da Assisi annuisce. Non manca l’azione, anzi. Il film è tutta una corsa tra inseguimenti e fughe e la produzione da colossal rende merito ai costumi di Cristina Francioni, alla scenografia di Francesco Frigeri oltre a quella naturale di Ouarzazate, e su tutti alla splendida e ironica fotografia di Daniele Ciprì, che pare molto divertirsi sui particolari e i primi piani di Massimo Popolizio,un sardonico perdente potente Erode.

Un bel film che osa scommettere sul cuore, che pur senza i frizzi geniali dell’insuperabile “L’ora legale” continua a offrire la leggerezza della riflessione. Che di questi tempi non è poco.

@barbadilloit

Daniela Sessa

Daniela Sessa su Barbadillo.it

Exit mobile version