Libri. “La Perestrojka e la fine della DDR”: l’epilogo del socialismo reale

Lo stretto confine tra l’Oriente socialista e l’Occidente liberal-capitalista si aprì improvvisamente nell’autunno del 1989, quando i processi politici di cambiamento nei Paesi della sfera d’influenza sovietica acquisirono toni drammatici. Vecchie e nuove forze iniziarono a gareggiare per il potere, all’interno di strutture statali sempre più fragili, la cui stabilità era stata per decenni garantita dal gigante sovietico – anch’esso sulla via del disfacimento. In verità, la storia, disgraziatamente troppo breve, della volontà di rinnovamento di un sistema di Paesi che per decenni aveva fornito un’alternativa economico-sociale al capitalismo è molto più complicata di come ci è stata tramandata.

Il libro di Hans Modrow “La Perestrojka e la fine della DDR”, pubblicato quest’anno da Mimesis, come contributo per il trentennale della caduta del Muro di Berlino, lungi dall’essere una fredda analisi politica, offre una prospettiva molto personale sugli eventi del tempo e in particolare offre degli spunti a coloro i quali pensano che un’alternativa socialista nel mezzo di un mondo “globalizzato” non abbia più senso. La domanda che vuole porre l’autore è allora: la forma sovietica del socialismo era destinata a finire nel modo in cui finì o c’erano delle reali possibilità per un autentico rinnovamento? Questo tipo di socialismo doveva per forza tramontare per rendere possibile la nascita di un socialismo “democratico”, o sarebbe stato possibile che si riformasse ricorrendo unicamente alle proprie forze?

Rispondere a queste domande non significa prendersela con la storia, che ha scelto il proprio corso. Tuttavia, è bene ricordarlo, non c’è mai un’unica strada possibile e quella percorsa non è per forza la migliore. È vero che esiste una logica interna, una certa coerenza e un implacabile rigore nei processi storici, ma tali processi non possono essere previsti con precisione o governati nei loro aspetti particolari; di conseguenza, non si può mai sapere in anticipo dove essi ci condurranno: “La storia – contrariamente all’opinione di alcuni studiosi – non è finita con il crollo del socialismo reale. La storia è più che mai aperta al possibile. Ed è proprio questo che, insieme alla conoscenza del passato, ci rende curiosi nei riguardi del futuro”.

Il premier Ddr Hans Modrow

Hans Modrow fu l’ultimo premier della DDR (Deutsche Demokratische Republik, Repubblica Democratica Tedesca) prima delle elezioni parlamentari del 18 marzo 1990, le prime ed uniche “libere” elezioni nella Germania dell’Est – quelle precedenti essendo state caratterizzate dal sistema di voto monopolizzato dal Fronte Nazionale. Il socialismo nei colori della DDR, afferma l’autore, fu una realtà contraddittoria e un processo incoerente, determinato da diversi fattori: tentativi contingenti di trasformazione e rinnovamento, stagnazione e repressione, influenze esterne e crisi interne. Questa sua condizione lo accompagnò fino alla fine.

Così come la storia tedesca non è mai stata il risultato di sole fatiche tedesche, la fondazione della DDR aveva avuto i suoi precursori in patria e all’estero. Rispetto ad altre nazioni europee, la Germania si era formata come stato unitario relativamente tardi. Il Sacro Romano Impero della nazione germanica contava, fino al XVIII secolo, trecentocinquanta stati sovrani di varie dimensioni territoriali; Napoleone e le successive guerre di liberazione ne ridussero di gran lunga il numero. Il Congresso di Vienna, sotto l’egida di Metternich, riorganizzò nuovamente la Germania: la Confederazione germanica fu un’unione di trentanove stati divisi da barriere doganali, valute, religioni, dinastie. Che i vicini vedessero di buon occhio questo paesaggio frantumato dalla storia e dal loro stesso intervento corrispondeva al principio del “divide et impera”. Bismarck, il cancelliere prussiano, forgiò l’impero tedesco “con sangue e ferro” nelle guerre contro la Danimarca, l’Austria e la Francia. Si trattava di una necessità storica, ma questa nascita improvvisa portava con sé tutti i difetti di ciò che è tardivo. La Germania cercò di recuperare, in fretta e violentemente, ciò che altri stati-nazione avevano costruito e conquistato nel corso dei secoli e che ora dovevano difendere dal nuovo contendente sorto al centro dell’Europa: mercati, materie prime, colonie. Questo fece divampare una guerra per la nuova spartizione del mondo.

A Versailles, i vincitori della Prima guerra mondiale dettarono ai vinti le condizioni della vergogna e infine, cosa inaudita, l’interpretazione dei fatti: la Germania aveva provocato la guerra, gli altri erano soltanto vittime e non carnefici. Questa menzogna ebbe almeno due conseguenze fatali: in primo luogo, la maggioranza dei tedeschi meditava la vendetta e la rettifica di quel verdetto. Questo spiega in parte il rapido successo dei nazionalsocialisti, che furono i più rumorosi nel protestare contro le sanzioni del Trattato. Al termine della seconda guerra mondiale, la pena per gli sconfitti fu l’occupazione del territorio e la divisione politica, economica e culturale. La creazione di due stati tedeschi fu il prezzo da pagare per l’esito rovinoso del conflitto.

Dalla prospettiva di Mosca, sia durante la Guerra Fredda sia durante la distensione, la zona di occupazione sovietica, che in seguito divenne la DDR, avrebbe dovuto svolgere diverse funzioni nei confronti dell’Occidente: soprattutto, era l’occasione per un tentativo di edificazione del socialismo in un paese capitalista industrializzato. Le relazioni con i tedeschi avevano una lunga tradizione: tra le due guerre, Berlino e Mosca erano in buoni rapporti, basta ricordare i trattati di Rapallo, in cui i due reietti della comunità internazionale si accordarono per la cooperazione, oppure l’intensa attività commerciale tra le due nazioni fino alla prima metà del 1941. Il calcolo di Mosca era chiaro: la DDR era la punta di diamante contro l’Occidente, una zona cuscinetto per la sicurezza dell’Unione Sovietica, l’alleato più importante e il primo partner commerciale: una pedina importante nella partita contro l’Occidente.

Sebbene l’economia pianificata dall’alto fosse in grado di galvanizzare tutte le forze verso il raggiungimento di un obiettivo strategico, come la risposta al monopolio atomico degli Stati Uniti, la ricerca spaziale o lo sviluppo bellico in generale, tutto il resto si muoveva con estrema difficoltà. Il risultato, a lungo andare, fu un costante calo della produzione e quindi del tenore di vita dei Paesi socialisti. Si sviluppò un’economia sommersa a cui seguirono corruzione e nepotismo. Una schiera di funzionari privilegiati si serviva impunemente di tutto ciò che il popolo produceva.

Le fabbriche erano controllate dallo Stato ed erano economicamente e giuridicamente isolate l’una dall’altra: non esistevano né un mercato né alcuna relazione tra produttore e consumatore. Non c’era nessun proprietario, di conseguenza nessuno sentiva come proprio ciò che faceva e i direttori erano amministratori senza responsabilità. L’autorità centrale di pianificazione non disponeva di informazioni sufficienti su quali prodotti fossero effettivamente necessari al paese e in quali quantità. I prezzi non erano determinati dall’offerta e dalla domanda, cioè dal mercato, dal valore d’uso di una merce o dai costi di produzione, ma dall’arbitrio soggettivo dell’autorità. Dovevano rimanere stabili per ragioni politiche, indipendentemente dal fatto che le materie prime fossero diventate più o meno costose o che la produzione diventasse più efficace attraverso l’automazione.

Nel marzo del 1985, Michail Gorbačëv fu eletto Segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Figlio di un bracciante agricolo originario delle colline del Caucaso settentrionale, aveva fino ad allora perseguito la classica carriera di partito e non si era particolarmente distinto nel presentare idee o suggerimenti coraggiosi. A differenza dei suoi predecessori, non era stato direttamente influenzato dalla “grande guerra patriottica” e dalle sue impronte psicologiche. Nell’estate del 1942, il suo villaggio era stato occupato dai tedeschi per quattro mesi. Ma ciò che si impresse di più nella sua memoria, in maniera forte e persistente, fu l’inizio delle deportazioni dopo il ritiro dei tedeschi. Già durante la collettivizzazione dell’agricoltura negli anni Venti e Trenta, la famiglia di Gorbačëv aveva sperimentato disagi e oppressione; suo nonno era stato vittima della polizia segreta e fu deportato in Siberia. In poche parole: la paura di un nemico esterno, che in Unione Sovietica per generazioni aveva prodotto e mantenuto un bisogno ipertrofico di sicurezza, sembrava essere, sulla base dell’esperienza stessa di Gorbačëv, non più grande della paura dell’apparato di sicurezza interno. Nelle sue prime dichiarazioni, oltre ad assicurare che avrebbe aderito alle precedenti decisioni del Partito e al miglioramento del socialismo, non fece alcun cenno ad un nuovo corso della politica.

In confronto ad altri leader sovietici, appariva disinvolto e aperto. L’ondata di simpatia con cui fu accolto all’estero fu probabilmente una reazione a questo sorprendente contrasto con i suoi predecessori e anche le menti più critiche avevano riacquistato la speranza che il socialismo potesse ora liberarsi dai suoi rigidi ormeggi e dirigersi verso nuove rive. Del resto, i decenni passati avevano dimostrato che i cambiamenti avrebbero potuto aver luogo solo se le idee fossero partite dal centro del potere. L’Unione Sovietica era la potenza guida e il Partito comunista l’avanguardia del progresso umano. Aveva determinato l’evoluzione, il ritmo e la direzione degli eventi. E ora la potenza guida era tornata sulla scena mondiale.

Gorbačëv aveva quindi aperto le dighe. Ma ciò che si presentava come perestrojka e glasnost’ – le parole d’ordine dell’epoca – era davvero la chiave per risolvere i problemi che si erano accumulati nel tempo? E se la risposta fosse stata positiva, quali sono retrospettivamente i motivi per cui la riorganizzazione non ebbe successo? Quando e in che modo il suo decorso sfuggì di mano? Il vero scopo della trasformazione del socialismo era la sua abolizione o il socialismo avrebbe potuto davvero compiere un salto qualitativo in direzione dello sviluppo e del miglioramento? Il libro è colmo di quesiti, un invito a riflettere.

Glasnost’ voleva dire “trasparenza” e quindi apertura degli archivi, diffusione di argomenti un tempo tabù, formazione della volontà politica dal basso. Sembrava che il senso fosse prima di tutto di illuminare tutti gli angoli sporchi del socialismo reale in Unione Sovietica. In questo, Gorbačëv aveva ragione: se una casa è costruita sulle menzogne, le sue fondamenta non potranno mai sostenerne il peso.

Secondo la dottrina leninista, sarebbe stato possibile arrivare al socialismo in diversi modi; di conseguenza, Gorbačëv permise agli Stati fratelli di seguire da quel momento la propria strada. Tuttavia, e questo fu uno dei suoi errori di ragionamento, l’affrancamento dalla tutela sovietica non ebbe solo conseguenze positive. Era ingenuo pensare che da allora le forze riformatrici avrebbero automaticamente assunto i vertici dei partiti al potere per iniziare in ciascun Paese le necessarie trasformazioni. In questo modo, Gorbačëv fece sì che Mosca stessa si ritrovasse con le mani legate: anche se avesse voluto, da quel momento non avrebbe più potuto intervenire nelle scelte dei partiti fratelli, senza venire accusata di ipocrisia.

All’obiezione secondo cui una radicale trasformazione socialista avrebbe comportato difficoltà e conseguenze imprevedibili si può opporre il fatto che il passaggio all’economia di mercato non ha nemmeno lontanamente risolto nessuno dei problemi esistenti. Al contrario, ha generato un forte sradicamento sociale, che probabilmente ha avuto conseguenze che non ci sarebbero state se tali complesse riforme sociali ed economiche fossero state portate avanti seguendo un’impostazione di tipo socialista. La liberalizzazione dei prezzi, il mancato pagamento dei salari, la disoccupazione di massa, la mancanza di sicurezza sociale, la permanenza dell’economia sommersa e della corruzione, il rifiuto da parte delle imprese di pagare le tasse, la fuga di capitali all’estero, ecc., tutti questi fenomeni sono stati all’origine di conseguenze ben più gravi rispetto a quelle che ci sarebbero state con un vero processo di riforma”.

La DDR e gli altri Paesi socialisti – afferma l’autore –non furono semplicemente traditi o “venduti” da Mosca all’utilità del capitalismo internazionale; la grande potenza sovietica, è vero, trascurò di rappresentarne gli interessi con coerenza e perseveranza. Interessi che, in definitiva, erano anche i suoi. Tuttavia, almeno nel suo fallimento, Mosca fu coerente: nemmeno gli interessi dei popoli dell’Unione Sovietica furono seriamente rappresentati. La fine dell’URSS fu una logica conseguenza.

Il socialismo reale ha fallito, ma il capitalismo non ha vinto. È solo ciò che è sopravvissuto e le sue caratteristiche sono le tensioni sociali crescenti, le guerre e i conflitti regionali, lo sfruttamento dell’uomo e della natura, l’ingiustizia dentro la società e nelle relazioni tra gli stati, la minaccia nucleare e l’autodistruzione. Oggi più che mai, vediamo che il capitalismo selvaggio non è assolutamente in grado di risolvere i problemi del mondo. In un’economia in cui il profitto è considerato il bene più alto, dove tutto è valutato per la sua utilità e viene trattato e scambiato di conseguenza, gli interessi dell’uomo vengono persi di vista a meno che non abbiano un impatto sulle condizioni della produzione. Le multinazionali pensano e agiscono solo per ragioni economiche e non per il benessere delle persone o nell’interesse del mondo in generale. Clima, ecologia, risorse naturali, cibo, lavoro, istruzione, alloggio, cure mediche ecc. non possono essere regolati esclusivamente dall’economia di mercato. Ciò significa che, se l’umanità non vuole uccidersi lentamente e distruggere il pianeta, è necessario cercare di lottare per un modo diverso di vivere e di produrre. Da socialista dico che questo modo potrà essere solo socialista e democratico”.

L’appello dell’anziano socialista è che le forze politiche che si considerano genericamente “di sinistra” non si limitino alla sola critica delle condizioni esistenti, ma devono anche sviluppare progetti praticabili per il futuro a cercare di ottenere il favore delle maggioranze all’interno della società e nel mondo. Certo, la storia non si ripete, e il presente non può essere paragonato al dopoguerra. Ma oggi come allora è evidente che il capitalismo non è in grado di risolvere i problemi esistenziali dell’umanità.

Socialismo e democrazia non sono incompatibili, anche se il nostro tentativo di rimodellare il socialismo in questo senso ha fallito. […] È necessario impegnarsi in un dibattito aperto e scientifico sul futuro e trovare il coraggio di cercare alternative al capitalismo in declino e cominciare a metterle in pratica”.

 

Gabriele Sabetta

Gabriele Sabetta su Barbadillo.it

Exit mobile version