Cultura. “La polemica anticristiana dei filosofi antichi” nel saggio di Zambon

I rapporti tra cristianesimo e paganesimo sono stati interpretati secondo disparate modalità. Lo scontro/incontro tra le due visioni del mondo è stato letto, fin dal momento in cui la «buona novella» fece irruzione nella compagine dell’Impero romano, sia in termini di netta discontinuità, sia, al contrario, in termini di continuità, sia pure nella differenza. Il dibattito in tema è aperto da due millenni e non si è ancora concluso. Si pensi, a riguardo, alle tesi sostenute da pensatori del calibro di Chateaubriand, di Heidegger e di Evola. E’ finalmente a disposizione degli studiosi, ma anche dei semplici lettori, un lavoro davvero rilevante in tema. Ci riferiamo al saggio, ampio, documentato e organico, dato alle stampe da Marco Zambon, docente di Storia del cristianesimo antico e medievale presso l’Università di Padova, per i tipi di Carocci editore, «Nessun dio è mai sceso quaggiù». La polemica anticristiana dei filosofi antichi (pp. 550, euro 46,00). Il volume è impreziosito da una bibliografia davvero esaustiva. Il titolo riporta una citazione di Celso, platonico vissuto al termine del II secolo d.c., e autore di una confutazione sistematica del cristianesimo.

   Le sue parole: «Indicano nella dottrina dell’incarnazione del Logos di Dio una delle espressioni più evidenti dell’insensatezza e del carattere non filosofico del cristianesimo, poiché essa implica l’affermazione che il principio divino della realtà sarebbe divenuto […] parte dell’insieme di enti determinati che da esso derivano» (pp.13-14). Il senso del volume è racchiuso in questa affermazione: il cristianesimo per i pensatori antichi era una fede, non una dottrina filosofica. Zambon analizza, a scopo di dimostrazione, una messe documentaria notevolissima, per la prima volta a disposizione del lettore. Lo fa, peraltro, servendosi di una prosa coinvolgente e felice, che rende il testo accessibile a tutti, senza, per questo, venir meno alla scientificità che conviene alla saggistica accademica. Il lavoro è articolato in quattro parti. Nella prima vengono presentate le pagine di due autori cristiani, Minucio Felice e Eusebio di Cesarea, vissuti tra il III e il IV secolo, che riportano le tesi dei critici della nuova religione. Dalla sua lettura si evincono, in sintesi, le obiezioni che al cristianesimo saranno mosse anche in epoche successive, da quanti resteranno fedeli alla prisca religio. 

   Nella seconda parte, vengono esposte, in particolare, le obiezioni etico-politiche al cristianesimo, nella terza quelle filosofico-dottrinarie. L’ultima parte del libro è connotata dall’esegesi della condizione giuridica vissuta dai cristiani prima e dopo Costantino: in essa l’autore si sofferma, soprattutto, sulle persecuzioni patite, nel corso del tempo, dai seguaci di Cristo e discute le reazioni che, di fronte ad esse, tennero gli intellettuali. Zambon rileva che tutto ciò che è stato prodotto contro i cristiani: «ci è noto in modo frammentario e indiretto» (p. 423). Per intero ci è giunto il trattato plotiniano contro gli gnostici e quello di Alessandro di Licopoli contro i manichei. Al contrario, Celso, Porfirio, Giuliano e Ierocle li conosciamo, per lo più, attraverso fonti cristiane. L’esegesi dei testi mostra come la contesa, una sorta di discorrere tra sordi, risentì del tratto che connotava di sé la «polemica» nel mondo antico. Questa mirava: «più a confutare con ogni mezzo un avversario che a dialogare con lui» (p. 424). L’anticristianesimo dei pensatori ellenistici ha tratto dottrinario: i cristiani pretendevano di essere i soli veri filosofi e sostenevano di trarre il contenuto della loro presunta sapienza, non dai Maestri della tradizione ellenica, bensì da un corpus di testi di dubbia qualità stilistica e speculativa (Antico e Nuovo Testamento).

    Celso era convinto che le religioni dell’Antichità potessero essere riconosciute nel loro quint’essenziale valore, dall’uso sagace del nous, dall’esercizio filosofico, ma non il cristianesimo, il cui principio fondante non era un atto razionale, ma atto di fede. Se i cristiani avevano tentato di presentare il proprio credo in termini speculativi, ciò aveva semplicemente intorpidito le verità della filosofia greca. Inoltre, mentre i platonici ellenistici ritenevano che la verità potesse manifestarsi in forme diverse nelle tradizioni religiose dei popoli, per cui spettava al filosofo, al di là dalle varie forme che essa aveva assunto nel suo darsi storico, rintracciarne l’unità trascendente, i cristiani, al contrario, pensavano la verità in termini esclusivi: «ritenevano di essere i soli depositari e amministratori della piena rivelazione, fatta da Dio agli uomini nella persona del Cristo» (p. 428), si sentivano, dopo gli Ebrei, il «nuovo popolo eletto». Pur accettando le scritture ebraiche, i cristiani si differenziavano dai loro progenitori nel culto, presentandosi quali latori del novum. 

    Dicevano il loro sapere esser frutto di rivelazione. Esso non: «era di tipo logico-concettuale, ma era collegato ad un’esperienza concreta» (p. 429), la conversione, che cambiava modo di guardare il mondo, in chi se ne fosse fatto interprete. Questa la paradossale «vita filosofica» dei cristiani. Non la gnosi, ma la fede e la grazia diventavano strumenti di salvezza, pertanto, nell’ottica dei pensatori platonici: «il cristianesimo non poteva essere identificato come una filosofia» (p. 430). La diversità cristiana, come ricorda Minucio Felice, indusse i primi fedeli ad isolarsi dal mondo, ad appartarsi in comunità. Furono criticati per l’idea di fratellanza che diffondevano, ritenuta sovversiva dell’ordine gerarchico dell’Impero e accusati di nefandezze, quali l’incesto e la pratica dell’orgia (come, in precedenza, era accaduto ai cinici). I polemisti pagani, di contro alla fede nel Cristo, suggerivano, rispetto alle cose ultime, una forma di scetticismo socratico, di sospensione del giudizio, alla quale facevano seguire un atto di ribadita fedeltà alla Tradizione dei padri. La religio riconnetteva la comunità, la superstitio tendeva ad atomizzarla. Il cristianesimo impose, inoltre, l’idea della creazione del mondo dal nulla da parte di Dio: essa finiva con il desacralizzare la physis, il cosmo. L’attributo del Santo, da allora, spettò esclusivamente a Dio, trascendente la realtà: il mondo non poteva che essere emendato, cambiato dall’azione dell’uomo.

   Ha, quindi, ragioni da vendere Zambon nel rilevare che con la teologia cristiana non giunge semplicemente a conclusione la filosofia ellenica, ma si inaugura: «una nuova fase della storia del pensiero umano e di questo i loro avversari platonici si erano resi conto» (p. 431). Con il cristianesimo, stante l’esemplare lezione di Karl Löwith, fu inaugurata la prospettiva lineare e «futuro-centrica» della storia, latrice dei drammi inenarrabili della modernità.

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Giovanni Sessa

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