Cult. “Cuore e acciaio: le arti marziali al cinema”: da Bruce Lee a Kill Bill

Negli anni Settanta relegato nel ghetto del cinema di genere, il filone cinematografico dedicato alle cosiddette “arti marziali” è stato promosso in serie A all’inizio del nuovo millennio, un po’ per merito del Tarantino di Kill Bill 1 e 2 , in parte grazie alle produzioni storiche come Hero, La foresta dei pugnali volanti e La Tigre e il Dragone, che hanno segnato l’ingresso delle pellicole del Celeste Impero al vertice degli incassi mondiali. A rendere onore, e soprattutto a raccontare con passione e competenza, la storia del “cinema da menare”, giunge nelle librerie Cuore e acciaio. Le arti marziali al cinema (Bietti pp 154 €18), un saggio di Mauro Gervasini con prefazione di Tito Faraci. L’autore è docente universitario e soprattutto praticante di Aikido, ovvero, per dirla in breve, sa di cosa parla non soltanto perché lo ha studiato ma soprattutto perché lo ha vissuto in prima persona. Come efficacemente riassume il titolo, un’arte marziale è, infatti, questione di passione (cuore) e disciplina (acciaio), due qualità che, contrariamente a quanto accade generalmente nel mondo del cinema, sono necessarie anche ai protagonisti di queste pellicole, che non di rado sono praticanti o addirittura Maestri di qualche stile da combattimento. Bruce Lee, ad esempio, inventò il suo personalissimo ed efficacissimo stile, il Jeet Kun Do che, come spiega Gervasini, nato per affrontare i combattimenti da strada, si è evoluto fino a diventare, appunto un Do, ovvero una via di realizzazione spirituale.

Una immagine del film Kill Bill

Allo stesso modo, scopriamo leggendo il libro, hanno praticato arti marziali, sempre ad alti livelli, attori come Chuck Norris, Steven Seagal, Jackie Chan e persino James Coburn, tanto per rimanere ai nomi familiari anche al pubblico occidentale. Gervasini non scrive un manuale di arti marziali e neppure un dizionario del cinema orientale, ma racconta le suggestioni, epiche e drammatiche, di centinaia di pellicole che, prima di essere cinema di intrattenimento, hanno raccontato e, a volte, costruito, la storia di grandi paesi lontani, come la Cina, il Giappone e, ultimamente, le Filippine e l’Indonesia. Registi come Kurosawa, il più noto fuori dal Giappone, ha inserito in quasi tutte le sue pellicole l’etica del Bushido, la Via del Samurai che, tra il disonore e la morte, sceglie immediatamente la seconda. Ecco, allora il fondersi di storia e realtà, come nel caso di Mishima, scrittore, attore e Kendoka, che nel cortometraggio del 1966 Patriottismo recita con eccessivo realismo il seppuku che farà davvero, aprendosi il ventre, lontano dalle telecamere ma imitato dai suoi allievi, il 25 novembre 1970. 

 Oltre al dramma storico, e alle vicende di guerrieri più o meno moderni, comunque, i “film di kung fu”, raccontano soprattutto della crescita spirituale dell’allievo che, grazie all’incontro con un Maestro, impara a disciplinare la naturale aggressività dell’uomo per metterla al servizio delle virtù. Non è un caso, infatti, che tutti i Kata (forme codificate) di ogni disciplina, inizino con una tecnica di parata, e che, invariabilmente, tutte le pellicole finiscano con il Bene che trionfa sul Male, o comunque lo contiene. Memori dell’insegnamento Zen che intima di non prendersi mai troppo sul serio, attendiamo ora impazienti un nuovo saggio sull’ironia nel “cinema da menare”, dove troveranno sicuramente spazio il John Landis demenziale del Kentucky Fried Movie, il Sensei appassionato di telenovelas de Il mio nome è Remo Williams, gli invincibili Shaolin Soccers e persino la saga di Kung Fu Panda perché, come ammonisce il Signor Ping bisogna: “Servire sempre con un sorriso” . 

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Luca Gallesi

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