Libri. Franco Califano interista de’ Roma in “Ogni benedetta domenica” di Paglialunga

califanoNon bisogna toccare nemmeno una parola, aprire le virgolette e riportare. «Calcio: se alla palla fa gol, se alle palle fa male». Dal vocabolario creativo di Franco Califano, dove passioni, goliardia e verità sono state sempre insieme, tra riflessioni e sorrisi sul blog che aggiornava ormai di rado, eppure era capace di lasciare il segno. È un’ammissione, una conferma ulteriore di come anche una vita vissuta intensamente non ha potuto prescindere da quello che è culto comune per gli italiani. Tra il Califfo e il pallone c’è stata una storia di tifo, amore, amicizie e rivelazioni, pensieri sfrenati e caciara continua. Fino alla fine Franco non ha tolto la sciarpa dal collo e il nerazzurro dal cuore, ma si accendeva per una partita con sempre meno frequenza: da quando ormai aveva superato i settanta, ciò che era stato era stato e non esporsi alle violente sollecitazioni del tifo da campo era comunque un consiglio. Ma Franco Califano il calcio l’ha vissuto come una mania, con intensità emozionale come si fa con un amore antico e duraturo.

Per il pallone palpitava ancora per l’Inter, aggiungendo un’altra bizzarria al lungo elenco che già aveva provveduto a compilare da solo: era nato a Tripoli (in realtà per caso: era in aereo e si atterrò d’urgenza nella capitale libica, nel 1938 colonia italiana); era originario di Pagani, dove pure il calcio ha la sua tradizione con una società nata nel 1926 e dove le prime volte si giocava nelle vasche di raccolta dell’acqua piovana; era cittadino romano, città in cui più a lungo stai più sei costretto a scegliere se essere di una o dell’altra squadra capitolina per sentirti integrato davvero. Dunque non avrebbe avuto alcun titolo e soprattutto alcuna giustificazione per tifare per l’Inter, squadra con cui, a leggere la storia del Maestro, non avrebbe avuto alcun contatto. Invece è così: «Il mio tifo per l’Inter è nato con un motivo semplicissimo: mio zio, che era interista, mi portava da piccolo con lui allo stadio a vedere solo l’Inter. Dunque mi è rimasta questa passione. Sono tante le cose che ti si attaccano addosso da bambino e non vanno più via, il tifo per una squadra è tra queste. Poi ho vissuto nove anni a Milano, quindi sono stato vicinissimo alla squadra, a tutti i dirigenti, con qualcuno sono diventato molto amico e quindi ho continuato, il rapporto è cresciuto ma era già nato. La passione ha sempre qualcosa da cui alimentarsi: non finisce da sola e nemmeno la puoi buttare. Così io non ho cancellato nulla e ho trovato altri mille motivi per essere nerazzurro».

La beneamata e l’amatore, la squadra che della sua pazzia ha fatto letteratura e una canzone e chi ha scritto canzoni pazze, poesie, monologhi e altre varie forme d’arte verbale: stanno bene insieme. Il feeling sembra naturale e peraltro è diffusa la convinzione – tra gli interisti, ovviamente: una sorta di auto-analisi narcisistica uguale in ogni tifoseria – che l’Inter sia squadra per gli artisti proprio per la sua capacità di fare imprese impossibili e grandi tonfi, avere continui cambi d’umore senza essere mai uguale a se stessa, inventarsi ogni domenica una storia nuova in novanta minuti. L’Inter ha fantasia nei sentimenti e agli artisti questo piace, quindi attrae. Figurarsi quanto piaceva a Franco Califano, che però dai grandi tonfi della sua vita è uscito sempre «perché il fatto non sussiste» e quindi se l’è goduta tutta come un grande successo.

Con l’Inter ha vissuto molto, sentendosi quasi addosso il contatto con la squadra del cuore. Merito del suo modo di vivere le emozioni e anche degli anni passati sotto la Madonnina, nei quali con molti tra giocatori e dirigenti ha stretto rapporti sinceri. Di risate, canzoni e passione sfrenata, mai nascosta perché essere amico di Franco era cosa di cui vantarsi, altro che. Una volta, ad esempio, Gian Maria Cazzaniga, che sapeva dell’affiatamento tra Franco e Zenga, unì i due con un delizioso tratto di penna, fatto in modo da apparire ai più impercettibile. Alla Z il dizionario dice Zenga, e Califano raccontava che il giornalista «nelle sue pagelle e dopo una strepitosa partita del portierone, lo chiamò Califfo. Per come mi stima Gian Maria e per come stima Zenga, ha voluto fare un complimento a entrambi. Me l’aveva promessa una citazione su un suo articolo ed è arrivata. Non poteva accostarmi a un atleta più grande».

Tifare è una storia d’amore anche per il Maestro, ma diversa dalle migliaia di conquiste di una vita da amante latino che gli hanno costruito una nomea invidiabile o meno a seconda dei punti di vista, ma che comunque ne hanno fatto un mito per i seduttori di ogni età. In effetti il calcio può permettersi metafore che sono pure sessuali (e il gol, tanto per dirne una, lo è), ma intanto non ammette tradimenti, è una passione lunghissima, non una roba da una sera soltanto. «L’Inter è diversa da ogni altro tipo di affetto e da ogni altro tipo di piacere. È qualcosa di particolare, come giustamente direbbe ogni tifoso parlando della sua squadra».

Il rapporto Califfo-pallone era tutto nella risatina che accompagnava ogni parola, ogni frase, ogni secondo prima della risposta, mentre riavvolgeva il nastro dei ricordi per arrivare a «quella volta che…»: dettagli capaci di restituire in modo trasparente il divertimento di chi stava raccontando come aveva vissuto il calcio e il divertimento che è proprio del calcio. Risatina anche perché non ci può essere il primo ricordo legato al pallone: «È passato tanto tempo, non posso avere una memoria così potente. I ricordi però sono tanti e sono belli. Molti sono legati alle persone che ho incontrato: sono particolarmente affezionato ai Moratti, innanzitutto, e poi al periodo in cui vivevo a Milano, gli anni di Altobelli, Beccalossi, amici sinceri. Un periodo molto bello anche per me, soprattutto perché ogni volta che con il pensiero torno indietro mi scrollo qualche anno di dosso».

È un incontro tra totem nazionali, quello del calcio e Califano, attraversa generazioni di appassionati (del calcio) e fan (del cantante), e trova inattesi punti di contatto proprio nell’intensità dei sentimenti da vivere. C’era più pallone di quanto si possa immaginare nella vita di Franco, c’era l’Inter e «tutto il resto è noia. È ovvio che se dovessi scegliere una canzone per la mia squadra sceglierei questa». Siamo molto oltre il tifo, proprio dentro una vita e una miniera di aneddoti, raccontati, alcuni dimenticati, ma alla fine quasi tutti recuperati da qualche parte. Dall’anello nerazzurro indossato per simboleggiare lo spirito interista, alla festa nello spogliatoio quando l’Inter di Trapattoni, quella dei record, vinse lo scudetto, con tanto di ingresso in campo e acclamazione della folla, agli incontri con Beccalossi e Altobelli, la telefonata commossa di Spillo quando fu assolto dalle accuse nel processo che coinvolse anche Enzo Tortora, la cartolina speditagli in carcere durante una delle sue disavventure dal ritiro della Nazionale con tutte le firme dei giocatori, voluta da Facchetti. Fino al matrimonio di Maradona, ovvero chi, il Califfo ha sempre raccontato, la prima volta che è uscito di casa a Napoli fu per andare a un suo concerto. Ci sono storie che scuotevano i sentimenti di Franco con sistematicità: le ricordava, sorrideva, senza aggiungere altro. Ascoltava e rispondeva con la sua voce inconfondibilmente roca, come consumata da anni di canzoni e sigarette. Anche il calcio, almeno fino a un certo punto, ha vissuto al massimo: «A un certo punto ho smesso di essere il tifoso isterico di una volta, diventando un tifoso normale, abbastanza appagato perché sono un tifoso vincente, perché ho visto tanti successi. E quando non abbiamo vinto è solo perché ci stavamo riposando». Risata, ancora, che certe volte sembrava essere una risata amara, perché il tempo avanza e il calcio ha ritmi diversi da quelli dei quali sei innamorato.

Non puoi nemmeno farla diventare un’ossessione per gli altri come è stato per te, perché già c’è un’altra partita e c’è il turnover e tutte le modernità che allontanano il pallone dalla mitologia. Ma non del tutto, o almeno mai del tutto. Resta sempre quell’attrazione persino inconscia, che ti fa pensare alla tua squadra – se per te rappresenta davvero molto – mentre nemmeno te ne stai rendendo conto. A Franco era capitato in modo inequivocabile, ignaro sotto le telecamere, di recitare la formazione dell’Inter nel sonno. Era il 2006, partecipava a Music Farm, reality musicale negli anni del pieno boom del genere televisivo con vite varie ostaggio delle inquadrature.

Nel momento forse più vero in assoluto di trasmissioni di questo tipo, quando dormi e non hai difese ma solo pensieri in libero galleggiamento ecco che «…ma la formazione dell’Inter te l’ho detta? Toldo, Materazzi, Wome, Cordoba, Zanetti…» e le immagini che cominciano a girare in rete e in altri contenitori perché questo è un momento che a suo modo ha fatto storia: «Stavo sognando, ma era un periodo in cui l’Inter la vedevo dappertutto. Non so se mi è capitato anche in altre occasioni di parlare di calcio nel sonno, perché non dormendo abitualmente con nessuno non c’è chi può raccontarmelo. Però pensare a quell’episodio è sempre divertente».

Anche il sogno era aggiornato perché era la formazione di quell’anno e Califano quindi superava il valore epico che ogni interista attribuisce a Sarti-Burgnich-Facchetti-eccetera, la squadra che Helenio Herrera portò in cima al mondo. Teneva il tempo giusto e del resto nemmeno quella formazione andò male visto che lo scudetto del 2006 se lo trovò cucito sul petto, seppur a campionato fermo e per decisione del giudice sportivo. C’era Roberto Mancini in panchina, del quale Franco era sportivamente innamorato come lo era, non sportivamente però (ma virtualmente), di Sharon Stone, arrivando a dire tra le tante sue battute spassose che se l’Inter fosse stata donna sarebbe stata una Sharon tutta nerazzurra, quindi sarebbe stato innamorato a vita e avrebbe passato le sue giornate ad ammirarla, incantato. Tutto ciò che faceva parte della sua vita si intrecciava con il pallone, come un po’ nella vita di tutti i grandi appassionati e i grandi passionali. Non si dosano le emozioni né si programmano: scegli di tifare per una squadra senza farne una selezione ma per una sorta di infezione buona, uno zio decide di portarti allo stadio e quello che vedi ti si attacca addosso e ti resta, anche quando i risultati non vanno bene, anche quando non vivi nella città in cui tifare Inter è la cosa più comoda: «Dovessi fare un bilancio tra le gioie e i dolori che mi ha dato l’Inter direi che forse qualche dolorino in più mi è toccato. Ma non ho mai ceduto, sono rimasto fedele. Dico la verità: vivere a Roma ed essere molto amato dalla gente romana e anche dai ragazzi, basta per essere felici. Ma se fossi stato romanista sarebbe stata tutta un’altra storia, forse avrei avuto un successo doppio: bastava fingere un po’, sforzarmi di cambiare, essere ruffiano. Invece per molti amici, e per gli stessi romanisti, ho fatto bene a restare com’ero, apprezzano la mia lealtà. A volte la stessa onestà non si trova in altri artisti, visto che molti si sono messi a fare i romanisti solo per avere un tornaconto».

Il Maestro non ha cambiato: era di parte, della sua, sempre. Era di parte quando tifava. Voce «gol» del dizionario: «Quelli realizzati dall’Inter mi fanno libidine, gli altri mi fanno incazzare e mi sembrano tutti irregolari». E in fondo è così per chiunque abbia una squadra per cui palpitare e in uno stadio, o davanti alla Tv, durante una partita, si materializza ciò che disse Flaiano partendo dal calcio per finire in sociologia: «L’italiano ha un solo vero grande nemico: l’arbitro nelle partite di calcio, perché emette un giudizio». Nel vocabolario di Franco Califano tutto questo era racchiuso nella voce «arbitro»: «Alcuni sono l’esempio di come si può essere cornuti senza avere una donna». Perché si vive da tifosi in modo irrazionale, naturalmente esasperato: ci si immedesima così tanto nella propria squadra da consegnarle i ritmi della vita e gli umori di ogni giorno. Si potrebbe filosofeggiare o scriverne un monologo, che è la via scelta dal Califfo quando ha buttato giù Er tifoso. Scritto nella veste di sostenitore della Roma, ma la cosa non stride con la coerenza invocata prima e la distinzione dai colleghi ruffiani: «Per niente, e se non si è capito mi spiace. È dedicato a tutti i tifosi e siccome sono romano e parlo romano non potevo che farlo in dialetto romanesco. Per questo ho dovuto scegliere una squadra di Roma, tutto qui. Ma quello che dico fingendomi romanista lo dico per tutti i tifosi».

Er tifoso è quello che «è venerdì, comincia la mia attesa, sempre così quanno giocamo in casa: fino a domenica so’ come ‘n omo in coma, me po’ resuscità solo la Roma», una fotografia scattata da chi evidentemente questa condizione l’ha vissuta e che è in molti casi perfettamente aderente con chi si prepara davvero al weekend solo perché c’è la partita e si annoia invece se il campionato è in pausa, non avendo niente per cui parteggiare. Un’escalation di emozioni che un po’ accentua anche, ma molto ci azzecca se della scarlattina del figlio ti avvisano il lunedì per non turbare la preparazione mentale alla gara e la moglie al sabato sera ti eccita parlando della Roma e indossando un tanga mezzo giallo e mezzo rosso, fino a farti descrivere il rapporto come un’azione con tanto di gol e di figlio che si sveglia e «“che c’è papà, qui s’è sentito ‘n botto… hanno segnato? Er gol, ma chi l’ha fatto?” “La Roma… chi l’ha fatto… torna a letto” “Perché nun m’hai portato alla partita?” “Perché l’hanno giocata anticipata…”».

Il resto dei riti si concentra sullo stadio come luogo da raggiungere per vivere la partita e dal quale far ritorno per raccontare com’è andata. Perché il pallone visto dagli spalti non era più argomento centrale per Franco, ma lo era stato, con polemica inclusa: «Una volta per me il calcio era solo lo stadio. Preferivo guardarlo dal vivo, magari in uno stadio diverso dall’Olimpico perché all’Olimpico non si vede nulla e mi domando cosa stiano aspettando per cambiarlo. Poi è diventata comoda la Tv, soprattutto per uno come me. Per un ragazzo è sempre più bello e da preferire lo stadio, per coloro che sono avanti con gli anni la poltrona è insostituibile. E la domenica è diventata riposo, per scelta. Con molte partite da vedere, tutto quello che è sport in genere. Il calcio come priorità, l’Inter su tutti. Non ci fosse il calcio sceglierei il rugby, non ci fosse nemmeno il rugby sceglierei il pugilato. Però il calcio c’è…».

Il tifo spinge fino all’immedesimazione e non differisce, in questo, da ciò che muove i seguaci di un cantante: è una forma bianca di fanatismo in grado di stabilire il successo popolare di una squadra o di un artista. Chi conosce le canzoni di Califano ne ha sempre una in cui finisce per riflettersi e chi come Franco tifa Inter con un’anzianità di servizio che non tutti possono vantare, ha un giocatore nel quale identificarsi. Ad esempio Boninsegna: «Forse tra gli interisti mi somiglia più di tutti: in campo era un duro, sapeva restituire i calci che prendeva, diceva le cose in faccia. Un uomo con le palle. Caratteristiche che ritrovo in me». Risata, ancora: «Ma io sono molto ironico. E il calcio è un divertimento». Un divertimento serio, altrimenti Er Tifoso non sarebbe un uomo che soffre e cerca di dimenticare con dolcezza, portando moglie e figlio a cena anche se la Roma ha perso e si è giocata l’Europa e quindi bisogna ricominciare da capo, attendere una nuova stagione, passare altri weekend in cui per chi vive con lui è meglio non ammalarsi neppure. E poi un’altra partita, sempre lo stesso modo di tifare. Quel monologo è uno stato della mente ed è reale proprio perché a un certo punto tutto passa e il calcio non schiaccia gli altri sentimenti. Per chiunque, altrimenti è una malattia, e perché le occasioni per riscattarsi (o pensare di farlo) arrivano sempre a stretto giro. Certo, la sconfitta resta e i rinforzi servono (serve sempre qualche giocatore in più, quando si perde), quindi bisogna provvedere, altrimenti il tifoso ha una crisi di fiducia. In sintesi: «Ce manca a ogni settore ‘n elemento se no, chi lo fa più l’abbonamento?» Era il pallone per Franco Califano. Che non esclude il ritorno.

* da “Ogni benedetta domenica” di Fulvio Paglialunga (Add editore)

Fulvio Paglialunga

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