«Ti addormenti lentamente e non ti svegli mai più». Marieke Vervoort, campionessa paralimpica belga, immaginava la propria morte come l’apertura di una scatola rossa dalla quale vengono liberate delle farfalle bianche, invece, le ceneri dovevano essere disperse sull’isola di Lanzarote, dove la lava incontra l’oceano, e dove le piaceva tornare prima delle gare e a capodanno quando tutti aspettano la mezzanotte mangiando dodici chicchi d’uva e poi liberando mille palloncini nell’aria. E prima ha corso in Lamborghini, è andata a veder fiorire i ciliegi e cadere i lottatori di sumo in Giappone, e, soprattutto, ha vinto 4 medaglie paralimpiche: oro (T52 100m) e argento (T52 200m) in carrozzina alle Paralimpiadi di Londra 2012, argento (T51/52 400m) e bronzo (T51/52 100m) a Rio de Janeiro nel 2016. «Il miglior obiettivo che puoi avere è rendere felici le persone». E a quarant’anni ha deciso di porre fine alla sua vita con l’eutanasia, scelta avvenuta nel 2008, resa pubblica nel 2016, e messa in pratica martedì scorso; in Belgio si può fare attraverso il parere di tre medici che decretano l’irreversibilità e l’incurabilità della malattia e l’assistenza di uno psicologo. «Sono un Toro. Se voglio qualcosa, ci provo. Non mi arrendo mai facilmente». Marieke sapeva con Paul Valéry che ci sono infiniti noi che fanno quello che desideriamo e che ci lasciano nel corso della nostra vita fino a quando non rimaniamo soli per andarcene, lei si era divisa in due: quella in casa che soffriva e che diceva di avere 90 anni per i dolori, e quella fuori casa che si allenava prendendo antidolorifici, morfina e valium ma che non dimostrava i suoi 40, a legarle un dolore incessante, che un po’ alla volta ha spento il suo corpo, prima di scegliere era ridotta a mangiare solo budino, con le vene che rifiutavano gli innesti di liquido, un occhio dal quale non vedeva più e la paralisi che aveva raggiunto il torace con spasmi che sembravano crisi epilettiche ma erano urla del corpo. I medici hanno ipotizzato che la paralisi sia stata innescata da una deformazione tra la quinta e la sesta vertebra cervicale, ma non sono mai riusciti a spiegare l’intollerabile dolore, cominciato quando Marieke aveva 14 anni, da un tallone, come per Achille – anche lei non era stata immersa tutta nel fiume Stige – di cui aveva la valentia da guerriero. Il ritratto che ne fa suo padre Jos, professore in pensione di diritto tributario, è quello di una Pippi Calzelunghe che – a Diest, piccola città a 60 km ad est di Bruxelles – si arrampicava sugli alberi, giocava per strada con i ragazzi, correva in bici, nuotava in piscina ed era cintura marrone di jujitsu, e da grande voleva insegnare sport; poi la diagnosi, e l’obbligo di ripiegare sul basket con sedia a rotelle e il triathlon fino a raggiungere l’atletica che poi le darà tanta gioia, cercando di «ispirare più persone possibile» come ha raccontato nella sua autobiografia: “The Other Side of the Coin”, l’altro lato è quello che vedono in pochi: i fuori gara, che allo sforzo dell’allenamento aggiungono quello della condizione invalidante e nel caso di Marieke di un dolore incessante: «Nessuno lo sa, ma tre giorni prima della mia gara in Brasile ero in ospedale, perché costantemente ammalata e disidratata. Ero così arrabbiata, eppure sono arrivata seconda. Suppongo che quando sei pazzo, sei molto più duro del normale». E così è stato. Ma dietro le sue vittorie nell’atletica c’è stato un bravissimo coach, Rudi Voels, un amico tuttofare che l’ha accompagnata per anni agli allenamenti Eddy Peeters, e Zenn, il Labrador chiamato così perché riflesso della calma simile allo Zen, che era anche un maggiordomo che l’aiutava a vestirsi, raccoglieva tutto quello che cadeva a terra e lo porgeva a Marieke, apriva e chiudeva porte e quando lei perdeva conoscenza abbaiava per avvisare le infermiere e cominciava a leccarle il viso fino a farla rinvenire. Marieke Vervoort ha trasformato la sofferenza della corsa su una sedia a rotelle in cura, ha preso la decisione dell’eutanasia, ha avuto il permesso di morire ed è andata a vincere due medaglie a Rio2016 stringendo quelle carte, correndo leggera, sicura di avere una via di fuga che ha ponderato, rimandato, e poi accettato. Mentre il suo corpo si smontava, spegnendosi un pezzo alla volta, lei costruiva il suo addio, impilava i suoi ricordi belli, scriveva lettere per la fine, non saltava un allenamento e vinceva medaglie, scrivendo una biografia alternativa a quella avuta in sorte da un Dio che immaginava troppo cattivo per la pena inflitta. Alla fine ha sorriso anche a lui, dandogli uno spazio piccolo nella sua storia grande. [uscito su IL MATTINO]
Il caso. Marieke Vervoort, l’atleta paralimpica belga che ha scelto l’eutanasia
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