Formula 1. Auguri a Kim Raikkonen, il pilota che ha saputo rimanere umano

Nella sua ormai settantennale storia, la Formula 1 è stata fucina di grandi personalità. Tra queste, gli ultimi quattro lustri hanno fatto risplendere un personaggio, sicuramente il più improbabile: è Kimi Raikkonen.

Nato il 17 ottobre 1979 a Espoo in Finlandia. Molto si è scritto è troppo si è insinuato. Nemmeno troppo difficile farlo, vista la totale disaffezione dimostrata dal buon Kimi verso la parola, soprattutto nel mondo del lavoro. Ed è proprio quel “fallimento nel comunicare”, tanto caro ad Axl Rose che infatti lo ha inserito nell’incipit di Civil War, uno dei pezzi più celebri dei Guns N’Roses, a poter generare malintesi, se non addirittura pregiudizi.

Ecco, è proprio questo il punto: non credo sia mai esistito un professionista così completamente disinteressato dalle dinamiche del suo stesso ambiente, quasi da sembrare addirittura indifferente se non addirittura menefreghista. In realtà, giurano, che dismessi i guanti e il casco ed infilata una bella tuta larga con le pantofole, soprattutto da quando è diventato papà, Raikkonen non solo sia un chiacchierone ma addirittura sfoggi tutto un altro lato di sé, da vero uomo di casa. Eppure, nonostante gli assaggi che ne regala sul proprio profilo Instagram, il muro eretto per separare la propria sfera privata da quella pubblica è così granitico, da lasciare troppo poco spazio anche alla più idilliaca immaginazione.

Tra le più belle analogie dedicategli, in questo senso, vi è quella del giornalista Alberto Antonini che scherza con il giorno della sua nascita, non a caso avvenuta appena 44 giorni prima della pubblicazione del celebre concept dei Pink Floyd “The Wall”.

In quest’opera infatti, tra le canzoni si articolano le vicende di una celebrità musicale fittizia di nome Pink che arriva a costruirsi un “muro” mentale dietro al quale isolarsi. Questa sottile sfumatura può essere ulteriormente impreziosita con l’accostamento verso un’altra forma di arte che forse, è proprio il caso di dirlo, gli calza maggiormente a pennello. Stiamo infatti parlando dei quadri di Edward Hopper, esponente di spicco del realismo americano e raffinato cultore della solitudine, non soltanto di quella fisica ma in particolare di quella dell’anima. Dalle pennellate di Hopper traspare così la forza dell’incomunicabilità; una forza che quando esiste non può esser piegata nemmeno dai sermoni più articolati.

Fin qui dunque, questo insieme può apparire quello del classico ritratto di un ragazzo del nord Europa, cresciuto tra sgommate sul ghiaccio, hockey e forse qualche ora di pesca, in uno dei tanti sobborghi scandinavi. Il problema sorge quando si arriva a competere ad alti livelli in Formula 1, e soprattutto nella Formula 1 iper-mediatizzata degli anni Duemila, là dove alle centinaia di riunioni tecniche con gli ingegneri si sommano gli eventi con gli sponsor e le interviste. Già…le odiate interviste. Provate a mettervi nei panni di un cronista qualsiasi, ore spese per formulare almeno un paio di domande articolate che non cadano nella banalità, vi presentate in conferenza stampa per essere liquidati con un “si”, un “no” o se siete fortunati col più classico dei “let’s see what happens”. Da qualche parte deve esser già stato redatto un insieme con le massime o con le sue espressioni più iconiche. Per i profani questo atteggiamento può rasentare la maleducazione ma non è proprio così: a Raikkonen, nel suo essere genuino, basta salire in macchina, guidare e dare il massimo, senza poi nemmeno stare a guardare troppo il risultato. Una volta sceso, tutto quello che viene dopo, non essendo necessario, lo infastidisce. Lui, dal canto suo, non fa nulla per nasconderlo. Bastano due frasi fatte e tante spallucce.

Sia ben inteso, il talento è cristallino: in Australia, nel 2001, è sesto alla prima gara in assoluto (con annesso pisolino nell’abitacolo a pochissimi istanti dalla partenza) dopo che per fargli prendere il via era stata necessaria una speciale licenza, viste le sole 23 gare in monoposto disputate prima dell’esordio nel Circus. Il tutto, per sua stessa ammissione, senza che prima del test decisivo con quella Sauber avesse mai visto un Gran Premio in televisione. Richiesto di un parere, vi direbbe che per lui la Formula 1 non era un sogno ma semplicemente la migliore conseguenza del potersi guadagnare da vivere guidando vetture da corsa. Strano ma vero, per un’ammissione tanto genuina quanto riecheggiante come la peggiore delle bestemmie in chiesa.  Da quel 2001, il nostro comunque è migliorato: a quei tempi infatti, i pochi tratti idiomatici emessi venivano spiccicati non solo lentamente ma con un tono così basso, che spesso per sentirlo ci si doveva chinare verso di lui. Di contro, l’inglese, non certo shakespeariano nella sintassi, è rimasto sempre quello delle origini, anche perché Kimi, dislessico, ha sempre confermato il suo pessimo rapporto con i libri e con la lettura che lo riportano con la mente alla scuola, mai troppo amata perché << doveva fare ciò che altri gli imponevano>>.

Si potrebbe andare avanti per ore, elencando i mille aneddoti da poco resi pubblici nella sua biografia: da quando, tornato ubriaco e scoperto durante il servizio militare, dopo essersi nascosto, si becca una ventina di giorni da confinato ai 16 giorni consecutivi in preda ai fiumi dell’alcol in giro per l’Europa, tra Bahrein e Barcellona 2012, conclusi degnamente con un terzo posto nella stessa gara catalana. L’uomo, si può ben capire, oltre all’odore fumante della benzina non lesina le bevande ad alto tasso alcolemico. Addirittura, sembra che fino a pochi anni fa fosse anche un fumatore, esibendo la sigaretta addirittura al termine alcune riunioni tecniche. Oggi invece, da buon papà, Kimi ha smesso con questi vizi, o comunque li ha estremamente parcellizzati, anche perché questo stile di vita non proprio da sportivo, era stato in passato anche al centro di profondi dissidi con molti addetti ai lavori, primo su tutti il suo vecchio capo alla McLaren Ron Dennis.

Il rischio però, al di là del personaggio o meglio, del “non personaggio” che scientemente o meno Kimi ha contribuito a creare, resta quello di perdere di vista le doti grandissime che gli hanno consentito di districarsi tra diverse categorie, così come di mantenersi al vertice della lotta con almeno quattro generazioni di guidatori, da Hakkinen a Schumi, passando per Alonso, Hamilton, Vettel, fino ad arrivare ai giovani e rampanti virgulti Leclerc e Verstappen. Della sua lunga carriera, al di là dei numeri, delle statistiche e di qualche momento di “assenza” passato alla guida, restano almeno tre grandi perle: Suzuka 2005, con la vittoria ottenuta di forza su Fisichella dopo esser partito diciassettesimo; Austin 2018 con l’ultima, rincorsa fin troppo a lungo, vittoria in Ferrari; nel mezzo, quel simbolico Brasile 2007 e quel titolo mondiale, punto più alto di una vita in F1 che, per sua stessa ammissione, sta durando anche più di quelle che potevano esser le più rosee aspettative.

Quale sarà il futuro, nessuno può saperlo. C’è da scommettere però che fin quando avrà modo di divertire e di divertirsi, Kimi resterà nel mondo delle corse. Quando tutto ciò verrà meno, allora sarà arrivato il momento di lasciare, senza rimpianti o grandi dispiaceri. Come sempre.

Tanti Auguri Iceman

Lorenzo Proietti

Lorenzo Proietti su Barbadillo.it

Exit mobile version