Formula 1. Diciannove anni fa il primo titolo mondiale di Schumi con la Ferrari

Michael Schumacher

Se il sogno è il motore dell’uomo, la storia e la memoria ne sono il carburante emozionale. Non sempre però è facile rigenerare un ricordo, visto che troppo spesso non facciamo in tempo ad allungare la mano nelle acque della storia, che questo è già scivolato nell’oblio, inesorabilmente. In questo senso, il video e le telecamere, insomma, i media, hanno un potere immenso, sul quale non sempre ci si sofferma a riflettere. Là dove non arriva la tecnologia però, sicuramente arriva la passione.

Il 2000 è un anno lontano, sportivamente e storicamente parlando. Le Torri Gemelle sono ancora in piedi, mentre Belgrado era stata da poco bombardata. Nello stesso periodo, il web e il pc si affacciano definitivamente e prepotentemente nella vita economica e quotidiana delle persone.

In Formula 1, invece, gli addetti ai lavori si chiedono se finalmente quello potesse essere l’anno per il ritorno definitivo di quelle Rosse reduci dalla vittoria del campionato costruttori (il primo dal 1983) dell’anno precedente. A Maranello infatti, l’ultimo titolo piloti era quello del 1979 –praticamente era trascorsa un’eternità- e le tantissime mosse prese nel frattempo per riproporsi come una scuderia da titolo erano tutte di fatto fallite: in fin dei conti, dopo aver masticato e sputato le speranze di grandissimi piloti come Prost, Berger, Alesi, Mansell e aver buttato un cospicuo quantitativo di danaro, alla dirigenza era rimasta un’ultima pedina da muovere: l’ingaggio di Michael Schumacher e dei suoi tecnici fidati, tutti strappati –tedesco compreso- alla Benetton bicampione 1994-1995.

E così, accolto in uno scetticismo comprensibile, Schumacher arriva a Maranello nell’inverno 95 e comincia a lavorare. Dopo un 1996 di rodaggio condito da tre vittorie, per la squadra italiana le  annate successive sono un crescendo di prestazioni e di risultati. Dal 97 al 99 la Ferrari arriva sempre a giocarsi il mondiale all’ultima gara perdendolo sempre, vuoi per sfortuna, vuoi per errori.

Il 2000 dunque potrebbe essere l’anno buono, almeno sulla carta. Come sanno essere lontani quei tempi impreziositi dalla doppia diretta RAI-Telepiù con punte di oltre dieci milioni di spettatori in media, quando lungo le piste sfrecciavano ventidue monoposto con i V10. Quelle però sono anche  gare spesso delineate già dalle prime curve, con pochissima azione e ancor meno sorpassi. In molti casi, le uniche emozioni pervengono dai rifornimenti. Questa visione quasi fiabesca è comprensibile, posto che, come ogni volta che le cose ci riportano indietro nel tempo, la nostalgia suole cancellare gli aspetti meno belli o poco piacevoli delle vicende.

C’è però chi non pensa affatto che quella posta in essere fosse una stagione da dipingere in rosso, avendo anzi una striscia vincente aperta nel 1998 da mantenere: sono Mika Hakkinen e la sua scuderia, la McLaren. Vero team faro della fine degli anni 90, la squadra inglese può contare su un progettista geniale come Adrian Newey e soprattutto su risorse a dir poco smisurate, garantite dalla solidissima collaborazione con la Mercedes. E così, il grande duello Schumi-Hakkinen, interrottosi l’anno prima solo per il grave incidente di Silverstone occorso al primo, torna al centro della scena in tutta la sua luminosità. Certo, tra i due è il tedesco l’azzannatore, il cavallo purosangue in grado della rimonta sul bagnato, del sorpasso decisivo, come pure di gesti che andrebbero censurati in fascia protetta (vedasi Jerez 1997).  Il “finlandese volante”  però, dalla sua, oltre ad essere talento cristallino, possiede una velocità purissima ma anche una calma che gli consente di affrontare ogni situazione di gara senza eccessi indesiderati. Non c’è da sorprendersi se ai nastri di partenza, il numero 1 faccia bella figura sul musetto della sua vettura anglo-tedesca.

Nonostante la concorrenza agguerrita delle McLaren, cui in più non si possono tacere tante belle realtà di quella griglia, dalle Jordan alle Williams, passando per le Benetton, le cose si mettono subito bene per Schumi, con cinque vittorie nelle prime otto gare. Certo, va registrato un brutto ritiro a Montecarlo ma al di la di quello, le prestazioni velocistiche delle italiche F1-2000 fanno davvero ben sperare.

Il tedesco, infatti, si presenta alla nona gara su diciassette, il Gran Premio di Francia, con ben ventidue punti di vantaggio sull’inseguitore prossimo, che a quel punto non era nemmeno Mika Hakkinen, bensì il suo compagno Coulthard. In pochi possono saperlo ma è proprio dalle terre transalpine che il grande rivale finlandese comincia la sua inesorabile, sottile ma dominante rimonta. Dopo il secondo posto in Francia alle spalle del compagno, il numero 1 si prende la corsa austriaca e quella ungherese, ottenendo un ottimo secondo posto nel gran premio tedesco svoltosi sotto l’acqua e vinto da Rubens Barrichello con l’altra Ferrari. Nelle stesse quattro gare, l’alfiere di Kerpen ottiene un “misero” secondo posto in Ungheria, ritirandosi nelle altre occasioni, due volte per incidente e una volta –in Francia- per la rottura del motore, l’ultima prima di Giappone 2006, proprio quando in piena lotta con Alonso, la sua Ferrari esala l’ultimo respiro a diciassette giri dalla fine…ma questa è un’altra storia.

La rimonta Hakkinen, dopo averla completata all’Hungaroring, la legittima nel successivo evento, quello belga, corso sulla storica corsa di SPA.

Sulla valenza dell’edizione 2000 del gran premio belga si è dibattuto, in proporzione, sempre piuttosto poco, visto che il tono epico assunto dalla battaglia in quel contesto, arriverà forse un giorno a far parte di una qualche antologia per ragazzi. In fondo, gli appassionati vogliono soltanto questo, ovvero dei duelli che li rimandino a quel filone culturale a noi tanto caro, là dove gli eroi della Grecia Antica si sfidano all’ultimo sangue, al costo delle loro stesse vite, pur mantenendo sempre un atteggiamento di rispetto e di lealtà nei confronti dell’avversario.

L’appassionato mediamente informato, indipendentemente dal tifo, non può ignorare le fasi di questa gara, controllata da Schumacher nonostante un inseguimento furioso del suo rivale che aveva perso la testa per un suo errore al tredicesimo giro. Il ricongiungimento avviene al giro 40, con Hakkinen che prova una prima volta, venendo chiuso di forza e spinto verso l’erba; è a questo punto che l’inventiva del campione in carica si prende tutto il palcoscenico: siamo nel giro successivo e il tratto è ancora lo stesso. Michael e Mika si apprestano ad affrontare il rettilineo ma prima devono doppiare la BAR di Zonta che decide di restare al centro della strada. Così Schumi si allarga a sinistra e sorpassa il brasiliano. Quando però questi rientra in traiettoria Hakkinen non c’è più. Adesso è lui, Michael Schumacher, a trovarsi nello specchietto retrovisore della McLaren perché è successo che il suo alfiere ha deciso di prendersi la testa della gara, e dunque la vittoria, nella maniera più spettacolare ma anche più pazza, passando entrambi i piloti con una manovra all’interno. Il gioiello di Hakkinen, che a quel punto sembra una mazzata sui sogni di gloria della Ferrari, resta e rimarrà uno dei momenti più geniali e illuminanti di tutto lo sport dei motori. L’immagine del finlandese che spiega al suo avversario come lo ha passato, aiutandosi con le mani, è forse l’istantanea che meglio rende l’idea di quale rapporto intercorresse tra due piloti sicuramente non amici ma che, con il rispetto nelle loro lotte, si stimolavano l’un l’altro al massimo.

A Maranello, comunque, nulla è perduto e la doppia vittoria ottenuta in Italia ma soprattutto negli USA, dove il campione 98-99 si ritira, mette Schumi nelle condizioni di vincere il titolo già, quel titolo, nel successivo Gran Premio del Giappone. La pole  intanto viene messa via.

E’ domenica 8 ottobre 2000 e qui per un momento ideale si ferma la nostra memoria.  Sono momenti, parole, situazioni che ormai hanno trasceso non solo il presente ma anche la storia. Sono momenti questi che ormai sono lì, sospesi in quella dimensione ideale che è la leggenda, pronti ad essere esibiti in copia –visto che gli originali non sono più disponibili- qualche volta sfogati, qualche volta invece più nitidi.

Quella data rappresenta per tutti i Ferraristi più che la semplice fine di un digiuno ma anche molto di più che la prima fase di quella grande abboffata di titoli che sarebbe poi arrivata.

Non serve neanche sbobinare la cronaca di gara: la brutta partenza di Schumi con Hakkinen che prende la testa, la leggera pioggerella di metà gara, le strategie, il sorpasso avvenuto dopo il pit stop a tredici giri dal termine.

In Italia sono le ore 9:03’03” quando Schumi si prende l’iride, mentre Mazzoni, telecronista RAI sublima  il momento strillando nel microfono tutta la gioia di un popolo, esaltantandone soprattutto la commozione, con una tonalità limpida e grintosa ma allo stesso tempo pacata, roba che impallidisce a confronto con gli sbraiti giornalistici di oggi che si fanno per vendere il prodotto sport sulle televisioni a pagamento.

Quel “i colori dell’arcobaleno sulle insegne del Cavallino Rampante” resta tutt’oggi, a quasi venti anni di distanza, l’idioma simbolo di quella domenica elevatasi a pietra miliare delle nostre anime. Lungo tutta la penisola si susseguono i festeggiamenti: è tutto un fiorire di urla, gioia, campane a festa. Per la F1 in Italia, intesa anche come visibilità sui media, questo è sicuramente il punto più alto.

Nella gara successiva sarebbe poi arrivato anche l’iride costruttori. In pochi potevano crederci ma quello là sarebbe stato l’inizio di un filotto, conclusosi solo a fine 2004.

Quanti anni sono passati da allora, quante cose sono cambiate, a cominciare dai protagonisti. Molte volte questi cambiamenti fanno male; certo è che quel passato non può tornare. Ci possono sicuramente essere delle analogie ma guai a voler rivivere nello stesso modo le emozioni che si sono cristallizzate in quel 2000. Maneggiare un ricordo può essere un’operazione molto pericolosa. Allo stesso tempo però, parafrasando le scritture, nessuno perde la dimensione dell’umano come colui che non vuole rimembrare; anche perché, visti alcuni frangenti odierni la memoria, sebbene effimera, illusoria e ingannevole è sempre più spesso l’unico modo per ritornare e rincorrere le nostre origini e le nostre radici che sempre più spesso vogliono cancellarci. Vedere per credere.

 

 

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